prologo
AUTORE: Unsub
TITOLO: A little bit of…
RATING: Giallo
GENERE: sentimentale, fluff.
AVVERTIMENTI: LongFic, What if?
PERSONAGGI: Spencer Reid, Derek Morgan, nuovi personaggi.
DISCLAIMER: I personaggi non mi appartengono(tranne quelli da me
inventati), sono di Jeff Davis. Criminal minds appartiene alla CBS.
Questa storia non è a scopo di lucro.
NOTE: La storia comincia tra la fine della terza stagione e
l’inizio della quarta. Sono due storie d’amore parallele,
che ci mostrano quanto diversi siano Morgan e Reid e come lo stesso
sentimento possa essere vissuto in modo diametralmente opposto. Per chi
mi ha seguito fino ad ora, avvertenze speciali: niente Sarah, niente
Chris... niente di tutto ciò.
Prologo
Quantico Virginia, villetta bifamigliare su due piani (fine dell’episodio 18, 3^ stagione)
Dopo una settimana lunga ed impegnativa erano finalmente riusciti a
catturare lo psicopatico che tormentava una donna a Silver Spring, nel
Maryland. Morgan si soffermò a pensare quanto fosse facile
cadere nelle mire di persone squilibrate, che scambiavano un sorriso di
cortesia per l’invito a qualcosa di completamente diverso. La
vita poteva prendere una svolta inaspettata in qualsiasi momento e per
motivi che prescindevano la volontà del singolo individuo,
quella donna ne era la prova vivente.
Non aveva incoraggiato l’S.I. in nessun modo, limitandosi a
sorridergli freddamente dopo che lui le aveva sistemato il computer.
Per quel pazzoide era stato l’inizio di un’ossessione che
l’aveva portato a “corteggiare” la donna in modo
ossessivo, fino a rapirla convinto di poter cominciare una vita insieme
a quella povera sventurata.
Il loro era un lavoro che metteva in evidenza il peggio della gente, il
lato oscuro insito negli esseri umani. Persone perfettamente
equilibrate e senza colpa alcuna che si ritrovavano immischiate in
situazioni fuori dal loro controllo, per un capriccio del destino. Se
quel giorno la donna non avesse sorriso per un riflesso condizionato,
insito nella società, quello psicopatico non avrebbe mai
cominciato a perseguitarla.
Si disse che la vita a volte era buffa, ma non in senso positivo.
Clooney, il suo rottweiler, era sdraiato di lato al letto e lo fissava
con due occhi imploranti. Probabile che volesse uscire, ma lui non se
la sentiva di andare a fare una passeggiata, con buona pace del
bestione che muoveva convulsamente il moncone di coda. Morgan
sospirò soddisfatto, mentre si rigirava nel letto, deciso a
poltrire per tutto il fine settimana, quando due o tre colpi piuttosto
forti provenienti dal piano di sopra lo costrinsero suo malgrado ad
alzarsi.
Sapeva che, nonostante la sua offerta al proprietario della villetta
bifamigliare, l’appartamento sopra il suo era stato venduto a
qualcun altro. Sbuffò indispettito, pensando che se il suo nuovo
vicino di casa era così rumoroso il sabato mattina alle nove, la
loro “convivenza forzata” cominciava decisamente male.
Afferrò un paio di jeans e una maglietta, deciso ad affrontare
subito il nuovo rumoroso “coinquilino”.
Fece uscire il cane nel cortile posteriore, che era a suo uso
esclusivo, e poi si diresse a passo sicuro verso l’ingresso
principale. Attraversò a grandi falcate il giardino e fece le
scale che conducevano all’altro appartamento, salendo i gradini
due alla volta. Era pronto a bussare, quando si rese conto che la porta
era solo leggermente accostante e non chiusa. Corrugò la fronte,
chiedendosi chi fosse così incosciente da non chiudere bene la
porta.
Si rispose che il nuovo inquilino non era solo troppo rumoroso, era
anche uno che non leggeva i giornali e non capiva che il mondo era un
posto molto pericoloso. Scosse la testa, augurandosi di non dover mai
tornare a casa e trovare una chiazza di sangue sul soffitto. Si
sentì di nuovo il rumore di qualcosa che cadeva e poi un urlo.
Spalancò la porta e corse dentro, preoccupato che stesse
succedendo qualcosa inerente il suo lavoro, all’interno. La scena
che si trovò davanti lo lasciò momentaneamente senza
fiato e a bocca aperta.
Le pareti erano state tinteggiate di un’improbabile color giallo
canarino e al centro della stanza, fra un mucchio di scatoloni
ammucchiate, stava una figura avvolta in una salopette di jeans e con
uno scatolone rigirato sulla testa.
Tutto intorno al corpo informe, una serie di cianfrusaglie
giacevano abbandonate sul telo di plastica trasparente. Rimase
fermò con un sopracciglio sollevato ad osservare quella scena al
limite del surreale, chiedendosi se il misterioso personaggio si fosse
fatto male. Prima che potesse accertarsi di qualcosa, sentì una
risata forte ed argentina provenire dallo scatolone.
Vide due mani bianche sollevare il cartone e finalmente comparire una
persona, che rideva con le lacrime agli occhi. Era una ragazza
abbastanza giovane, dai capelli ramati e con divertenti fossette sulle guance che si
notavano ancora di più per via di quella risata che non
accennava a calmarsi.
- Ehi ragazzina? Tutto bene? – chiese chinandosi verso di lei preoccupato.
- Oh, sì… non si preoccupi, questo
genere di incidenti mi capitano spesso – rispose la ragazza
puntando su di lui due occhi color nocciola adorni di lunghe ciglia
– Sono una vera sbadata… fortunatamente non ho niente di
rotto…
I due si guardarono ancora qualche istante, poi Derek, resosi conto
dello sguardo interrogativo della giovane ancora seduta per terra,
decise che era il caso di presentarsi… voleva sapere a chi stava
per fare la ramanzina.
- Io sono l’inquilino del piano di sotto – cominciò con aria severa.
- Sì, questa settimana l’ho vista uscire
molto presto e rincasare molto tardi – disse la ragazza tirandosi
in piedi – Avrei voluto venire a presentarmi, ma lei sembrava
andare sempre così di corsa… Mi chiamo Fanny, Fanny
McLaren.
L’agente federale scrutò la bianca mano, piccola e
delicata, che gli veniva tesa. Esaminò ancora un momento, con
aria critica, quell’assurda ragazzina.
- Io sono Derek Morgan – disse senza stringerle
la mano – Le sarei grato se evitasse tutto questo trambusto.
- Mi dispiace se l’ho disturbata… sto
finendo di traslocare – la ragazza, per nulla intimidita,
piegò la testa di lato e gli regalò un sorriso dolce
– Di solito non sono così rumorosa, glielo posso garantire.
- Speriamo… - Morgan non abbandonava
ancora il suo cipiglio contrariato – Inoltre per il futuro
sarebbe meglio che chiudesse la porta. Si rende conto che poteva
entrare chiunque?
- Beh… ma è entrato lei – di
nuovo sorrise – Non dove temere
niente da un’agente federale, no?
- Come fa a sapere…
- Il vecchio proprietario mi ha detto che le è
nell’F.B.I., mi ha garantito che è una persona piuttosto
tranquilla e non uno svitato di cui il mondo pullula.
- Signorina McLaren… - provò di nuovo il moro.
- Fanny! – squittì la strana ragazza
– Visto che siamo vicini, mi puoi chiamare anche per nome.
- Fanny, forse non ti rendi conto che è pericoloso…
- Guarda che nessuno può saperlo meglio di me – Fanny mise il broncio e gonfiò le guance.
- Ah sì? E come mai nessuno conosce il
pericolo meglio di te? – suo malgrado Morgan sorrise della buffa
espressione della ragazza.
- Sono anatomo-patologa, lavoro per l’ufficio del medico legale di Washington…
- E tieni la porta aperta? Dovresti averne viste di
cose. E poi non sei un po’ troppo giovane per essere
anatomo-patologa? – osservò la ragazza che sembravano
giovanissima, sui vent’anni.
- Ho 28 anni e poi la porta era aperta perché stavo per scendere…
- E dove andavi di bello? – decisamente quella ragazza era fuori dal mondo.
- Venivo a presentarmi. Ho visto la tua
macchina parcheggiata qui davanti e ho pensato che fosse educato
scendere a conoscerti.
- Ti presenti così a casa delle persone?
– Derek la scrutò di nuovo dall’alto in basso
– E sei io avessi cattive intenzioni? In fin dei conti sono un
estraneo.
- Beh – la ragazza gli regalò un altro
dei suoi sorrisi smaglianti – Un estraneo è solo un amico
che non hai mai incontrato prima.
- Tu sei tutta matta!
Però scoppiò a ridere insieme a lei: decisamente
la vita sarebbe stata meno noiosa con l’arrivo di quella nuova
improbabile vicina.
Georgetown University, Biblioteca (dopo l’episodio 1 della 4^ stagione)
Spencer era seduto da ore su quella scomoda sedia di legno pesante,
sembrava non curarsi di nessuno, tutto preso a sfogliare svogliatamente
un poderoso tomo di filosofia. In condizioni normali avrebbe impiegato
pochissimo a leggerlo tutto e memorizzarlo, ma il suo formidabile
cervello era preso da un’equazione impossibile da risolvere.
Cominciò a osservare intensamente una pagina del libro, senza
effettivamente vederla. Troppo informazioni, troppe novità da
digerire per potersi concentrare sui suoi studi. In poco più di
due settimane aveva visto andare in frantumi il suo sogno segreto:
sapeva che era impossibile da realizzare, ma ora si doveva scontrare
contro la dura realtà e niente avrebbe cambiato questo fatto.
Quando JJ aveva cominciato a frequentare il detective LaMontagne, circa
un anno prima, si era detto che la loro relazione sarebbe finita
schiacciata dal peso della lontananza: bastava avere un po’ di
pazienza e fare finta di ignorare quello che legava quei due. Nel
frattempo avrebbe potuto crogiolarsi nel suo sogno di vedere JJ
guardarlo con occhi diversi, la possibilità che lei vedesse
più di un amico e collega. Anche quando erano venuti allo
scoperto durante il caso a Miami, lui non aveva battuto ciglio: quanto
ancora poteva durare quella relazione a distanza?
Poi c’era stato New York… strinse istintivamente i pugni
al ricordo di come un pezzo dopo l’altro aveva visto infrangersi
i suoi sogni e il suo cuore. Prima la notizia che lei aspettava un
figlio dal poliziotto di New Orleans, primo colpo al cuore. In una
frazione di secondo si era detto che poteva fingere che fosse suo, in
fin dei conti nessuno poteva portargli via il mondo interiore che si
era costruito nella mente. Quando aveva sentito Will annunciare di aver
chiesto a Jennifer di sposarlo, aveva ingoiato a vuoto. Si era sforzato
di abbracciarla ed augurarle il meglio, mentre dentro si sentiva morire.
Si era detto che non tutto era perduto, forse lei avrebbe rifiutato,
decidendo di crescere il bambino da sola. La distanza era ancora
parecchia, non si poteva portare avanti un matrimonio vivendo in due
città diverse a chilometri di distanza, che razza di padre
sarebbe stato? Lei sicuramente avrebbe messo al primo posto la
priorità del piccolo di avere una figura paterna di riferimento.
Quando, alla centrale, avevano consegnato al suo biondo sogno segreto
quella busta, aveva provato a convincersi che lui l’avesse
lasciata.
In fin dei conti si doveva essere reso conto che quella situazione era
assurda. Non poteva essere così stupido, era impossibile
continuare in quel modo. Aveva visto lo sguardo della ragazza
illuminarsi e si era sentito morire per la seconda volta in poche ore.
Che lui le avesse chiesto di lasciare il lavoro e trasferirsi? No,
si disse scartando subito l’ipotesi, JJ adorava il suo lavoro e la
squadra. Era inconcepibile che li lasciasse per seguire quel tipo.
Aveva trovato il coraggio di chiederle cosa dicesse la lettera e lei,
tutta sorridente ed ignara di stare spezzando il cuore del suo
“amico”, aveva comunicato che Will lasciava il suo lavoro a
New Orleans per trasferirsi a Washington e stare vicino a lei e al
bambino. In quel momento si era reso conto che non c’erano
più speranze a cui aggrapparsi e aveva preso la decisione di era concentrato sul caso,
ingoiando tutta la sua sofferenza.
Alla fine il suo lavoro era abbastanza impegnativo da permettergli di
non pensare continuamente al suo sogno d’amore infranto e questo
gli permetteva di tirare avanti, più o meno. La parte peggiore
erano i week-end liberi, se ne rese conto mentre lasciava che il suo
sguardo vagasse per la grande biblioteca del campus universitario.
Anche se cercava di concentrarsi sullo studio e chiudere tutto il resto
fuori, sapendo di non avendo scadenze precise a cui fare riferimento,
il suo cervello si permetteva di divagare ed inseguire quella chimera.
JJ era sempre stata gentile con lui, aveva sempre un sorriso ed una
parola di conforto. Per non parlare di quando gli toccava il braccio e
stringeva leggermente, per comunicargli tutta la sua partecipazione. Lo
chiamava ancora Spence, ma per lui non aveva più quel suono
dolce che in passato lo portava a sorridere. Era, ormai, solo il suo
nome sulle labbra di qualcuno che non l’avrebbe mai considerato
un papabile compagno di vita.
Sbatté le palpebre un paio di volte, rendendosi conto di aver
perso mezz’ora inseguendo il flusso di quei pensieri tristi.
Doveva rassegnarsi al fatto di essere solo, non aveva nessuno nella sua
vita oltre i suoi compagni di squadra. Non ci sarebbe stata nessuna
ragazza ad aspettarlo dietro la porta di casa, con un sorriso dolce e
un “bentornato” sulle labbra. Il suo piccolo appartamento
sarebbe rimasto pieno solo di libri…
Doveva dimenticare JJ e quello che provava per lei, doveva cancellare
quelle vane speranze dal suo cuore e concentrarsi sul lavoro e lo
studio. Niente più distrazioni romantiche, niente più
sogni ad occhi aperti. Lo scontro con la dura realtà era troppo
difficile da sopportare.
Un pensiero seguì tutti gli altri. Al mondo c’erano quasi
sette miliardi di abitanti, possibile che non ci fosse la ragazza
adatta a lui che avrebbe ricambiato i suoi sentimenti? Statisticamente
era alquanto improbabile che non ne incontrasse mai almeno una
interessata… statisticamente…
Poteva provare, in fin dei conti tentare non costa nulla. Avrebbe
dimenticato JJ, che decise di considerare solo un’amica e una
collega, e si sarebbe guardato intorno. Poi si diede dello stupido, lui
non era mica Morgan. Non era in grado di attaccare bottone con una
ragazza senza che questa decidesse all’istante che era uno
sfigato senza speranza. Non era brillante e l’unica cosa di cui
sapeva parlare erano le statistiche e il suo lavoro. Quale ragazza
poteva trovare affascinante uno che parla come un libro stampato?
Aveva bisogno che qualcuno gli regalasse un sorriso, magari anche
distratto, ma che gli facesse sentire di non essere invisibile. Voleva
che qualcuno gli facesse sentire di esistere, che per un attimo nella
sua vita lo facesse sentire protagonista e non mero spettatore degli
aventi che si svolgevano tutt’intorno.
Era nella biblioteca della Georgetown e quindi sapeva dove trovarlo
quel sorriso. Alzò lo sguardo verso il bancone e lei era
lì, come sempre, con una coda di cavallo e quel gesto nervoso
con cui si riaggiustava gli occhiali da lettura sul naso. Era giovane e carina,
sempre disponibile con tutti e, soprattutto, era una ragazza solare che
regalava il suo sorriso a chiunque le rivolgesse la parola.
Poteva avvicinarsi con la scusa di chiedere un’informazione e
ricevere quello di cui sentiva il bisogno in quel momento. Era facile,
bastava alzarsi e camminare per una diecina di metri. Cercava di
trovare una ragione per rivolgerle la parola, frugando disperatamente
nei meandri del suo cervello per trovare qualcosa da chiederle.
Improvvisamente la ragazza alzò lo sguardò fino ad
incrociarlo con quello di lui e si aprì in quel sorriso gioviale
che per Reid fu contagioso.
Le sorrise a sua volta, inconsapevolmente, sentiva chiaramente le sue
labbra piegarsi all’insù senza che lui avesse impartito
quell’ordine alla sua bocca. Fu ricompensato da un sorriso ancora
più luminoso da parte della ragazza seguito da qualcosa che
Spencer non si era proprio aspettato. Vide un lieve rossore apparire
sulle gote di quella ragazza, che prontamente chinò la testa di
scatto, girando il viso come alla ricerca di qualcosa.
Aggrottò le sopracciglia stupito, cosa stava succedendo? Forse,
si disse, non sorrideva a lui ma a qualche bel ragazzo alle sue spalle.
Risposta ovvio, si rimproverò: cosa si era aspettato? Che una
ragazza così carina e sicuramente piena di ammiratori,
rivolgesse un sorriso del genere a lui? Impossibile, si disse mentre si
voltava a cercare il fortunato destinatario di quel rossore improvviso.
Si girò e rigirò, facendo correre lo sguardo su tutta la
sala.
Si rese conto che in realtà nella sala di lettura erano presenti
solo lui e la bella assistente. Guardò l’orologio e si
rese conto che era perfettamente normale, visto che ormai si era fatto
ora di pranzo, era sabato e gli esami erano ancora lontani. Chi poteva
frequentare la biblioteca in quel momento? Solo un caso disperato come
lui.
A quel pensiero ne seguì un altro. Se erano solo loro
due… quel sorriso e quel rossore erano rivolti a lui e non a
qualche fantomatico maschio alfa che si aggirava per quel luogo
silenzioso. Ingoiò, spiazzato da quella rivelazione improvvisa,
chiedendosi come fosse possibile. Sentì il cellulare che vibrava
nella tasca dei pantaloni e lo afferrò, pensando che quello era
qualcosa che poteva gestire. Gli facevano meno paura gli S.I. che il
dover parlare con una ragazza di cui non conosceva neanche il nome.
Nonostante fosse un anno che frequentava la biblioteca, le aveva
rivolto la parola solo un paio di volte, sorprendendosi del sorriso di
lei e di quella voce calma e pacata, che trasmetteva sicurezza. Eppure
non si era mai presentato, non aveva mai sentito neanche nessuno
chiamarla per nome e sulla targhetta che portava appuntata al petto
c’era scritto solo Jones. Almeno sapeva il suo cognome.
Il display del cellulare gli stava comunicando che c’era un caso
e che doveva presentarsi a Quantico. Rabbrividì al pensiero di
doversi trovare nella stessa stanza con JJ, non si sentiva ancora
emotivamente pronto ad affrontare la nuova realtà che lo
schiacciava con tutto il suo peso. Si alzò avvicinandosi al
bancone con i due libri che aveva preso diverse ore prima. La ragazza
gli regalò un altro timido sorriso mentre allungava le mani per
prenderli.
- Devo andare via di corsa… - provò a giustificarsi lui.
- Non si preoccupi, li rimetto a posto io – di
nuovo quella voce calda che lo avvolse come in una coperta.
Si incamminò verso l’uscita, aveva lasciato la macchina
nel parcheggio dietro la biblioteca. Fortunatamente il traffico di
Washington a quell’ora del sabato era quasi inesistente,
meditò che con mezz’ora sarebbe potuto arrivare
tranquillamente in ufficio. Era appena uscito dalla porta, quando
sentì dei tacchi correre sul marmo dell’ingresso. Si
voltò, curioso di sapere che potesse disturbare così il
silenzio di quel luogo quasi sacro per lui.
Vide la mora assistente correre verso di lui, con la lunga gonna che le
svolazzava intorno alle caviglie e i capelli ondeggiare da una parta
all’altra della testa, stretti in quella coda che permetteva di
scrutare liberamente quel viso dai lineamenti regolari.
- Dr. Reid – chiamò la ragazza
avvicinandosi trafelata e stringendo qualcosa all’altezza del
petto con entrambe le mani.
- Sì? – chiese lui corrucciato,
chiedendosi come mai quella ragazza gli rivolgesse la parola di sua
spontanea iniziativa e lo inseguisse trafelata.
- Mi scusi – disse lei fermandosi ad un paio di passi – Ha dimenticato questo.
Dicendo così, allungò le mani aperte verso di lui, mostrando il
tesserino dell’università che aveva sbadatamente lasciato
sul tavolo dove aveva passato la maggior parte della mattina. Il
sorriso della ragazza era incerto e le gote erano leggermente
arrossate, se per la corsa o altro lui non sapeva dirlo.
- Grazie – balbettò imbarazzato
allungando la mano – E’ stata molto gentile…
signorina Jones.
- Hope – disse la ragazza abbassando lo sguardo – Mi chiamò Hope.
- Hope – ripeté Spencer osservandola
ancora un attimo – Ancora grazie, io… devo andare.
- Certo dottor Reid.
Si incamminò confuso da quella scena. Lei sapeva come si
chiamava! Si diede dello stupido, sicuramente aveva letto il nome sul
tesserino. Mentre camminava lungo il viale se lo rigirò tra le
dita e si fermò di colpo rendendosi conto di una cosa. Sul
tesserino c’era scritto semplicemente Spencer Reid, non
dottore… eppure la ragazza sapeva che lui aveva diritto
a quell'appellativo. Si girò verso la biblioteca,
interdetto e sconcertato.
Di lei, naturalmente, neanche l’ombra. Era rientrata per
riprendere il suo lavoro, era da sciocchi supporre che si fosse fermata
per guardarlo andare via. Eppure una parte del suo cervello lo aveva
sperato. Per quella ragazza lui esisteva, l’aveva notato, gli
aveva regalato uno dei suoi splendidi sorrisi ed era addirittura
arrossita quando lui aveva ricambiato quel gesto.
- Hope… - la brezza gli scompigliò i
capelli mentre lui sentiva una sensazione che non sapeva definire, come
di attesa – Hope…
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