Mi sento tutte le emozioni bloccate in gola, tutte bloccate
ai limiti dei miei occhi, tutte incastonate in lacrime d’argento.
Cosa dico? D’argento?
Queste lacrime sono solo di nera antracite. Di nero mascara
sciolto sulle mie guance. Io sono il dipinto della miserabilità. Sono un’iperbole
vivente.
Ripetiamo in coro: Amen.
Brindo mesta.
Ai Muse, perché hanno cambiato la mia vita e ne hanno fatto
molto di più (citando Jovanotti).
Ai Muse, perché ho capito che la musica non ha parole, non
ha gesti ma ha solo sensazioni.
Ai Muse che mi fanno piangere, ridere e sfuriare.
Ai Muse anche se in questa categoria c’andrebbero solo fan
fiction su di loro; ma io loro tre li vedo in questo scritto, più vividi che
mai, li vedo.
A tutta la gente meravigliosa che m’hanno fatto conoscere,
sappiate che c’è un pezzo di voi in me, sappiate che vi sento qui accanto a me.
Vi amo.
Alle luci che di notte sfrecciano in camera mia mentre
guardo un vostro dvd, perché non sono mai sazia dei gridolini di Matt e delle
facce porneh di Dom e dell’headbugging di Chris.
Al ciondolo a forma di plettro che mi sfiora il plesso
solare, perché arriva da muse.mu e sussulta al battito del mio cuore.
Allo scrivere, perché è il mio vivere, perché loro sono
onnipresenti nei miei spartiti di parole.
A mia madre che canta Time is Running out, che batte le mani
a tempo su Starlight e che dice di sì e manda una sbarbatella a Milano per
vedervi.
Al San Siro, perché magnificente quella notte m’abbracciò
tutta, provocando sinergie perfette. Al San Siro che riluceva, al San Siro che
cantava e scalpitava.
Alla luna di quella notte. Un anno fa. All’aria che
avvolgeva me, Matt Bellamy, Dom Howard e Chris Wolstenholme.
Al mio primo concerto, perché è stato primo di tanti, tanti
altri che aspetto con ansia e che ho vissuto con amore. Perché è la vita che
voglio vivere per sempre.
Alla mia adolescenza, al ciclo, sì, perché esagera le mie
parole, agli ormoni sfreccianti, al mio essere giovane donna in una società
occidentale che non va bene, no, ma che amo.
Al naso che ti prude prima di secernere lacrime.
A Kate Hudson, signori, ebbene sì, al cucciolo che porta in
grembo ed al magnificente spettacolo della vita, meglio di tanti concerti.
A Matt Bellamy, che corre per smaltire la panza, che sorride
col dente storto, che canta come Calliope, che è bello come la Luna.
A Dom Howard, che è leopardato come pochi, che ha un’appendice
nasale epica, che sorride con dolcezza, che suona da dio e che è bello come il
Sole.
A Chris Wolstenholme, perché è causa della sovrappopolazione
sulla Terra, perché fuma la pipa come nessuno, perché suona scuotendo le corde
del basso e dell’anima, perché è bello come il Mondo.
Alla maglia che indossai quel giorno, me la regalò mia
sorella per il concerto ed io la misi. L’ho addosso, ci dormirò.
A mio fratello, che era con me. Che è con me. Ti amo più di
tutto al mondo. Ti amo.
Alla mia famiglia, a mio padre, perché dei concerti viene a
sapere tutto il giorno prima. Tieni duro, obdura.
E a te, per ultimo, così, al biglietto sul quale sto
piangendo.
Perdonatemi, è
masochismo.
Otto giugno
duemilaundici, ore 00:00
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