Questa storia
si è classificata prima a parimerito con la storia "Lupo" di Mizar19 al concorso "Nice to Meet You" indetto da Bellis e DataLore sul forum
di EFP. Si è inoltre aggiudicata il premio per il Realismo.
Lo scopo era descrivere un proprio personaggio originale entro un
limite massimo di 1500 parole. Io ne ho utilizzate esattamente
1228.
Probabilmente
trasformerò questa storia in una raccolta, ma non è ancora
sicuro.
Spero vogliate
farmi sapere cosa ne pensate, mi mancano molto le vostre
recensioni.
A
presto,
Miss
Dark.
“Un povero ed
insensibile cinico, rinchiuso nella propria misera casa a scribacchiare
storielle senza senso su cinici come lui che non hanno capito niente della vita,
ma che pensano di essere in diritto di sputare sentenze sul mondo intero senza
riflettere sulla propria triste situazione”.
Questo gli aveva
urlato sua figlia diciottenne prima di uscire di casa per sempre.
Erano passati sette
anni e non aveva più avuto notizie di lei. Non sapeva se fosse sposata o
fidanzata, se avesse un lavoro degno della sua intelligenza, se guadagnasse
abbastanza per vivere, ma, nonostante questo e nonostante il suo affetto nei
confronti di quell’unica figlia scomparsa dalla sua vita, non le aveva mai
scritto neanche una lettera e non le aveva fatto nemmeno una
telefonata.
Sua moglie si era
tenuta in contatto, ma non gli aveva mai comunicato nulla oltre al fatto che
stesse bene. Poi se n’era andata anche lei per sempre, in una giornata di marzo,
mentre si occupava delle sue rose. Un infarto ed era morta subito: senza
soffrire più di tanto, avevano detto i medici.
E così Malcolm era
rimasto solo, completamente solo. Quasi per scelta, dato che non aveva cercato
di allargare le proprie amicizie e che, anzi, aveva tagliato i contatti con
tutti. Non per il dolore causato dalla perdita dell’amata moglie, che,
nell’ultimo periodo, aveva cominciato ad odiarlo, quanto per l’insofferenza
compulsiva che aveva sviluppato nei confronti di tutto il resto del
mondo.
Aveva venduto il grande appartamento nel centro della città e il cane
che aveva accompagnato la sua famiglia per oltre dodici anni e si era trasferito
in una piccola casa nella periferia est.
L’arredamento era
funzionale alle sue necessità: una cucina piccola e spartana, una camera da
letto spoglia e fredda e un salone occupato da una grande scrivania di legno su
cui troneggiava una vecchia macchina da scrivere. Le finestre erano sempre
chiuse e le serrande abbassate; la porta di casa era sprangata e veniva aperta
solo due volte alla settimana, ovvero quando Malcolm era costretto ad uscire di
casa per andare a fare la spesa.
Non aveva una
macchina, perché la riteneva inutile, per cui si spostava utilizzando i mezzi
pubblici, luogo di incontro di decine e decine di persone diverse e, quindi,
potenziale spunto di ispirazione per uno scrittore. Malcolm, però, detestava i
pullman. Li trovava puzzolenti e sporchi e diffidava delle persone che vi poteva
incontrare: non sopportava gli extracomunitari dai vestiti colorati, le vecchie
che elemosinavano posti a sedere facendo pressione su odiosi adolescenti
sbruffoni, che durante tutto il tragitto urlavano e ridevano, senza però
riuscire a coprire i fastidiosissimi pianti di bambini che le madri incapaci non
erano in grado di far tacere. Lui saliva al capolinea, si sedeva in fondo e, per
distrarsi dal fastidio che tutte quelle persone gli procuravano, mangiava
mentine e osservava il paesaggio al di là del finestrino. Scendeva dopo
diciassette fermate, faceva duecento metri ed entrava nel supermercato, dove
comprava sempre le stesse cose, per una spesa complessiva di trentaquattro
dollari e ventisette centesimi. Distribuiva gli articoli in quattro buste di
plastica, che trasportava con estrema fatica, vista la sua magrezza.
Al ritorno non
c’erano mai posti liberi, per cui gli toccava stare in piedi. In quella
condizione, sopportare il viaggio era molto più difficile e di conseguenza
tornava a casa stanco e arrabbiato. Metteva a posto la spesa e, seccato, si
sedeva alla propria scrivania e riversava il proprio astio verso la gente e
verso la società nel romanzo che stava scrivendo da oltre tre anni.
Era un libro lungo
oltre seicento pagine e molto complicato. Non l’aveva mai fatto leggere a
nessuno, ma era sicuro che sarebbe stato un grande successo, una volta
terminato. E, ogni giorno, era convinto di poterlo finire, ma ciò non avveniva
mai, perché il suo disprezzo per il mondo era illimitato e ogni giorno si
ritrovava a scrivere decine e decine di pagine, che andavano a sommarsi alle
precedenti. Non l’avrebbe mai finito e non l’avrebbe mai presentato a nessun
editore, per cui non l’avrebbe mai pubblicato e non sarebbe mai diventato uno
scrittore vero e proprio, ma lui era sicuro di esserlo già. Quando, casualmente,
incontrava qualcuno, si presentava come “Malcolm Herson, scrittore del più
grande libro di analisi della società moderna”. Nessuno gli chiedeva mai di che
cosa trattasse quel libro dal tema così vasto e nessuno lo invitava mai a
continuare la conversazione in un ristorante.
Nessuno voleva
spendere del tempo con lui e questo non lo rendeva affatto infelice.
Aveva sessantacinque
anni e si riteneva sufficientemente vecchio da buttare le proprie giornata al
vento, sedendo sul retro della propria casa a leggere libri sconosciuti ai più,
isolandosi dal resto del mondo, che, pensava, avrebbe fatto a meno della sua
presenza.
Spesso la sua
giovane vicina di casa si avvicinava alla staccionata e lo osservava a lungo,
ricercando nei suoi movimenti un segno della sua tristezza infinita, causata
dalla solitudine nella quale viveva, ma non era mai riuscita a cogliere alcun
sintomo di fragilità.
Dietro ai piccoli
occhiali tondi posati sul grosso naso, due occhi azzurri e inquieti scorrevano
veloci sulle pagine dei libri, poggiati sulle gracili gambe e sfogliati da due
mani grosse e sproporzionate rispetto alle braccia esili.
Al di là della
disarmonia di quel corpo poco curato e al di là di quello sguardo ostile, però,
Mary era convinta potesse esistere un essere da cui imparare molte cose. Per
questo, ogni tanto, si azzardava a salutarlo gentilmente, nella speranza di
essere invitata a sedere vicino a lui, sulla panchina di quel giardino
abbandonato. La risposta a quella gentilezza, però, era sempre uno sguardo di
disapprovazione per il tono troppo allegro e per lo sguardo troppo
solare.
“Inutili ragazzine
piene di vita”, si ritrovava a pensare la sera Malcolm, quando, seduto al tavolo
della cucina, mangiava la cena preparata in fretta e sentiva le risate della
ragazza provenire dalla casa di fronte.
Spesso, infatti,
Mary organizzava delle piccole feste con le amiche. Aveva ventiquattro anni e
non studiava all’università, ma impiegava la maggior parte del proprio tempo
lavorando come impiegata statale nel centro della città. Non era una
scansafatiche e non incarnava nemmeno uno dei pregiudizi che portavano Malcolm a
diffidare di tutti i giovani, eppure l’uomo non aveva mai ricambiato le
gentilezze della ragazza ed ella, dopo qualche tempo, aveva smesso di
rivolgergliele.
Malcolm non era mai
stato un ragazzo, e poi un uomo, felice, perché riusciva a trovare un lato
negativo e criticabile in qualunque cosa. La sua vita era stata un susseguirsi
di eventi spiacevoli, non in sé, ma a causa dell’atteggiamento con il quale
l’uomo li affrontava. Non era mai stato in grado di cogliere le opportunità per
migliorare la propria vita e non ne era capace neanche ora che poteva costruire
un rapporto Mary e porre fine al proprio isolamento.
Quando finiva di
cenare, si alzava dal tavolo, lavava i piatti e si soffermava alla finestra ad
osservare la casa di fronte, in cui le ombre delle ragazze si muovevano a ritmo
di musica.
“Gioventù bruciata”,
ripeteva tra sé e sé, senza pensare che la vera vita bruciata era la sua, quella
di uomo accecato dal proprio cinismo ed intrappolato in una solitudine da cui
era incapace di liberarsi.
Si sedeva alla
scrivania e iniziava a scrivere le proprie parole piene di rabbia, avvolto in un
silenzio di rimorsi inconsapevoli.