“Tu faresti cadere le braccia anche a una santa,
credimi”
Questa era stata una delle prime frasi di senso compiuto che
gli avevo rivolto, o meglio, che Sua Maestà, il principe
della torre oscura, da
me gentilmente ribattezzato Raperonzolo, mi aveva permesso di
rivolgergli
lontano da telecamere e redazioni.
Ma andiamo con ordine… da
circa due mesi ero stata assunta nella
redazione di MTV. Ultima arrivata = fiera collezionista di tutte le
mansioni
scartate dai colleghi. E quel giorno la cosa non era andata
diversamente. Ero
arrivata in redazione e avevo trovato i miei colleghi a parlottare tra
loro,
palesemente indecisi su chi di loro dovesse prendersi la bega di turno.
Appena entrai in
ufficio, mi trovai 6 paia
d’occhi puntati addosso.
“In effetti… May potrebbe essere
perfetta”
“…e sarebbe anche un modo per farle fare
esperienza”
Ciò significava solo una cosa: alla sottoscritta Maïwenn Blunt
stava per essere affibbiata una fregatura epica.
“Sì, so bene chi è Ville
Valo” sbuffai. L’incubo di ogni
giornalista, soprattutto se giovane, donna e da poco assunta in una
redazione.
Mentre studiavo per il master, una mia amica durante uno stage aveva
assistito
alla peggiore intervista di tutti i tempi, proprio con Ville Valo. Eh
sì,
perché il soggetto in questione aveva tre modi standard di
interazione con i
giornalisti: stare zitto ad osservarli con
aria beffarda, come si osserverebbe uno strano essere
alieno; parlare a sproposito o, peggio,
sparare centinaia di cazzate, senza alcun ritegno.
Certo, che sarà mai? Un bravo giornalista deve comunque
saper portare a proprio favore qualsiasi intervista, no? E’ facile,
è il suo mestiere… Bene,
provate a farlo voi, con quei due fari
verdi puntati addosso.
“Dai, non sarà così terribile. Dieci
minuti di intervista
video poco prima della loro esibizione al Download, qualche domanda sul
nuovo
album e finisce lì”. Mi disse incoraggiante
Martin, il redattore capo.
Ero nelle condizioni di rifiutare? Ovviamente no. Così,
piuttosto abbacchiata, tornai alla mia scrivania
decisa a presentarmi all’intervista con una preparazione
impeccabile.
Non ero mai stata una fan degli HIM. Ovvio, lavorando in
campo musicale li conoscevo, ma preferivo musica decisamente
più pesante della
loro. Accesi
l’ipod, e accompagnata dalla
soave musica degli Slipknot, iniziai a farmi una cultura su Ville Valo.
Scartata l’ipotesi di informarmi sui siti dei fan (pagine e
pagine di deliri di fan girl dall’ormone impazzito) decisi
che l’unico modo di
avere delle informazioni serie era attraverso interviste già
fatte.
E trassi le mie conclusioni: sociopatico; il fatto che
vivesse da solo in
una torre facendosi vedere in giro il meno possibile lo dimostrava. Da
quel
momento, gli affibbiai il soprannome di Raperonzolo. Estremamente
lunatico ,contraddittorio
e bugiardo, incantatore
professionista,
fascinoso quanto basta per mandare al tappeto qualsiasi donna nel
raggio di
dieci chilometri .
Ma non me.
Presente il detto “conosci il tuo nemico”? bene,
ero decisa
a metterlo in pratica, sfoderando quel lato del mio carattere per cui
ero più
conosciuta: il cinismo.
Il giorno della partenza avevo ricontrollato almeno cinque
volte che tutto fosse pronto. Le domande le avevo preparate, la valigia
anche, il
pass era sul tavolino dell’ingresso, le occhiaie da mancanza
di sonno le avevo
nascoste sotto due chili di fondotinta… ero praticamente
perfetta.
“Nervosa?” mi chiese Ned, il cameraman, appena
saliti in
macchina.
“Assolutamente no…dovrei?” dissi, quasi
annoiata.
Ned scoppiò a ridere. “No, assolutamente. Ma
avendo già
lavorato con Raperonzolo, ho comunque qualche consiglio da
darti”.
Lo guardai speranzosa. “Spara”
“Non tentare di adularlo, non attacca.
Tira fuori tutto il tuo sarcasmo, sarà
parecchio
divertente, la cosa. Tieni sotto controllo il sorriso idiota che
sicuramente ti
spunterà in faccia sentendolo parlare. Pare sia inevitabile.
E…. possibilmente
non fargli sapere che l’hai soprannominato
Raperonzolo.”
Risi. “Niente sorriso ebete, ok. So tenere a bada gli
ormoni, grazie”
Ned scosse la testa, alzando gli occhi al cielo. Era stato
il primo con cui avevo fatto amicizia, in redazione. Tipo piuttosto
attraente,
eravamo usciti insieme un paio di volte, avevamo preso una sbornia
pazzesca, eravamo
finiti a letto insieme per poi, la mattina dopo, decidere che era
decisamente
meglio non complicarsi la vita e rimanere colleghi e buoni amici. Da
quel
giorno era diventato il mio confidente preferito nei rapporti con
l’altro
sesso. Mi conosceva abbastanza bene da darmi ottimi consigli e non ci
piacevamo
abbastanza da voler ripetere l’esperienza. L’amico
perfetto.
L’atmosfera dei festival mi era sempre piaciuta. Certo,
viverli per lavoro era leggermente diverso, ma in fondo, fatta
l’intervista,
avrei avuto tutto il tempo per divertirmi un po’. Il giorno
seguente avrebbero
suonato i Motorhead, e anche se l’intervista fosse andata in
modo disastroso,
quello era un ottimo motivo per essere lì.
Già, l’intervista.
Il centro stampa del Donington era stato allestito in modo
da dar spazio a quante più emittenti possibile. Era
suddiviso in tante piccole
stanze con un divanetto nero e il logo del
festival.
Quando entrai nella stanza destinata a MTV, Raperonzolo era
già lì. Seduto da un lato del divano, le gambe
accavallate, pantaloni e felpa
nera aperta a lasciar intravedere una maglietta con il disegno
scolorito di un
gufo. Riccioli castani uscivano ribelli da un cappellino di lana nero,
quasi
fuori luogo nel caldo pomeriggio di giugno a Donington. Ci presentammo
brevemente, e non notai in lui assolutamente nulla dell’aria
di superiorità che
aveva mostrato nelle interviste che avevo guardato in ufficio. Sembrava
più un
ragazzino spaesato che non sapesse bene per quale motivo dovesse
trovarsi lì a
rispondere a quella serie di domande.
Mi sedetti dall’altro lato del divano e… lui si
spostò
allontanandosi da me. Esattamente quello che continuò a fare
per tutta la
durata dell’intervista.
Risposte serie, precise, niente battute squallide o
sarcastiche, nulla. Mi guardava, sorrideva, abbassava lo sguardo e
quando parlava
si spostava impercettibilmente verso il lato opposto a quello in cui mi
trovavo.
“Mi sa che hai fatto colpo” ridacchiò
Ned, a intervista
finita. Lo guardai decisamente perplessa. Ero convinta del contrario,
che mi
trovasse assolutamente ripugnante, tanto da allontanarsi da me il
più
possibile.
“Quando al tuo Raperonzolo
qualcuno sta antipatico, non perde
occasione per farglielo notare.” Spiegò
“ Se invece considera una donna pericolosa
per il suo status di single
sociopatico, beh…l’hai visto anche tu. Si chiude a
riccio e si allontana.”
Io, pericolosa? Non avevo proprio nessuna intenzione di
interferire con la sua sociopatia. Decisamente uno strano personaggio.
Molto sollevata dal pensiero dell’intervista, tornai in
albergo a cambiarmi, decisa a godermi il più possibile quei
due giorni al
Donington.
Io e Ned ci trovammo nell’area riservata vicino al palco
proprio quando gli HIM avevano da poco iniziato a suonare,
così decidemmo di
rimanere lì a guardarli.
Ville non faceva assolutamente niente per ingraziarsi il
pubblico, che comunque non staccava gli occhi da lui. Era perfettamente
immobile, al centro del palco, le mani sul microfono, gli occhi chiusi,
un
sorriso dolce sulle labbra. Come se lì, in quel momento, non
ci fosse
nient’altro che lui e la sua musica. E c’ero io,
che lo fissavo come
ipnotizzata.
Cazzo. Era riuscito a incantarmi.
“May, potresti asciugarti il rivolo di bava, per favore? Non
è molto professionale.” mi prese in giro Ned. Mi
voltai verso di lui,
fulminandolo con lo sguardo.
“Non so di cosa tu stia parlando” risposi acida.
Mi guardò con l’aria di chi la sapeva lunga. “Andiamo, se
volessi farlo diventare un pezzo
pregiato della tua collezione non saresti certo da biasimare”
rise.
Viva la sincerità. Ma in quel momento realizzai una cosa
assolutamente spaventosa. Io non vedevo affatto Ville come uno da
portarmi a
letto. Con quegli
occhi che sembravano
leggerti nell’anima, quell’umorismo nero come la
pece e quella mente
contorta …. Ville era la tipica
persona che avrebbe potuto farmi innamorare
perdutamente. Una
parola che metteva i
brividi di terrore solo a pensarla.
“Sono stanca, credo sia meglio tornare in
albergo” dissi secca, lasciando il povero
Ned nel backstage. Stavo scappando? Forse. Fortunatamente
ero davvero stanca, quindi mi
addormentai come un sasso appena arrivata in albergo. Mi svegliai solo
quando i
miei vicini di stanza, chiunque fossero, chiusero la porta della
propria camera
con la delicatezza di un elefante, ma sprofondai di
nuovo nel sonno subito dopo.
Il giorno dopo, Ned aveva capito subito che non ero
dell’umore adatto per fare conversazione o per condividere la
giornata con lui.
Passai buona parte
della giornata a
vagare senza meta per il Donington, a fare foto ai palchi e alla folla
e solo
verso le sette, poco prima dell’inizio del concerto dei
Motorhead, mi spostai
sulla balconata allestita per gli addetti ai lavori.
Stavo finalmente tornando in me, ascoltando una delle mie
band preferite, quando mi sentii chiamare.
“Maïwenn?”
Il
suono del mio nome non mi era mai sembrato così sensuale. Mi
voltai
e vidi Ville venire verso di me, con quello che ricordavo come il
batterista
della band.
“Ci
vediamo dopo” tagliò subito corto
quest’ultimo, mentre Ville si
sistemò accanto a me, le nostre braccia quasi si
toccavano… finchè lui non si allontanò
leggermente. Restammo entrambi in
silenzio. No, non stavo più
seguendo il concerto, in quel momento non mi sarei accorta nemmeno se
Justin
Bieber avesse preso il posto di Lemmy, ve lo posso assicurare.
Fu
Ville a tentare di
rompere il ghiaccio, parafrasando la prima domanda che gli avevo
fatto durante l’intervista.
“Allora…
come descriveresti Maïwenn Blunt in tre parole?”
chiese
ridacchiando.
“May”
risposi “chiamami May, mi rendo conto che il mio nome non
è la
cosa più semplice del mondo”
….
E mi fa tremare le
ginocchia quando lo pronunci,
ma questo non l’avrei mai detto, nemmeno con una pistola
puntata.
“Ok…
come descriveresti May in tre parole?”
Ci
pensai un attimo. La definizione che lui aveva dato di sé
stesso non
era delle più lusinghiere: maniaco del
controllo,
lunatico, bugiardo seriale.
“Cinica,
determinata, rompipalle professionista” ridacchiai.
Mi
osservò per qualche istante.
“Non
direi…. Secondo me hai l’aria della dura e poi sei
la prima a
piangere davanti a un film come Orgoglio e
Pregiudizio”
ridacchiò beffardo, per poi addolcirsi “ E se devo
proprio essere sincero, la
cosa mi piace”
Alzai
gli occhi al cielo. A parte che quello che aveva appena detto era
la verità, ma… A che gioco stava giocando?
“Posso
dirti una cosa, Valo? Tu faresti cadere le braccia anche a una
santa, credimi”
Mi
guardò con un’espressione strana, che non
prometteva nulla di buono.
“Non
direi, quella che ho in casa è ancora intera”
ridacchiò.
Lo
guardai smarrita, e mi raccontò di avere in casa la statua
di una
santa, a grandezza naturale… che poi aveva scelto di usare
come copertina
dell’album. Decisi
di non indagare
oltre, quando mi disse che la suddetta casa era piena anche di animali
imbalsamati e assurdità varie. Iniziavo
a capire il motivo della sua solitudine…
Il
concerto era finito e non ce ne eravamo nemmeno resi conto, presi
come eravamo a parlare…e a lanciarci frecciate.
“Ville…”
il batterista gli fece chiaramente capire che l’avrebbe
lasciato lì, se non si fosse mosso a breve.
“Beh,
allora… ci si vede” disse, incerto. Si
voltò un attimo, mentre si
allontanava, come se volesse dirmi qualcosa, ma non lo fece.
Li
salutai con la mano. Avrei
voluto che questa serata finisse? No, sicuramente no. Ville
mi incuriosiva, mi piaceva, e non solo a
livello fisico. Mi piaceva il fatto che parlare con lui fosse sempre
una sfida,
una sorta di lotta per avere l’ultima parola. Mi piaceva il
fatto che fosse
nello stesso tempo completamente folle ed estremamente timido.
Sospirai, mentre
andavo a prendere la navetta per l’albergo e tentavo con
scarsi risultati di
pensare ad altro.
Il problema è che meno vuoi pensare a qualcosa e
più ci
pensi. Arrivai in albergo, decisa ad affogare malumori e irrequietezze
nel
sonno, come la sera precedente, ma non sembrò funzionare.
Passai due ore a
rigirarmi nel letto, accesi la tv,
lessi
qualche pagina di un libro, sistemai la valigia… e non avevo
sonno. Indossai una
felpa sopra la maglietta e i calzoncini che usavo per dormire e decisi
di
andare a fumarmi una sigaretta in balcone, magari forse
l’aria fresca mi
avrebbe fatto venir sonno.
Mi rilassai giusto un attimo, aspirando qualche boccata
mentre, appoggiata alla balaustra, guardavo le luci del Donington. Ma
c’era
qualcosa che non andava, mi sentivo osservata.
Istintivamente mi voltai verso il balcone accanto al mio, ed
ebbi un brivido. Ville. Nel mio stesso albergo. Nella stanza accanto
alla mia.
“Problemi ad addormentarti?” sorrise.
“Già…” borbottai.
“Anch’io…. e in casi come questi mi
pento di aver smesso di fumare”
rise sommessamente.
Non riuscii a non sorridere al suono di quella risata.
Rimase un attimo in silenzio, abbassò lo sguardo
“Vieni
qui?” chiese, a bruciapelo.
Lo guardai spalancando gli occhi. “Cosa?”
“Se continuiamo a parlarci da un balcone all’altro
finisce
che qualcuno si incazza. Io non riesco a dormire, tu
nemmeno… chiacchieriamo un
po’ finchè non ci viene sonno. Dai”
Lo guardai, di nuovo. A piedi nudi, jeans e felpa nera, i
capelli ricci finalmente non più coperti dal cappello. Ma
davvero era convinto
che a una donna qualsiasi, in camera con lui, sarebbe potuto venir
sonno?
Alzai le spalle. Via, quel che succede succede. “Ok,
arrivo”
dissi, per presentarmi trenta secondi dopo davanti
alla porta della sua camera, già aperta.
Evidentemente non conosceva l’uso degli armadi, visto che
magliette, pantaloni e biancheria varia erano buttati su una sedia con
molta
poca grazia.
“Puoi sederti, non mordo” disse indicandomi il
letto, su cui
lui si era intanto sdraiato con la delicatezza di un elefante. La
stessa
delicatezza con cui, dedussi, aveva chiuso la porta della stanza la
notte
precedente.
Ero in imbarazzo? Di più.
Era una situazione decisamente surreale. Mi trovavo in una
camera d’albergo, con un uomo terribilmente attraente che
conoscevo a malapena
ma mi sembrava di conoscere da sempre… e non ero
lì con l’intenzione di fare
del sesso sfrenato. Probabilmente ero stata rapita dagli alieni, che mi
avevano
impiantato una nuova personalità. Non mi riconoscevo
più.
Ci volle ben poco per finire entrambi sdraiati sul letto
senza smettere di parlare nemmeno un minuto. Completamente vestiti,
senza
sfiorarci nemmeno con un dito, e mi sentivo vulnerabile come non mai,
ma in un
modo decisamente piacevole.
“La musa non esiste” disse a un certo punto,
durante uno dei
rari momenti di silenzio, mentre entrambi eravamo sdraiati a fissare il
soffitto.
Mi voltai verso di lui, perplessa “Cosa?”
“La musa… la donna misteriosa che avrebbe ispirato
l’album…
non esiste.”
Continuai a guardarlo smarrita. Non capivo perché me lo
stesse dicendo. Non era certo l’idea di una fantomatica donna
che lo aspettava
a Helsinki a farmelo rendere meno desiderabile, in quel momento. Ma
come detto,
non ero in me, e non avevo alcuna intenzione di saltargli addosso e
renderlo
“un pezzo pregiato della mia collezione” come aveva
detto Ned.
In quel preciso momento non avrei voluto essere in nessun
altro luogo, a fare nessun’altra cosa se non stare sdraiata
su quel letto a
parlare con lui.
Non attese domande, fu sufficiente guardare il punto interrogativo
che dovevo sicuramente aver stampato sulla faccia.
“Una trovata pubblicitaria… la casa discografica
ha detto
che una storia del genere avrebbe incuriosito i fan, facendo vendere
più copie
dell’ album.”
“E ha funzionato?” chiesi.
“No” disse trattenendo una risata “In
effetti penso di aver
dato dieci versioni diverse della storia, non ci ha creduto
nessuno!”
Ridemmo entrambi.
Scoprii che a me aveva detto che sperava che
l’album servisse a far
capire alla “musa” quanto lui l’amasse,
con un altro giornalista si era
dichiarato “sfortunatamente non single”, con un
altro ancora si era inventato
che la storia era ormai finita.
Decisamente non mentiva, quando si era definito un bugiardo
seriale.
“Non si tratta di essere bugiardi”
ridacchiò, girandosi verso
di me per ridurre la distanza fra di noi “Il fatto
è che ho la memoria di un
pesce rosso, non mi ricordo cosa ho mangiato a pranzo, figurati se
posso
ricordarmi tutte le cazzate che sparo nelle interviste”
“Sei un caso clinico, Valo!” risi.
“Dovresti scriverti tutte
le cazzate che dici, o assumere qualcuno che lo faccia per te”
Mi guardò con una faccia buffissima.
“Un’assistente alle cazzate!” rise
“Mi piace l’idea… vuoi
cambiare lavoro? Ti ci vedrei bene, sai?”
“Idiota” allungai il braccio per tirargli uno
schiaffetto,
ma lui con tutta la naturalezza del mondo mi prese la mano,
intrecciandola con
la sua.
E le nostre mani restarono intrecciate per tutta la
notte. Scoprii che
venerava i Black
Sabbath, che la sua mente era molto più contorta di quello
che pensavo, che
nascondeva la sua fragilità sotto un sarcasmo invidiabile,
che era un
inguaribile romantico, nel modo più dolce che possa
esistere, che quando
parlava della sua città gli brillavano gli occhi, come se
stesse parlando della
donna della sua vita. Capii che, guardandolo negli occhi, potevi
renderti conto
di quando era serio o di quando diceva una cazzata. I suoi occhi non
sapevano
mentire, anche se a parole ce la metteva davvero tutta. E capii che, se
era lui
a guardare negli occhi me, la May cinica e sarcastica veniva
completamente
disarmata.
Ci addormentammo alle prime luci dell’alba, quando ormai
sapevamo praticamente tutto l’uno dell’altra. Gli
avevo anche detto che era la
prima volta che mi scoprivo così tanto con un uomo restando
completamente
vestita, e che la cosa mi sconvolgeva non poco.
Quando riaprimmo gli occhi, quasi in contemporanea, ancora tenendoci
per mano come quando ci eravamo addormentati, dovevano essere passate
da poco
le undici.
“Buongiorno” sussurrò, la voce ancora
profonda per il sonno.
Sciolse la mano dalla mia, per poi portarla sulla mia guancia con una
carezza
leggera. Si avvicinò a me, le sue labbra erano la cosa
più dannatamente invitante
che avessi mai visto, e…. il mio cellulare suonò.
Fanculo. Era Ned. Non potevo non rispondere.
Sbuffai sonoramente, mentre rispondevo.
“Ehi, che fine hai fatto, ti ho cercato ovunque!”
Inventai la prima scusa che mi venne in mente, dicendogli
che ero sotto la doccia. Certo, come no.
“Ok..” disse poco convinto “Tra cinque
minuti busserò di
nuovo alla tua porta, devo dirti un paio di cose. Renditi
presentabile” rise,
per poi mettere giù. Cazzo.
Dovevo correre in camera. Se Ned fosse arrivato mentre
sgattaiolavo via dalla camera di Ville sarebbe stata decisamente una
situazione
difficile da spiegare.
“Devo andare”
dissi,
alzandomi di scatto. Andai verso la porta, per poi tornare indietro,
schioccare
un bacio sulla guancia di Ville e promettergli che sarei passata a
salutarlo
prima di partire.
Per avere quel bacio
in cui per un attimo avevo sperato, magari. No,
May, questo non si dice.
Tornai nella mia camera e feci appena in tempo ad assumere
un aspetto vagamente umano e intrecciare di nuovo i miei lunghissimi e
ingestibili capelli, quando Ned bussò alla porta.
Mi squadrò da capo a piedi. “Quanto hai dormito,
dieci
secondi?”
Mentii spudoratamente. “Naah, dopo il concerto dei Motorhead
sono tornata qui e sono crollata”. Non ci credevo nemmeno io.
“Comunque sia… dormirai in macchina, il capo vuole
l’intervista entro le quattro, il che significa che stiamo
partendo. Ora.”
Ora? No, accidenti!
“Ehm… ok. Tu intanto scendi e metti in moto la
macchina, io
metto le ultime cose nello zaino e ti raggiungo”.
Dieci secondi dopo, non prima di essermi assicurata che non
ci fosse nessuno nel corridoio, stavo bussando alla porta della stanza
di
Ville. Nessuna risposta.
Bussai di nuovo. Cazzo, Ville, apri questa porta.
Ma Ville non aprì, e io dovevo partire.
Anche se davvero fosse stato l’uomo della mia
vita, non l’avrei mai saputo.
Il martedì, come
sempre, mi aspettava la consueta riunione per decidere a chi affidare i
diversi
incarichi.
Ero distratta, tamburellavo con la penna sul tavolo per poi
guardare fuori dalla finestra. Mi odiavo, o meglio odiavo stare
così per uno con
cui
a. non ero nemmeno stata a letto, o almeno non nel senso che
intendevo io
b. non avrei
più
rivisto.
Sentivo Martin in lontananza, mentre elencava i vari
incarichi dandoci modo di scegliere e organizzarci.
“…E poi ci sarebbe una trasferta a Helsinki, negli
studi di
MTV3 a luglio e agosto, per…”
Non gli lasciai nemmeno il tempo di finire. Una frase mi
tornò subito alla mente.
A parte i festival nel
fine settimana, sarò a Helsinki tutta
l’estate….
“Vado io” dissi, decisa.
Ned mi guardò, sorrise scuotendo la testa. E
sarà che Martin non
aspettava altro, sarà che nessun altro avrebbe acconsentito
a trascorrere
l’estate in Finlandia, nel giro di un’ora avevo
biglietti aerei e planning del
lavoro da fare.
Sarei partita da sola, il giorno seguente, così sistemai le
ultime cose nell’ufficio che non avrei visto per due mesi.
“Raperonzolo ha lasciato il segno, eh?”
ridacchiò Ned, sulla
porta. Inutile mentire, quando hai un sorriso ebete che va da un
orecchio
all’altro…
Ok, ero a Helsinki. Problema: Helsinki non sarà Londra, va
bene.
Ma non è una città così piccola da
poter trovare qualsiasi cosa in breve tempo,
e non sarebbe stato carino andare in giro a chiedere a destra e a manca
dove si
trovasse la famosa torre di Raperonz… ehm, di Ville Valo.
Dopo mezza giornata passata a fare ricerche su internet invece
di lavorare, ora un post-it con un indirizzo faceva bella mostra di
sé sulla
mia scrivania. Ora dovevo solo trovare il coraggio di andarci, suonare
alla
porta e presentarmi con la peggior faccia tosta possibile.
Mi sentivo una merda.
Uscii dalla redazione rigirandomi il post-it tra le mani. Un
taxi mi avrebbe permesso di arrivare in breve tempo… troppo
breve. Meglio il
tram. O ancora meglio andare a piedi, avrei avuto tutto il tempo per
rinfrescarmi le idee, decidere che quella che stavo per fare era la
cazzata più
grande della mia vita e tornare indietro.
Non mi accorsi minimamente del taxi fermo davanti alla
porta, non mi accorsi che, mentre io mi stavo allontanando, la portiera
si era
aperta.
“May”
Brivido. Quella voce l’avrei riconosciuta ovunque, ormai.
“Sali” disse, sorridendo davanti alla mia
espressione che
non doveva essere molto diversa da quella di un baccalà
sotto sale.
Accartocciai il bigliettino e lo misi in tasca. Decisamente non ne
avrei avuto
bisogno.
Mi spiegò che aveva chiamato nel mio ufficio di Londra, e
gli avevano detto che ero a Helsinki. Non mi chiese come mai, non gli
chiesi
perché mi aveva cercato. Era evidente per entrambi. Non
dicemmo una parola
durante l’intero tragitto, limitandoci a tenerci per mano,
sorridendoci di
tanto in tanto.
E non mi resi conto della statua inquietante, dei gufi
imbalsamati, della videocassetta porno sistemata sopra una vetrata
antica.
C’era solo la sua pelle, che al tatto era esattamente come
l’avevo sempre immaginata, e c’erano le sue labbra
sulle mie. C’eravamo noi, e
nient’altro. E per la prima volta capii che tra
l’amore e il sesso non c’è
davvero paragone.
Aprii gli occhi nella luce quasi accecante dell’estate
finlandese. Ville ancora dormiva accanto a me, completamente rilassato,
il
braccio attorno alla mia vita. Gli accarezzai delicatamente i capelli
per non
svegliarlo, e mai come in quel momento capii che io, da Helsinki, non
me ne
sarei mai andata.
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