L’ESTRO ARMONICO
Capitolo primo
THOU TUN'S THIS WORLD
Il ragazzo sostava immobile davanti ad un
vecchio, solitario muretto. Lo fissava assente.
La nebbia calava pesante sull’ imbrunire
annoiato, il ragazzo si sdraiò sul piccolo rudere posando la schiena.
sulla fatiscente colonnina da cui esso pareva germinare, era freddo e bagnato
Sapeva che il muschio e la vegetazione marcescente che lo
circondava gli avrebbero irrimediabilmente sporcato la già provatissima
tuta scatenando le più tempestose ire materne, ma non se ne curò.
Il ragazzo odiava quel muretto, odiava
la sua assoluta mancanza di significato, odiava quella quiete mortifera,
così patetica, che ormai sempre più spesso lo conduceva
lì.
Un vecchio quotidiano fradicio giaceva a poca distanza dai
suoi piedi, soppesò l’idea di sfogliarlo
ma optò per un’arcaica
caramellina senza destino che da eoni vagava per la sua tasca.
“All’eucalipto…, appiccicosa…”
in effetti bastava solo evitare di pensare, se l’avesse fatto non sarebbe
riuscito ad evitare la caduta, ad evitare il pensiero che in troppo tempo fossero successe
troppo poche cose, anzi, che non ne fosse successa nessuna!
Non che gli fosse fondamentale
illudersi di poter vincere la noia del viver quotidiano senza aggirarla, aveva
imparato a sue spese il ruolo della riflessione.
La noia nasconde i più densi significati, i significati più intimi
della natura umana…
Ma lui non era una persona
qualunque!
“Salvi il mondo, risalvi il mondo
e poi ti si chiede di rimanere immoto ad aspettare la fine?
Chi sono loro per arrogarsi questo diritto! Loro non
conoscono un solo particolare di tutto ciò che ho fatto, nulla di
ciò che sono… di ciò che
ero…di ciò che sono e che non posso più essere!”
Ma la cosa più frustrante è che il ragazzo sapeva
che non c’era nessun loro, che non aveva interlocutori, che era solo.
Non era però sempre stato
così, aveva avuto certi amici lui! Aveva goduto di
un’amicizia così vera!
Ora però si era inaridita tristemente, come un bicchiere
d’acqua lasciato all’aperto: senza che si possa rendersene conto,
si svuota silenzioso.
Non voleva ripensare ai suoi amici, erano l’emblema
del suo passato, e per quanto questo fosse per il suo
animo burrascoso l’ unico elemento a cui permettesse di definirlo,
rievocarlo lo devastava.
Odiava il tempo, lo odiava nonostante in
passato lo avesse amato più d’ogni altra cosa.
Improvvisamente il gelo della notte invernale ormai prossima
lo risvegliò con un brivido dal suo torpore. Dense nuvole di vapore
fuoriuscivano dalle rosse labbra screpolate e violenti brividi
sconquassarono il suo corpo sudato ed ingenuamente perfetto.
La caramella gli si ruppe tra i denti. Ci era
ricascato.
Era caduto di nuovo in quel baratro.
Che fine aveva fatto la sua tanto
ostentata determinazione?
Si chiese se non si fosse rammollito e capì di non
essere mai stato più forte di così: in quel baratro lo aveva
condotto proprio la sua forza d’animo.
Ed in fondo a lui quel baratro piaceva, era anzi
l’unica cosa che riuscisse, per quanto solo in
piccola parte, a confortare la sua inquietudine; ma quel baratro era anche
così profondamente diverso dal naturale scorrere della vita!
Non poteva sopportare , uscendovi, di
dover ammettere d’aver, in quegli istanti, solo pensato.
Che quella pace, per quanto incompleta,
fosse solo una parentesi fallace, addirittura colpevole.
Lo sguardo gli si posò involontariamente sul rigonfio
borsone sportivo che aveva poco prima lasciato sgraziatamente cadere per il
fangoso sentierino che portava fin lì e gli fu impossibile trattenere un
pesante sospiro di rassegnazione.
Il ragazzo cercava qual’cosa
di mitico, di trascendente ed era un desiderio che nasceva da una remotissima parte
di se, una parte sfuggente, dal sapore sovrumano… ne poteva assaporare la
pienezza intrinseca, così… bellicosa!
Sapeva di non averla ancora raggiunta, ma sapeva anche che
in un solo dove quel mito poteva tornare a pulsare: Digiworld.
Solo a Digiworld riusciva a sentirsi pieno, denso.
“E si può forse
farmene una colpa? Come si può vivere le esperienze che vi ho vissuto io ed
improvvisamente accettare il ritorno ad una realtà in cui i maggiori drammi
sono i brutti voti, i professori e le figuracce davanti alle ragazze…?”
No, c’era qual’cosa di
più, questa spiegazione non era abbastanza mitica.
D’altronde i suoi compagni d’avventura, tutti,
avevano cambiato vita già da un bel po’; avrebbe potuto farlo
anche lui, ma in tutto questo tempo non c’era riuscito, anzi, sinceramente non aveva
mai voluto nemmeno provarci!
Digiworld infatti era collassato.
Era probabilmente ancora vivo, ma non si poteva esserne
certi: parevano essere stati esclusi dal suo divenire ed irrimediabilmente
ormai.
Spento ogni contatto, inerte il digivice ( non funzionava
più nemmeno da orologio ), non rimaneva che dimenticare tutto a detta
dei più, come una sorta di allucinazione
collettiva, come un sogno imbarazzante, persino come una patologia. Si doveva
andare avanti!
“Vigliacchi, Codardi, tutti loro!”
Gli occhi divennero lucidi, le gote si arrossirono, il busto
s’irrigidì mentre i pugni si serrarono,il nodo alla gola morì in
uno starnuto deforme.
“Tutti loro…” ripensò.
Realizzò di non avere le idee chiare su quello che
provava per i suoi vecchi compagni d’avventura.
Se la rabbia apriva le danze, poi tutto si confondeva.
E qui la consueta dilatazione
toracica, ancora volutamente incompresa, che fece come se gli fosse esploso il
cuore sospingendogli lo spirito a fior di pelle.
“Oddio,
che stupido…”
-E CHE CI FARESTI TU LI’?!-
Quell’urlo fece letteralmente volare il ragazzo oltre
il muretto.
Quando, facendo capolino dagli
umidi mattoni, riconobbe l’esile figura che, tra nebbia e oscurità
rideva divertita, si sentì ancora più stupido.
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