Juliet
Probabilmente sembrerà una
delle tante storie con la scrittrice che s’inserisce. Invece non
c’è niente di più lontano da me di lei.
Eppure la amo follemente, lei, quello che significa, la sua origine (il
video di “Not good enough for truth in cliché”). Io
amo Juliet, Giulietta, Giulia, comunque la vogliate chiamare, è
sempre lei che si nasconde tra le pagine delle mie storie, che cerca di
uscire fuori ovunque, che è un po’ sperduta e cerca la
strada e gliela sbarrano tutte le volte.
Perché penso che anche Ronald l’abbia trovata questa
Juliet, perché anche Ronnie vede la disperazione, e sono questi
due motivi che mi tengono tanto legata a lui, tanto bisognosa di sapere
che c’è.
Ecco tutto, buona lettura.
Partecipante al “ 12 mesi di fedeltà [2nd year]”. La mia tabellina dei prompt – per questa storia ho scelto la 5^ e la 6^ immagine.
Ronald
salì sul pendio della collina. Compariva, passo dopo passo,
più grande e inquietante la torre preferita di Juliet. Una
costruzione di trecento anni prima, abbandonata e in rovina.
L’edera risaliva le pareti di pietra, il tetto era crollato per
metà all’interno; dall’ingresso, composto da una
porta scardinata e ammuffita, si vedeva il muschio percorrere
l’interno delle mura. Il luogo era avvolto da una fitta nebbia, e
si intravedeva in lontananza il cimitero della città, dietro un
boschetto di alberi rinsecchiti, i cui rami spelacchiati sembravano
tendersi a indicare la costruzione decaduta.
A Juliet
piaceva così, diceva. Non che poi, una volta visitatala, fosse
tanto spiacevole. C’era silenzio; se ci si sapeva nascondere, si
riusciva a fuggire da tutti, anche dagli adulti che più
conoscevano la cittadina. Juliet, in tutti quegli anni trascorsi sulla
collina, aveva imparato a menadito il perimetro della zona e quello
della casa; in quel modo aveva trovato sul pavimento della cucina una
botola che conduceva a quella che doveva essere stata una dispensa. Da
quel momento aveva trasferito di sotto un paio di coperte, delle torce
e alcune batterie.
Ronald capiva
tanto bene l’atmosfera della collina quanto Juliet: più o
meno la stessa natura divisa in due manifestazioni, molto simili anche
nell’aspetto. Si vedeva la torre e si aveva l’impressione
di scorgere Juliet: finestre scure – occhi pieni d’ombra
– mattoni corrosi – l’espressione del volto indurita
– le crepe lungo la torre – la cicatrice di Juliet che le
occupava tutto il torace, verticalmente, partendo dalla base del collo
fino alle ultime due costole.
Ronald
saltò dentro la dispensa, evitando i due o tre gradini
pericolanti, proseguendo su una scala ripida e poco solida. Più
scendeva, più la luminescenza della lampada aumentava: Juliet
era lì, proprio come pensava.
Non
l’aveva sentito entrare, era ancora concentrata su un libriccino
con la copertina spiegazzata. Una donna così, che sprigionava
sensazioni contrastanti, con labbra vermiglie, mascara e ombretto nero
tutt’intorno agli occhi … attirava a sé le persone,
chiunque, e le respingeva, con i suoi flessuosi movimenti, e le sue
parole graffianti; Juliet era un mostro, in città. Poi arrivava
in collina e chiunque se ne sarebbe innamorato.
« Ieri
notte ho venduto il mio corpo ». Esordì. In realtà,
evidentemente, aveva soltanto finto di non essersi accorta della sua
presenza. Chiuse il libro e lo posò su una porzione di plaid.
« E mi sono divertita ».
Si era legata i
capelli: non era un volto splendente, o giovanile, il suo. Come quello
delle altre ragazze; non era una storia normale, la sua.
Juliet non era normale.
Lei rispondeva,
sempre, che la normalità non esisteva, e anche se fosse esistita
nessuno poteva avere le capacità di definirla. Spaventata di
sé, di ciò che diventava giorno dopo giorno. Animale
braccato, rabbioso, azzannava. E azzannava, azzannava, senza mai un
attimo di tregua o di serenità.
« Ho
fatto l’amore con un uomo. Quell’uomo non pensava ad altro,
Ronald … non come te. Vedeva il mio corpo mentre mi stringeva,
non quello di un altro. C’ero soltanto io in quella stanza per
lui ».
La sera prima. Pagava la sera prima: per Juliet diveniva il nemico, l’altro, il resto del mondo.
Un animale in una gabbia, cresciuto in cattività.
« Tu non ti sei prostituita davvero, Juliet ».
Lo guardò con odio, con rabbia. « Avrei dovuto, non credi? ».
Ronald aveva
provato a trattarla come chiunque avrebbe meritato, con rispetto, con
amore; aveva tentato di farla sentire bene con se stessa e gli altri;
voleva guarirla, mostrarle il mondo com’era davvero. Lei lo aveva
allontanato, perché non conosceva gentilezze, neanche tanto
dovute e necessarie a un rapporto umano.
Pur di
riaverla, aveva preferito trasformarsi in un essere spregevole e
cinico. Quando c’era lei nei paraggi fingeva, poi tornava il
vecchio Ronald. Disilluso, ma non alla deriva. Non distrutto.
Maxwell odiava Juliet.
Maxwell
ripudiava le persone come lei, non le accettava, con ogni fibra del suo
corpo. Aveva tentato di far ragionare Ronald, di farlo rinsavire:
frequentava quanto di più simile al male puro esistesse. Se
c’erano state streghe nell’antichità, dovevano aver
avuto la presenza l’aspetto e le abitudini di Juliet.
Era il suo migliore amico e non riusciva a portarlo via dal buco infido in cui per forza sentiva il bisogno di infilarsi.
Non capiva che
non l’avrebbe portata via. Juliet non poteva salvarsi; Juliet ci
era nata in quel buco, ci era cresciuta, era parte di lei, come lei era
parte di quel buco.
Con quella sua
odiosa voce sadica, il disprezzo per l’umanità, la luce
che portava via da ogni luogo quando compariva.
Ronald era
attaccato a lei, malsanamente, come altrimenti non avrebbe potuto
essere. Come si ha bisogno di una droga, sapendo di trascinarsi verso
la morte, sentendo d’incappare nel dolore più profondo,
reale.
Cosa poteva mai vedere in lei di bello? Il suo faccino mascherato? La cicatrice rosea? Cosa? COSA.
Le mani,
quand’era lontano da lei, percepivano perfettamente la carne di
Juliet. Faceva male. Faceva male vivere senza Juliet. E vivere con lei.
Anche solo pensare. Immaginare Juliet e tutto l’odio con cui
riusciva a vivere, quella massa pulsante di sado-masochismo, groviglio
di dolore trasformato in dolore altrui, odio, lo faceva impazzire. Come poteva sopravvivere, prendere aria, respirare?
« Io non amo Maxwell, amo te ».
Gliel’aveva raccontato la sera prima. “Io amo Juliet” gli aveva detto.
« Come?
Come la ami, come ci riesci? Dovresti amare ogni singolo essere vivente
sulla faccia della terra per amare una come lei. Ci si sono messi di
impegno a mettere insieme tanti difetti … non sembra neanche
umana ».
Aveva immaginato che la odiasse, ma non fino a quel punto.
« È spregevole, fa di tutto per rendersi odiosa e mostruosa ».
« Smettila ».
« Tu sei impazzito, Ron ».
Seduti
sull’erba, Maxwell si era rivolto dall’altro lato, dandogli
le spalle; non ci aveva pensato. Gli aveva afferrato il mento e lo
aveva baciato. Sulla bocca. Il suo migliore amico da sempre. Lui
l’aveva baciato. Allo stesso modo in cui baciava Juliet …
Max se ne era reso conto, e se pure avrebbe dovuto essere felice,
perché Ronald finalmente era rinsavito – o almeno
così s’illudeva – era più arrabbiato di
prima. Lui non era Juliet, non aveva bisogno di nessun odio per
riuscire a lasciarsi amare.
« Va’ via, Ronald ».
E quando Ronald
aveva fatto per andarsene aveva scorto Juliet non lontana, sotto le
foglie di un albero. Rideva, rideva perché tempo addietro gli
aveva detto “tutti sono cattivi, in fondo, e tutti mentono, prima
o poi”. Avevano avuto entrambi la prova che quella era la
verità.
« Io non
voglio essere amata, Ronald, non me ne frega un accidente ».
Pareva fosse la realtà, non c’era traccia di sentimenti,
era solo una costatazione. « È che tu sei troppo buono per
dedicarti completamente a me, Ron. Tu non hai bisogno di me né
io di te ».
Nella testa di
Ronald comparivano le giornate con Maxwell, nessuna traccia di Juliet,
e nemmeno la certezza di trovarla da qualche parte, a struggersi da
sola in mezzo al vuoto. Nulla era più sufficiente. Nulla sarebbe
stato lo stesso senza di lei.
Faceva male,
tanto male. Era sbagliato. Anche più del modo in cui Juliet si
uccideva dall’interno per poi non doversi sentire in debito con
il suo corpo o la sua anima.
« No » ruppe il silenzio Ronald.
Juliet si alzò in piedi. Si avvicinò a lui e gli strinse le braccia intorno al collo. Occhi negli occhi.
Avvicinò le labbra all’orecchio: « Parto domani, Ron ».
Non era sicuro
di aver capito, avrebbe preferito fingere di non aver sentito; la
baciò, baciò come non gli era mai stato permesso;
baciò con amore e tristezza; baciò sentendo ogni pezzo
staccarsi l’uno dall’altro.
Stava andando via, allora.
« Me ne vado per sempre ». Confessò prendendo aria da lui, da Ronald, da sé.
Ronald la
strinse, rimase immobile lei, concedendogli una consolazione,
concedendosi una consolazione. Concedendo a entrambi di avere qualcosa
da ricordare senza che fosse offuscata da una qualche forma di
malvagità, da una qualche immagine dell’egocentrica
crudeltà di Juliet.
Juliet pensò di essere davvero perfida, e gemette.
Aggiornamento (delle 23:17)
I risultati sono usciti, quindi eccoveli qua. ^^
1. Costruzione della trama: 09/10
2. Costruzione dei personaggi: 09/10
3. Lessico, grammatica, utilizzo della lingua italiana: 09/10
4. Difficoltà 1 (personaggi non autoreferenziali): 09/10
5. Utilizzo prompt: 5/5
Totale punteggio: 41
Mi sono ritrovata come un'ebete a leggere questa storia rimanendone colpita e anche turbata.
Il personaggio di Juliet è disturbante, di quei personaggi
femminili che risultano fastidiosi nella totale follia in cui
albergano. Donne che svendono amore, donne che non vogliono amare.
Della cruda corazza di cui Ory investe Juliet, ci sono le cicatrici
indelebili di una maschera indossata per difendersi. Le atmosfere
ricreate dall'autrice sono evocative, specie quelle ambientate nella
torre, e ho trovato l'alcova sicura del rifugio per bambini la
controparte "marcia" del mondo in cui Juliet si lascia scivolare quando
è lontana da Ronald.
Ory racconta di un amore che non ha nome, perché nessuno vuole
concedersi il vessillo della sconfitta, e lo fa con la struggente
malinconia degli addii.
Juliet è un personaggio che mi ha affascinata notevolmente,
perchè nella sua ambiguità - e nella sua malvagità
- è invece umana e realistica, incarnando quel concetto di
femminilità portata persino all'esasperazione, per potersi
affermare e rendersi indipendente ai legami e ai vincoli.
Ho adorato questa storia soprattutto per le atmosfere e la resa eccelsa
di un personaggio che poteva risultare banale e che, invece, ho trovato
strutturato in maniera ottimale, senza risultare una macchietta ma
toccante.
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