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6.
È la cosa giusta?
Lavorammo per oltre una
settimana provando a farci i dispetti l’un l’altra: era mia intenzione impedire
un ulteriore aumento delle vendite e, dopo una telefonata di Rei, al termine del
mio quarto giorno allo Shinbun, sentii di star facendo un ottimo lavoro.
“Le vendite sono scese dal
sedici al dodici percento” aveva detto euforica. “Ti stai impegnando molto, e
ammetto che non credevo ci saresti riuscito così in fretta.”
Avevo provato a replicare che
non ci volesse poi molto a far fuori un giornale, specialmente lavorando
dall’interno, ma Rei non mi aveva fatto parlare: “Ikeda sta pensando seriamente
di dargli tempo fino al nuovo anno. Dopodichè, se la situazione non dovesse
migliorare, chiuderà quella tastata, e tu avrai la tua prima diretta televisiva
già a partire da gennaio!”
Quella notizia mi aveva
lasciato senza fiato: stavo ottenendo ciò che volevo, ma non mi sentivo dello
stesso umore di Rei. Avevo l’impressione di stare sbagliando qualcosa e, quel
che era peggio, sapevo esattamente di cosa si trattasse.
Dopo i primi giorni trascorsi
a ostacolarci apertamente anche con polemiche sterili sulla punteggiatura da
usare, Usagi ed io avevamo trovato un accordo per la stesura degli articoli,
impostandoli come una sorta di dialogo, in cui entrambi potevamo dire la nostra
su qualsiasi argomento stuzzicasse la nostra fantasia.
Stavo venendo meno al mio
lavoro di coordinatore, ma mi ero presto reso conto che Usagi non fosse
esattamente una sprovveduta: sapeva cosa fare ancora prima che potessi pensarlo
io, e questo mi lasciava decisamente poco margine di organizzazione.
Per il poco che potevo fare,
provavo un senso di soddisfazione scrivendo frasi e battute di dubbio gusto, più
pungenti del solito, rasenti quasi la cattiveria gratuita, e a quanto sembrava
quella era la strada giusta da percorrere.
Tuttavia, una piccola spina
si stava facendo strada dentro di me: continuavo a domandarmi se stessi facendo
la cosa giusta e, soprattutto, continuavo a pensare a Usagi anche a casa, quando
invece, seduto sul divano, avrei dovuto godermi lo sport sul mio televisore
quarantadue pollici.
Continuavo a ripetermi di
stare passando troppo tempo con Tsukino, e di aver ricevuto solo un’indigestione
di buoni sentimenti da parte sua, col risultato che non mi lasciava solo neanche
tra le mura della mia abitazione.
Non mi entusiasmavano più i
programmi televisivi, e mi domandavo spesso se la televisione avesse subito una
caduta di qualità, oppure se qualcosa dentro di me stesse cominciando a mutare,
senza che me ne fossi reso realmente conto.
“Ti vedo pensieroso” commentò
Motoki un pomeriggio di fine novembre: mancavano più di venti giorni al Natale,
e sembrava che stesse per esserci la fine del mondo. Mi aveva convinto ad
accompagnarlo a cercare un regalo speciale per Makoto, e nonostante le scuse che
avevo provato a metter su non avevo avuto scampo.
Feci spallucce, ignorando il
suo commento: non avrei certo potuto dire al mio migliore amico che mi sentivo
quasi in colpa per il fallimento dello Shinbun…
Motoki sembrò capire il mio
silenzio, e non fece altre domande.
Camminammo lentamente per le
strade del centro, alla ricerca di qualcosa che potesse stupire la sua ragazza.
“Che ne pensi si questo?”
domandò, indicando un piccolo peluche vestito da Babbo Natale con un bastoncino
di zucchero in una zampa.
“Motoki…” mormorai solo: era
il centesimo oggetto inutile e senza senso che mostrava, da che eravamo usciti,
e iniziavo a spazientirmi.
“Capito” si arrese.
“Cioccolatini?”
“A Makoto?!” dissi, sperando
che cogliesse l’inutilità di regalare cibo di qualunque genere a una cuoca
provetta.
“In effetti…”
Vagammo per almeno un’altra
mezz’ora per le vie affollate, finché non raggiungemmo una piccola gioielleria,
stranamente vuota.
A seguito delle insistenze
del mio amico, entrammo, e sperai vivamente che lì dentro avremmo potuto porre
fine al nostro girovagare.
Dopo pochi minuti uscimmo;
finalmente, Motoki sembrò aver trovato il regalo perfetto per Makoto: un
bracciale intrecciato in oro bianco.
“Visto?” commentai. “Non ci
voleva poi molto.”
“E tu? Non c’era nulla che
potesse fare al caso tuo?”
Lo fissai interrogativo, in
attesa che fosse meno ermetico del solito.
“Per Usagi” spiegò, e per
poco non mi strozzai, al solo sentir nominare la mia collega.
“E che c’entra Usagi,
adesso?”
“Come? Non le regali niente
per Natale?” domandò, con aria confusa.
“E perché dovrei regalare
qualcosa a una collega che, tra parentesi, non sopporto nemmeno un po’?”
Mi guardò furtivamente, per
poi rispondere: “Beh, pensavo che dopo tutto il lavoro che state svolgendo
insieme, aveste imparato a conoscervi meglio, e che potesse nascere qualcosa…”
Continuai a fissarlo senza
dire nulla, provocandogli quasi una reazione nervosa.
“Insomma, Mamoru! Tu e Usagi
siete perfetti l’uno per l’altra! Possibile che siate così ottusi da non
rendervene conto? E poi, finalmente, potremmo uscire tutti e quattro insieme…”
“Motoki, Usagi e io non
staremo mai insieme” dissi deciso. “Togliti questa folle idea dalla testa.”
“Vieni a cena da noi,
stasera?” mi domandò dopo un po’.
Rimasi incerto sul da farsi
per qualche minuto, adducendo scuse riguardanti imminenti lavori da portare a
termine che non trassero in inganno Motoki.
Mi piaceva la compagnia di
Motoki e della sua ragazza, ma ultimamente mi sentivo sempre di troppo: iniziavo
a pensare che mi mancasse qualcosa, per essere completamente felice, ma non
riuscivo a capire cosa.
E puntualmente, dopo esser
tornato a casa da un loro invito, iniziavo a farmi venire strane idee in testa,
e a immaginarmi con una qualche ragazza al mio fianco; ma io sapevo che questo
non poteva essere un vero desiderio: la mia unica preoccupazione era una
crescita professionale, e per il resto ci sarebbe stato tempo. In fondo, avevo
appena trent’anni!
Messo con le spalle al muro,
accettai l’invito del mio amico, e una volta arrivati a casa sua trovammo già
Makoto ai fornelli.
Motoki fece i salti mortali
per non farsi scoprire con il pacchetto della gioielleria nella tasca del
cappotto, e quella scenetta mi mise di buonumore.
“Hai un atteggiamento a dir
poco sospetto” commentò Makoto, constatando come il ragazzo si osservasse
attorno, guardingo. “Mi stai nascondendo qualcosa, per caso?”
Motoki scosse la testa con
talmente tanta enfasi che ebbi l’impressione che potesse staccarsi dal resto del
corpo.
La mora non si fece pregare
e, mollati i fornelli, si avvicinò minacciosa al suo ragazzo: con le mani
bagnate, iniziò a schizzarlo prima debolmente, poi sempre più con convinzione,
fino a infilare le mani tra il colletto della camicia e la pelle del povero
Motoki che, nel frattempo, cercava di mimetizzare il rigonfiamento della tasca
del cappotto.
“Mamoru! Aiutami!” implorò
Motoki ma, anche se avessi voluto far qualcosa, ero ipnotizzato dalla serenità e
dalla pace che si viveva in quelle quattro mura.
Quella breve battaglia
familiare ebbe una sorta di effetto terapeutico per me: improvvisamente, non mi
sentii più tanto un intruso, ma quasi membro di quella piccola setta, composta
esclusivamente da Makoto e Motoki.
Desiderai, per un solo
istante, poter far parte anche io di una simile società, ma mi resi conto che,
per il momento, avrei potuto solo godere di quella gioia riflessa.
“Mako-cha, credo che stia per
bruciare qualcosa, in cucina” commentai, annusando l’aria. Non che avessi
davvero sentito puzza di bruciato, ma credevo che Motoki avesse pagato
abbastanza i suoi continui accenni a un’eventuale amicizia tra Usagi e me: senza
volerlo, Makoto mi aveva fatto un favore.
Come avevo previsto, la
ragazza terminò immediatamente l’attacco al suo fidanzato per precipitarsi in
cucina.
“Non potevi essere un po’ più
amico, e inventare questa balla prima che mi infradiciasse la camicia pulita?”
borbottò Motoki, cercando di ripulirsi il collo dagli assalti di Makoto.
“Eravate un bello spettacolo”
replicai.
Vidi il mio amico pronto a
saltarmi addosso e istintivamente mossi qualche passo indietro.
Fortunatamente, la cena era
pronta, e questo mi impedì di fare un occhio nero a Motoki: benché non volesse
ammetterlo, sapevamo entrambi che fossi più forte di lui, e che non avrei
esitato a colpirlo, anche se solo per scherzo.
Makoto quella sera superò se
stessa: nagiri-sushi ad accompagnare lo yakitori più buono che avessi mai
provato. Era chiaro che la cuoca non volesse rischiare di rovinare la propria
linea e quella degli ospiti, ma anche con semplicità era stata capace di far
leccare i baffi ai suoi commensali.
“Come ti trovi a lavorare con
Usagi?” domandò alla fine del pasto.
“Ti dirò, Mako-chan” iniziai,
cercando una via di mezzo per quello che avrei potuto dire sulla mia nuova
collega, “se Odango non fosse così indisponente su tutto, potrebbe essere
un’ottima giornalista.”
“Odango?” mi interrogò Motoki.
“Sì, beh, per la sua
pettinatura” spiegai, sentendomi improvvisamente imbarazzato.
“Uh-uh” sorrise maliziosa
Makoto. “E da quando siete passati dal darvi il lei ai nomignoli?”
Mi sentivo quasi sotto
processo. Spiegai loro che non si trattava di un nomignolo affettuoso, come
avrebbero potuto pensare, ma più che altro una innocente presa in giro, e
sottolineai come la cosa non fosse affatto apprezzata dalla diretta interessata.
Terminammo la cena
continuando a tergiversare sul mio rapporto con Usagi, e solo quando Makoto ci
presentò il dessert che decidemmo di lasciar cadere l’argomento: il wagashi
preparato da Mako era qualcosa di sublime, nonostante l’eccessiva dolcezza data
dalla marmellata.
Rimasi in loro compagnia per
un’altra mezz’ora, dopo la cena, aiutando per quel che potevo nel riordino della
cucina e della sala da pranzo.
Prima di potermene andare,
però, dovetti sorbirmi una nuova ramanzina sulla mia condizione di assoluta
allergia verso legami seri.
“Se non ti decidi a fare
qualcosa in quel senso” cominciò Makoto, “rischi di sterilizzare il tuo cuore a
nuovi incontri: non allontanare le persone, ma cerca un dialogo con loro.”
“Mako…” provai a dire, ma non
mi fece continuare.
“No, Mamoru. Non puoi dire
che stai bene così, e che sei libero di agire come meglio credi. Abbiamo notato
che il tuo sguardo è cambiato, da un po’ di tempo a questa parte: se c’è
qualcosa di bello che credi stia capitando alla tua vita, e non mi riferisco
alla professione” mi precedette, “allora non fartela scappare. Forse tu non te
ne accorgi, ma sembri più sorridente, e più contento di essere al mondo.”
Concluse il suo discorso
guardandomi dritto negli occhi; lei era la sola, insieme a Motoki, a sapere
qualcosa di più della mia infanzia, e non provai neanche a replicare qualcosa:
sapevo che aveva ragione lei, e inconsciamente sapevo cosa avrei dovuto fare.
Li salutai, glissando sul
tentativo di convincermi a confidarmi con loro, promettendogli solo che avrei
riflettuto sul da farsi.
Ma, non l’avrei mai ammesso
con nessuno, avevo paura di ricevere, ancora una volta, una porta chiusa come
risposta.
Come sempre, un
grazie infinito a chi mi segue, nonostante la mia lentezza!
Cercherò di essere un po' più rapida negli aggiornamenti, non dico tanto... ma
almeno un capitolo ogni due settimane :)
Grazie di cuore a
tutti, a chi legge e a chi lascia un commento dicendomi cosa ne pensa delle mie
folli follie.
A presto ;)
Bax, Kla
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