NESSUN DOLORE
Una piccola premessa, necessaria per capire la storia.
Forse non tutti lo sanno, ma oltre che un grandissimo attore, Russell Crowe è
anche un mediocre rocker. Qualcuno ricorderà la sua performance,degna di nota
più che altro per motivi meramente estetici, qualche anno fa a Sanremo. Un paio
di giorni prima, si era anche esibito
in un concerto di beneficenza, organizzato da Giorgio Armani presso la
discoteca “Hollywood” di Milano. Da lì è nato lo spunto per questa fiction.
“Non c’è impressione
non c’è emozione…
Nessun dolore…no”
La voce rauca e afona di
Lucio Battisti l’accompagnava mentre sceglieva ciò che avrebbe indossato per
quella serata. Aveva l’armadio pieno di roba firmata: Cavalli, Dolce e Gabbana,
Armani. Non si era mai privata di niente e soldi riusciva a metterne via pochi,
nonostante i buoni propositi: una come me non può accontentarsi della robetta
comprata ai grandi magazzini, si diceva da sé sola quando cacciava fuori la
carta di credito dal portafogli e una vocina, dentro, le consigliava di
risparmiare, in prospettiva futura. Quale prospettiva? Aprire una boutique, o
un centro di estetica, e piantarla con quella vita. Non poteva andare avanti
così ancora per molto, e poi c’era l’altra questione da sistemare. Il tempo
passava, qualche anno ancora e sarebbe stato tardi…Al diavolo, non era il
momento, quello, per guastarsi con pensieri tristi ciò che l’aspettava.
“Non c’è impressione
non c’è emozione…”
Avrebbe indossato qualcosa
di Armani, determinò: dovere di cortesia, era lui che organizzava la serata, il
concerto, il party. Qualcosa di semplice, elegante. Magari l’ospite d’onore
l’avrebbe notata, era bella e aveva classe da vendere. Tutti i giornali
dicevano che aveva spezzato il cuore a legioni di donne. Già, aveva spezzato
anche il suo, nonostante l’avesse visto solo sullo schermo.
Conosceva pregi e difetti
del suo viso, sapeva come valorizzarsi. Hai personalità, dicevano coloro che la
frequentavano. Anche l’avvocato di grido che patrocinava le cause di divorzio
della Milano bene, anche l’industriale tessile bergamasco che le aveva
procurato l’invito. Goditelo, il tuo tamarro australiano, le aveva detto con il
suo accento rozzo di chi si è fatto da sé e ha poco studio alle spalle. Per lei
era inconcepibile che una persona pensasse solo a guadagnare denaro a palate e
non avesse mai messo piede in un teatro o in un museo. Era inconcepibile che la
cercasse, aveva una bella moglie, due figlie deliziose. Era inconcepibile
che…Qualcuno l’avrebbe mai amata, aldilà delle illusioni, per quella che era?
Eppure, era soprattutto grazie a gente come il Biraghi se poteva permettersi quel tenore di vita,
quella casa, quegli abiti firmati. E quei sogni.
-Sta buono, e non
abbaiare.
Prima di uscire faceva
sempre le sue raccomandazioni al cane, sapendo che, probabilmente, non le
avrebbe dato ascolto: i cani mica sono cristiani, anche se l’allevatore che
gliel’aveva venduto le aveva garantito che i bull terrier abbaiano poco e fanno
buona guardia. Era bianco, con una toppa nera sull’occhio sinistro, e , in
tempi non ancora sospetti, l’aveva chiamato Gladiatore. Erano quattro anni che
le teneva compagnia e custodiva la sua casa.
“Non c’è illusione…
non c’è emozione…”
Prese le chiavi della
Smart, spense lo stereo. Prima di uscire, accarezzò con lo sguardo i molti
ritratti che gli aveva fatto e che tappezzavano le pareti del monolocale dove
viveva. Alcuni a colori, altri in bianco e nero. A olio, a matita di graffite, seppia, sanguigna…Aveva frequentato
con profitto il liceo artistico, diplomandosi a pieni voti. L’unica
soddisfazione che avesse dato a suo padre e a sua madre, prima di farsi buttare
fuori da casa.
Una spruzzata di profumo
sul collo, dietro l’orecchio: forte, inebriante, sapeva d’incenso e stordiva:
l’unico eccesso che amava concedersi. Un’occhiata ancora ai quadri, mentre
infilava il morbido cappotto di cachemire nero sul completo casacca e pantaloni
che aveva scelto per quella serata speciale. Una lunga occhiata languida come
se fosse stato lì in carne e ossa, il giovane biondo dei ritratti, con i
capelli morbidi spettinati dal vento e gli occhi che non erano azzurri e non erano verdi, gli occhi cattivi di
Hando il teppista, quelli ingenui e fiduciosi di East, il cowboy, quelli disperati
di Wigand, che la vita aveva imbrogliato. E lo sguardo franco di Massimo, che
un abisso di secoli prima, aveva lottato da solo contro le ingiustizie e le
aveva spezzato il cuore.
Sarebbe stata in grado di
rispondergli, nell’ipotesi remota che lui le avesse rivolto la parola?
Conosceva bene l’inglese, appreso nei sei mesi in cui aveva lavorato in un pub
di Bristol, prima che il padrone scoprisse tutto quanto e facesse quel che
aveva fatto suo padre. Erano passati dieci anni, da allora, ma qualche viaggio
all’estero per non dimenticarselo e rinfrescarlo se l’era permesso, dacché i suoi problemi economici erano finiti:
c’era da guadagnarci, e bene, a spillare soldi all’avvocato, al manager, al
politico rampante, all’industrialotto. Abbastanza da sperare di metter su una
boutique o un salone di bellezza e di piantarla presto, con quella vita.Anche
se aveva le mani bucate, un po’ per vizio, un po’ per necessità e faceva fatica
a contenersi. Anche se, presto, avrebbe avuto bisogno di molto denaro per
cambiare vita. Questa volta davvero.
“…Non c’è dolore,no…”
Come sotto anestesia, e
c’era finita tante volte, per diventare quello che era diventata: quasi un
metro e ottanta di statura, un corpo esile da mannequin, il caschetto di
capelli biondo scuro creato per lei dai Vergottini, i parrucchieri che
pettinavano le star della moda e della tv. Aveva anche sfilato, qualche volta,
ma non era quello il suo mestiere , e poi c’era troppa concorrenza. Gli
stilisti volevano le ragazzine, in passerella, e lei aveva quasi trent’anni.
Parcheggiò la macchina poco
distante ed esibì l’invito, prima di entrare all’Hollywood. Gli addetti
all’ingresso e anche parecchi dei vip che stavano dentro non la conoscevano. E’
un’attrice, una modella. Forse è straniera. Dev’essere la donna che sta con
lui.
Cantava bene, ma a chi era
andato a vederlo non importava un cazzo di niente, che cantasse bene o male.
Sembrava un ragazzo qualsiasi, un atleta in vacanza: alto ma non altissimo,
prestante, proprio come nei suoi film, forse anche di più. Capelli lunghi,
quasi biondi. Occhi grandi, quasi azzurri. O quasi verdi. Acuti, intelligenti.
Tristi. Ma tristi perché? Aveva fascino, soldi a palate, tutte le donne del
mondo che gli morivano ai piedi. Dovrei essere triste io, non tu, che dalla
vita hai avuto tutto, si ritrovò a pensare con stizza, mentre la musica andava.
Bella voce, anche se le canzoni le sembrarono un po’ ripetitive. E parole che
venivano dal cuore. Forse, più che triste, era incazzato: sui giornali
pettegoli che leggeva dal parrucchiere c’era scritto che aveva un caratteraccio
e perdeva facilmente le staffe, ma è anche vero che certi giornali raccontano
balle. E che, non si fosse trattato di una serata di beneficenza, organizzata
allo scopo di raccogliere fondi per i bambini poveri, c’era da uscire sul serio
fuori dai gangheri, a sgolarsi davanti a un pubblico di uomini invidiosi che
invece di starlo a sentire commentavano acidi circa il fatto che si fosse
presentato davanti alla Milano che contava con quell’aria strafottente da
bullo, la canottiera a vista sotto la camicia nera aperta e due dita di barba
ispida sulla faccia; e le donne? Se il Gladiatore strafico e strabono avesse
smesso di cantare e incominciato a spogliarsi, forse sarebbe stato meglio.
Aveva una disperata voglia
di una sigaretta. Una voglia disperata e frustrante. E le orecchie piene del
frastuono della musica, come sempre capita al termine di un concerto rock. Il
Boss, Sting, gli U2…Li aveva visti tutti. Si cercò un angolino appartato, dove
nessuno le avrebbe detto niente. Fumarsela, maledizione, fumarsela tutta quanta
sino al filtro e poi un’altra, e un’altra ancora…Il fumo fa male. Oh, al
diavolo, si vive una volta soltanto. Il sapore del fumo le piaceva, e anche il
tono rauco che dava alla sua voce incerta. Aveva iniziato a farlo quando aveva
undici anni, e suo padre non le aveva mai detto niente. Erano ben altri i
motivi per cui l’aveva cacciata da casa.
Maledizione,
l’accendino…Doveva averlo dimenticato nella borsa che usava tutti i giorni e,
se non riusciva a farsi venire la faccia di bronzo di alzarsi da quel divano e
chiedere a qualcuno di accendergliela, sarebbe stato giocoforza rinunciare al
piacere della sigaretta. Per sostituirlo con che cosa? Con un bicchiere di
whisky? Col sesso? Rise piano, tra sé e sé, e non si accorse che lui le era scivolato
vicino. Aveva gli occhi acuti e tristi, né azzurri né verdi, i capelli ondulati
che gli accarezzavano le grosse spalle. Con un orrendo accendino di plastica
gialla che s’era cavato fuori dalla tasca dei calzoni, le accese la sigaretta e
le sorrise, prima di fare altrettanto con la sua.
-Thanks, Mr Crowe.
-Russell, darling.
Russell… only.
Mi sto annoiando, mate,
accidenti…Non hai idea di quanto mi stia annoiando. A questa gente qui, di me
non gliene importa un cazzo di niente. Posso stare un po’ con te? Anche tu non
hai l’aria di divertirti troppo, mi sembra.
Un torrente in piena, una
belva in gabbia apparentemente rilassata, in realtà infida. Sempre. Si stava
annoiando. Proprio come lei. Se mi rivolgesse la parola, crollerei stecchita,
aveva pensato, invece non era successo nulla. Lui rideva, quando lei gli
chiedeva di ripeterle quel che non capiva. Fallo lentamente. Slowly. I don’t
understand, I’m sorry…Aveva una voce rauca, cupa, seduttiva, i denti bianchi e
gli occhi splendidi. Occhi da tigre. Era più magro di quanto apparisse sullo
schermo, più gentile di quanto dicessero i giornali. Odorava di cuoio, di
profumo e di pelle leggermente sudata.
Perché ti stai
annoiando…Russell? Questo non è il mio mondo, ma…Nemmeno il mio, mate.
Il mio mondo fottuto è il profumo delle arance, sono i miei amici, la mia
terra, il mio cavallo e i miei cani…Questa gente non è la mia gente. Ma ti
piace quello che fai…Recitare? E’ la mia vita. So di essere bravo. E me lo
dicono. Casa mia è piena di targhe, pergamene, statuette…Posso prestare il mio
corpo, la mia faccia e la mia anima a chiunque: a uno scienziato di mezz’età in
crisi, a un eroe dei tempi antichi, a un poliziotto paranoico, ad un teppista
odioso…E’ divertente svuotarsi di sé e riempirsi di un altro. E tu, che diavolo
fai per guadagnarti da vivere?
Gli disse la prima cosa
che le venne in testa, una mezza bugia e una mezza verità. Mi occupo di
pubbliche relazioni. Una frase che diceva tutto e non diceva niente. Tu ammazzi
il tuo tempo libero cantando, io dipingendo. Ho letto che ti piacciono i cani.
Anch’io ho un cane, si chiama Gladiatore. Noo, tu non c’entri, ha già quattro
anni. Un bull terrier. Buonissimo. Ma se gli salta la mosca al naso…Era poco
più di un cucciolo quando ha fatto scappare un giovinastro che voleva
scipparmi. A te non ti morderebbe: i cani riconoscono a naso chi li ama e chi
non li può sopportare.
I cani sono dannatamente
migliori degli uomini. Forse avrei dovuto dirla io, non tu, questa. Sei un uomo
fortunato, Russell. Già, sono qui per questo: mi danno quindici milioni di
dollari a botta, per fare quello che mi piace, ma al mondo c’è gente che vive
solo per soffrire. E’ terribile, vedere un bambino africano torcersi dalla
fame, sapere che sicuramente morirà e non poter far niente per impedirlo…Anzi,
è peggio che terribile: è indecente. Sei profondo, Russell. Solo pragmatico. E
le sorrise, facendo balenare le fossette sulle guance, tra i peli biondi della
barba. Pragmatico, già: i palloni gonfiati e le damazze della Milano bene
avevano sganciato fior di quattrini per far finta di sentirlo cantare.
Quattrini che sarebbero stati investiti in una giusta causa, anche se era
maledettamente frustrante, cantare parole che hai messo in musica dopo che ti
sono uscite dal cuore per divertire, neanche fossi il loro pagliaccio, la
contessa, il politico o l’industriale per i quali l’importante era esserci e
quello soltanto.
Non mi hai ancora detto
come ti chiami. Io…Loredana. E tu, ti chiami proprio così o il tuo è un nome
d’arte? Russell
Ira Crowe. Non mi piacciono le cose
false. Io sono sempre io, che reciti nei panni di qualcun altro o sia quello
che ama gli animali, i libri, l’erba da fumare, la birra, il calcio, la musica
e scorrazzare in Harley Davidson, quello che si diverte come un matto a far imbufalire
i giornalisti e che infarcisce i suoi discorsi di paroloni e parolacce. Russell
Ira Crowe, quello vero.
Si accese un’altra
sigaretta, l’ennesima. La guardò attraverso le volute di fumo, con i suoi
grandi occhi che non erano azzurri e non erano verdi, e sembravano capaci di
leggerle dentro. Mi piaci, mate. Sei bella e sei vera. E t’importa sul
serio, di me e di tutti gli altri. Già, mi son dimenticato di metterci le donne
che sanno ascoltarti sul serio e non per finta, tra le cose che mi piacciono. E
tu piaci a loro, pensava lei mentre quegli occhi che, al cinema, aveva visto
balenare, feroci e disperati attraverso le fessure di una maschera spaventosa,
la guardavano acuti e maliziosi e la bocca si avvicinava alla sua. Una bella
bocca, piccola, tenera e un po’ infantile. Una bocca che sapeva baciare
meravigliosamente bene, proprio come nei film: Lucilla, Lynn, Ellen. Grace…Addio,
Russell. E’ stato un piacere conoscerti.
E’ stato bello parlare con te, e come baci...Quello non lo dimenticherò mai, campassi
mille anni. Davvero.
“…Nessun dolore…no”
Come sotto anestesia. Il
dolore sarebbe arrivato al risveglio, e sarebbe stato terribile da sopportare
per chissà quanti giorni.
Farai morire tua madre. Mi
vergogno di te. Fuori da questa casa. Perché non sono quello che avreste
voluto, il figlio scavezzacollo a cui piace smanettare con i motori e
scalmanarsi allo stadio, ma una femminuccia piagnucolosa che adora acconciarsi
di nascosto con i vestiti e i trucchi delle sue sorelle? Perché non sono quello
che si scoperebbe tutte le donne che guarda e si sente prigioniero di un corpo
che non gli appartiene? Perché s’è dato un’identità fittizia a forza di ormoni
ingurgitati di nascosto, di interventi chirurgici costosi e dolorosi, di
ritocchi estetici ripetuti con maniacale insistenza, fino ad ottenere la pelle
liscia,le labbra carnose, il seno tondo dei sogni? Perché per vivere e per
sperare, prima o poi, di liberarsi dalla prigione di un corpo sbagliato ed
essere finalmente se stessa, si prostituisce? E che potrebbe fare, d’altro,
nelle condizioni in cui si trova? Perfino il padrone del pub di Bristol dove
aveva lavorato e si era fatta benvolere per sei mesi l’aveva cacciata via non
appena aveva saputo, e dire che in Inghilterra hanno una mentalità aperta, non
quella dell’operaio tutto d’un pezzo emigrato dal Sud e imbottito di pregiudizi
che era suo padre.
Il dolore, al risveglio,
sarebbe stato terribile e l’avrebbe accompagnata per diversi giorni. Ma avrebbe
sopportato senza lamentarsi e il suo corpo non le sarebbe più stato estraneo.
Mi piaci perché sei vera, le aveva detto, prima di baciarla, il grande attore,
l’uomo che era nei sogni di tutte le donne, lo straniero confuso come un
cucciolo sbalestrato da una cuccia soffice e calda in un mondo non suo, un mondo
freddo ed estraneo, fatto di grandi piedi pronti a prenderti a calci. E pensare
a quel bacio le sarebbe stato di conforto.
Questo racconto è
dedicato alla memoria di Fabrizio de Andrè e a “Princesa”. Perché Loredana ha
molto di lei.