Disclaimer:
I personaggi di questa Fan Fiction non mi appartengono e niente di
tutto ciò è vero, poiché è
soltanto frutto
della mia mente malata.
A little prince and a
little sorcerer
L'ennesimo
sospiro risuonò nella stanza vuota e silenziosa del
piccolo Principe. Arthur, affacciato alla finestra in punta di piedi,
scrutava con occhi
tristi e quasi invidiosi la gente che camminava fuori nella Piazza
Grande. La sua attenzione era attirata da un gruppo
di bambini poco più grandi di lui, che giocava a nascondino
proprio sotto al suo naso. Avrebbe tanto voluto uscire e giocare con
loro.
«Arthur,
che stai facendo?», tuonò la voce severa di Uther.
Arthur si
voltò sorpreso, ritrovandosi ad osservare quasi con
timore la figura del padre, che rapidamente si stava avvicinando a lui.
Che cosa aveva fatto di male, quel giorno?
Uther lo
allontanò dalla finestra, chiudendola quasi con
violenza. Sembrava arrabbiato, ma il piccolo Principe proprio non
riusciva a capirne il motivo.
«Non
dovresti perder tempo in questo modo. Il tuo maestro ti sta aspettando
per l'addestramento».
Arthur
imbronciò le labbra, indispettito. L'addestramento alle
armi e al combattimento gli piaceva, ma era stufo di praticarlo tutti i
giorni; in quel momento, per esempio, avrebbe tanto voluto uscire dal
castello.
«Oggi
non ne ho voglia», rispose con decisione, gonfiando le
guanciotte paffute.
Uther si
ritrovò a sorridere davanti a quella
scena: l'espressione del figlio, così imbronciata, era buffa
e
il suo modo di fare gli ricordava molto se stesso. Era testardo ed era
difficile persuaderlo quando non voleva fare qualcosa. Ma non doveva
farsi intenerire: Arthur sarebbe diventato Re, un giorno, e
perciò era costretto ad adempiere ai suoi doveri, nonostante
avesse soltanto cinque anni.
Si
inginocchiò davanti a lui, guardandolo dritto negli occhi.
«Non dovresti fare i capricci, Arthur».
Il piccolo
Principe incrociò le braccia al petto e con un cenno
del capo indicò la finestra chiusa. «Tutti i
bambini sono
fuori a giocare, oggi. Voglio farlo anch'io!».
Il Re gli mise
una mano sulla spalla e gliela strinse con
forza, facendogli male. «I bambini normali possono
permettersi di giocare, ma non il futuro Re di Camelot», gli
spiegò severamente.
Arthur
dischiuse le labbra, confuso. I bambini normali? Che cosa c'era di
sbagliato in lui? Perché non rientrava nella categoria dei
bambini normali?
«Ma-».
«Niente
"ma", Arthur. Oggi affronterai l'addestramento, che ti piaccia o
no».
Arthur si
zittì, consapevole di essere stato sconfitto da suo
padre. Lo osservò rimettersi in piedi e uscire dalla stanza
a
grandi falcate, lasciandolo solo con i suoi dubbi.
A cinque anni,
si può comprendere l'importanza di essere l'erede
al trono di un grande regno? A cinque anni, si possono preferire le
armi ai giocattoli? E, a cinque anni, si può capire la
differenza fra un bambino normale e un piccolo Principe?
Arthur
tornò a guardare fuori dalla finestra, mentre i suoi
occhi cominciavano a diventare umidi. In quel momento avrebbe tanto
voluto essere un bambino normale.
†
† †
«Dove
siamo, madre?».
Il piccolo
Merlin si aggrappò sfinito alla lunga gonna di sua
madre, respirando pesantemente. Le sue gambe, ancora troppo corte,
riuscivano a stento a tenere il passo. Erano ore che camminavano.
Hunith
abbassò lo sguardo, posandolo sul figlio: il suo viso
minuto e solitamente pallido era quasi roseo, in quel momento, e i
capelli corvini erano talmente sudati e appiccicati al capo da mettere
ancora più in risalto le grandi orecchie a
sventola. Per
tutto il tempo che avevano passato a camminare, non si era lamentato
neppure una volta e aveva sopportato la fatica in silenzio, oppure con
un sorriso. Il suo Merlin era l'unica cosa sulla faccia della Terra che
la rendesse veramente orgogliosa di se stessa: aveva fatto un piccolo
capolavoro.
Sorridendo
intenerita, si chinò e lo prese in braccio,
stringendolo al petto, incurante della fatica che appesantiva le sue
membra. «Questa è Camelot, Merlin».
«Camelot?»,
domandò il piccolo, avvolgendo il collo
della madre con le braccia e prendendo a guardarsi intorno affascinato.
Era davvero un
bel posto, come non ne aveva mai visti prima.
Ealdor, la sua casa, era un piccolo paesino con qualche
recinto e
pochi campi da coltivare, niente in confronto a quelle possenti mura
che aveva di fronte. La gente camminava attorno a loro con fare
indaffarato, ma con il sorriso sulle labbra. Sembravano sereni.
Merlin si
ritrovò a sorridere meravigliato, mentre Hunith
cercava di farsi spazio fra le persone che le impedivano il passaggio.
«E
perché siamo venuti fin qui?», domandò
ancora il piccolo.
«Stiamo
andando a trovare un vecchio e caro amico».
«Un
amico?».
«Gaius.
Vedrai, lui saprà darci una spiegazione riguardo alle tue...
capacità».
Le ultime
parole, Hunith le aveva sussurrate.
A Camelot la
magia era stata bandita ormai da anni e, se si fosse
venuto a sapere che in città era appena arrivato uno
stregone,
Uther avrebbe dato l'ordine di trovarlo e di giustiziarlo.
Merlin aveva
soltanto cinque anni ed era in possesso di un potere
enorme, un potere che neanche lui stesso era consapevole di avere;
faceva delle cose, spostava gli oggetti con il pensiero, e neppure si
chiedeva come riuscisse a farlo. Era tutto così automatico e
naturale per lui. In fondo, era soltanto un bambino.
Hunith gli
aveva raccomandato più volte di non usare la magia in
presenza di altre persone al di fuori di lei, ma Merlin non aveva
capito il motivo di tale divieto. La magia era parte di lui.
Perché usarla sarebbe stato un reato? Che cosa c'era di
sbagliato in lui?
Non aveva mai
trovato una risposta alle sue domande, ma forse Gaius,
questo famoso amico di sua madre, sarebbe stato capace di dargliele.
†
† †
Se suo padre
fosse venuto a conoscenza della sua fuga - e qualcuno,
prima o poi, lo avrebbe avvertito -, non gliela avrebbe fatta passare
liscia. Aveva saltato l'addestramento per uscire fuori dal castello e
questo comportamento, da parte di un Principe, era inammissibile.
Leon, un
ragazzino poco più grande di lui, che spesso
partecipava a sua volta all'addestramento per diventare cavaliere di
Camelot, aveva cercato di fargli capire che disubbidire al Re non era
una buona idea, ma Arthur non aveva voluto sentir ragioni. Quel giorno
sarebbe uscito a giocare con gli altri bambini, anche se questo avrebbe
comportato la furia di suo padre.
«Sire,
è proprio sicuro di non voler tornare
indietro?», tentò di convincerlo ancora una volta
Leon, il
quale, alla fine, aveva deciso di seguirlo per controllare che non gli
succedesse nulla di male.
Per essere
soltanto un ragazzino, era piuttosto maturo rispetto a
quelli della sua età. Sapeva già cosa volesse
dire essere
fedele al proprio Re e al proprio Principe, anche se, doveva
ammetterlo, assicurarsi che quest'ultimo non si cacciasse nei guai
cominciava ad essere un tantino complicato. Tuttavia, non gli avrebbe
mai voltato le spalle.
Arthur ne era
certo: un giorno Leon sarebbe diventato un buon cavaliere. Sir Leon.
«Dove
stiamo andando, esattamente?», gli chiese quando non
ricevette alcuna risposta alla prima domanda.
Il piccolo
Principe saltò gli ultimi gradini del castello e
prese a scrutare attentamente la Piazza Grande, in cerca del gruppo di
bambini che aveva visto dalla finestra della propria stanza. Quando lo
individuò, il suo viso si illuminò di gioia.
«Andiamo
a giocare!», esclamò euforico.
Leon lo vide
scattare in avanti e raggiungere di corsa gli altri
bambini, che, non appena lo notarono, si bloccarono sul posto, incerti
sul da farsi. Sapevano che Arthur era il Principe, nonché il
futuro Re di Camelot, e ingenuamente lo temevano: una mossa sbagliata
avrebbe potuto irritarlo e a quel punto sarebbero stati guai. Inoltre,
conoscevano la sua arroganza e il suo caratteraccio, o, per lo meno, ne
avevano sentito parlare.
Leon riconobbe
nei sorrisi tirati con cui i bambini accolsero il
piccolo Principe il nervosismo e l'agitazione tipica di chi non lo
conosceva affatto. In fondo, Arthur era un bambino come tutti gli
altri, che sotto la prepotenza nascondeva un animo buono e gentile. Non
era come Uther e non lo sarebbe mai stato.
Un giorno il
popolo avrebbe imparato a conoscerlo e ad amarlo. Un
giorno sarebbe diventato il più grande Re che Camelot avesse
mai
avuto.
«Gioco
anch'io con voi!», urlò Arthur con strafottenza,
mischiandosi agli altri bambini.
Questi
sorrisero appena, ma non protestarono. Se il piccolo Principe voleva
qualcosa, la otteneva.
Ci sarebbe
voluto del tempo, prima che Arthur cambiasse. Anni, probabilmente. E
forse l'aiuto di qualcuno non sarebbe guastato.
†
† †
«Interessante».
Gaius aveva
ascoltato con attenzione ogni singola parola di Hunith, che
in quel momento sedeva di fronte a lui, nella sua casa. Stentava
però a credere che quel bambino così mingherlino
e con le
orecchie a sventola che la affiancava potesse praticare la magia a
quell'età. Era troppo giovane per averla studiata e appresa.
La donna
accarezzò dolcemente il capo del figlio,
scompigliandogli i capelli corvini. «Merlin, ti va di far
vedere
a Gaius cosa sai fare?», gli chiese con un sorriso.
Il piccolo
Merlin, che fino a quel momento si era rifiutato di guardare
direttamente Gaius, posò il suo sguardo incerto proprio su
di
lui. Non gli incuteva timore, ma si sentiva comunque restio a
mostrargli i suoi poteri. Che cosa avrebbe provato?
Tornò
a fissare sua madre e scosse vigorosamente il capo.
«Su,
avanti. Non essere timido. Di lui ti puoi fidare», lo
incoraggiò lei, prendendo una mela dal cesto della frutta
posato sul tavolo e mettendogliela davanti agli occhi.
Voleva che la
facesse levitare. A casa lo faceva spesso con gli oggetti.
Merlin
guardò ancora una volta quel vecchio amico di sua madre,
il quale continuava ad osservarlo impassibile, quasi lo stesse
studiando. Si sentì estremamente a disagio e in quel preciso
istante decise che non gli avrebbe mostrato i suoi poteri;
erano
un segreto, il suo
segreto, e dovevano restare tali. Sì, avrebbe tanto voluto
delle
risposte ai suoi dubbi, ma non in quel momento. Non era pronto.
«Forza,
tesoro», lo spronò ancora una volta Hunith.
Gaius
notò l'evidente agitazione del piccolo Merlin e
tentò di venirgli in contro. «Forse è
stanco. Non
forzarlo, Hunith».
La donna
studiò il viso pallido del figlio e comprese il suo
disagio. Aveva sbagliato a metterlo così sotto pressione.
Gli
aveva insegnato a non mostrare i suoi poteri in presenza di altre
persone e ora gli stava chiedendo di farlo. Forse avrebbe soltanto
dovuto accettare il fatto che suo figlio era speciale e non indagare oltre.
Il tempo, prima o poi, avrebbe dato loro le risposte che tanto
cercavano.
Rimise la mela
al suo posto e accarezzò per l'ennesima volta il
capo del piccolo Merlin. «Potresti aspettarci fuori, Merlin?
Tua
madre deve scambiare due parole in privato con Gaius», gli
chiese
con un sorriso.
Lo vide
annuire incerto, ma sollevato. Lo aveva liberato da un peso enorme.
Mentre il
bambino usciva a passo spedito dalla stanza, Gaius non
poté far a meno di pensare che probabilmente Hunith si era
sbagliata nei confronti del figlio: era impossibile che un bambino di
cinque anni conoscesse la magia. Doveva esserci un
errore.
†
† †
«Non
mi prenderete mai!».
Leon, seduto
sui gradini del castello, osservava divertito il piccolo
Principe correre e farsi beffe degli altri bambini, che in confronto a
lui erano molto più lenti. Scosse appena il capo: Arthur era
sempre convinto di essere il migliore di tutti in tutto. In un certo
senso, era buffo.
«Mezze
calzette!».
Arthur
aumentò la velocità, prendendo a correre in mezzo
alla gente indaffarata che cercava di svolgere il proprio lavoro nella
Piazza Grande. Stava disturbando la maggior parte di loro, ma poco
importava: si stava divertendo e non capitava da tanto tempo.
Voltò
il capo per tener d'occhio il bambino che lo stava rincorrendo, ma
quello non riusciva a stargli dietro. Si
sentiva un portento, una forza della natura.
«Sono
il massimo che sia mai esistito!», gridò euforico,
ridendo di
gusto. «Sono-».
Il corpo duro
e ossuto contro cui andò a sbattere interruppe il
suo momento di gloria. Basito, strinse forte le palpebre e i denti,
mentre ricadeva all'indietro sul fondoschiena, atterrando nella polvere
e ritrovandosi a tossire.
«Ma
che...?», borbottò fra i colpi di tosse.
Quando
riaprì gli occhi, si ritrovò a fissarne un paio
azzurri come il cielo; erano enormi e si trovavano a pochi centimetri
di distanza da lui. Un bambino dai capelli corvini e le orecchie a
sventola, seduto a terra proprio come lui, lo stava fissando sconvolto,
come se avesse appena visto un fantasma; probabilmente la colluttazione
lo aveva preso alla sprovvista e disorientato.
Arthur
corrugò la fronte e studiò con più
attenzione quel bambino magro e a tratti spaurito. Come diavolo si era
permesso di mettersi sulla sua strada e fargli fare quella figura
davanti agli altri bambini? Chiunque fosse, gliela avrebbe fatta pagare.
«Come
hai osa-».
«Arthur!».
La voce di
Uther risuonò severa nella Piazza Grande. Il piccolo
Principe spostò lo sguardo dal bambino al padre, che con
fare
minaccioso stava scendendo le scale del castello.
Questa volta
l'aveva fatta grossa.
«Che
ti è saltato in mente?!», sbottò il Re,
raggiungendolo in fretta e furia.
Gli mise le
mani sotto le ascelle e lo sollevò da
terra, prendendolo in braccio senza il minimo sforzo. Quando Arthur si
ritrovò faccia a faccia con suo padre, per un istante
temette
che lo picchiasse; non aveva mai avuto paura di lui, ma in quel momento
era furioso e capace di tutto.
«Io,
volevo solo-», tentò di giustificarsi.
«Questa
volta non la passerai liscia, Arthur», lo
interruppe Uther. «Il tuo comportamento è
inammissibile».
Togliendogli
qualsiasi opportunità di ribattere, se lo
caricò su una spalla e con passo spedito prese a risalire le
scale del castello.
Leon, che
aveva assistito alla scena col cuore in gola, fu subito
dietro di loro. In fondo, gli dispiaceva che il piccolo Principe fosse
stato scoperto.
Arthur si
sentì immensamente umiliato e, anche se in futuro
avesse voluto tentare ancora di sfuggire ai suoi doveri, non ne avrebbe
avuto il coraggio, dopo la figura che aveva fatto. Con l'espressione
del viso imbronciata, osservò le sue braccia penzolare quasi
senza forza lungo l'ampia schiena del padre, non desiderando
guardare altro.
Qualcosa,
però, lo spinse ad un certo punto ad alzare lo sguardo
e a puntarlo proprio
sull'unica persona che non avrebbe voluto vedere: quel bambino dai
capelli corvini e dalle grandi orecchie a sventola era ancora seduto a
terra e lo stava fissando con un'espressione incuriosita.
Nel momento in
cui i loro occhi si incontrarono, Arthur sentì una scarica
elettrica attraversargli la spina dorsale.
Non poteva
sapere che gli occhi che stava fissando lo avrebbero accompagnato per
tutta la sua vita.
Non poteva
sapere che quegli occhi appartenevano all'uomo che un giorno sarebbe
diventato il suo più grande amico.
Non poteva
sapere che quegli occhi appartenevano a quello che un giorno
sarebbe diventato il più grande mago di tutti i tempi.
Aveva appena
incontrato l'altra
faccia della medaglia.
†
† †
Il piccolo
Merlin ancora non riusciva a realizzare ciò che era
appena successo. Non era stata la colluttazione a stordirlo in quel
modo, no.
Forse il fatto
che appena il suo corpo e quello del bambino biondo
erano entrati a contatto aveva provato una scarica elettrica fortissima
lungo la spina dorsale.
Forse il fatto
che quando i loro occhi si erano incontrati aveva
sentito dentro di sé i propri poteri ancora acerbi agitarsi,
rischiando di sfuggire al suo controllo.
Era una
sensazione che non aveva mai provato prima.
Non poteva
sapere che gli occhi che stava fissando lo avrebbero accompagnato per
tutta la sua vita.
Non poteva
sapere che quegli occhi appartenevano all'uomo che un giorno sarebbe
diventato il suo più grande amico.
Non poteva
sapere che quegli occhi appartenevano a quello che un giorno
sarebbe diventato il più grande Re che Camelot avesse mai
conosciuto.
Aveva appena
incontrato l'altra
faccia della medaglia.
†
† †
«Non
so come ringraziarvi, Gaius».
Hunith
varcò la soglia della porta, mentre un venticello leggero
portava con sé un po' di sollievo dall'afa dell'estate.
Era felice,
perché avere qualcuno su cui poter contare nel
momento del bisogno era davvero una gran soddisfazione.
Il vecchio
cerusico le posò comprensivo una mano sulla spalla e
le sorrise cortesemente. «Non devi. Per me sarebbe un piacere
occuparmi di Merlin, nel caso i suoi poteri dovessero realmente
confermare la loro esistenza».
La donna
sorrise e gli strinse amorevolmente una mano fra le sue.
«Chissà che cosa ci riserva il
futuro...».
†
† †
«Merlin!».
La voce di sua
madre lo fece sobbalzare bruscamente: era ancora intontito e turbato da
ciò che era appena successo.
Voltò
appena il capo e vide Hunith correre verso di lui, l'espressione del
volto preoccupata.
«Ma
che cosa ti è successo? Perché sei seduto nella
polvere?», gli chiese la donna, prendendolo in braccio e
scrutando attentamente il suo viso, in cerca di ferite o di lividi.
A volte era
fin troppo apprensiva nei suoi confronti.
«Sono
caduto», si giustificò il piccolo Merlin, cercando
di rassicurarla.
«Oh,
sei tutto sporco di terra...».
Hunith lo
strinse più forte a sé, spolverandogli
amorevolmente i vestiti con una mano. Merlin approfittò di
quel momento per guardare ancora una volta il punto in cui poco prima
aveva visto scomparire il bambino biondo, aspettandosi quasi di vederlo
uscire di nuovo dal castello, confermando quella strana sensazione che
aveva provato dentro di sé quando lo aveva guardato negli
occhi.
Di lui, col
tempo, non avrebbe ricordato altro che quelli.
«Andiamo
a casa», mormorò piano Hunith, abbracciandolo
un'ultima volta e rimettendolo coi piedi a terra.
Merlin le
prese la mano e insieme si avviarono lungo la strada che li avrebbe
riportati ad Ealdor.
Sarebbero
trascorsi anni, prima che il piccolo mago rimettesse piede a Camelot.
Merlin non era
pronto per conoscere e compiere il suo destino.
Arthur non era
pronto per diventare Re.
Per il
momento, le loro strade dovevano restare separate.
†
† †
Col tempo, il
ricordo del loro incontro andò sbiadendo in entrambi, fino a
quando non scomparve completamente dalla loro memoria.
Forse era
così che doveva andare.
Le due facce
della stessa medaglia non erano ancora pronte per essere unite.
†
† †
«Ehi...
Avanti, basta così».
Arthur
inarcò un sopracciglio e guardò basito quel
ragazzo dai capelli corvini e dalle grandi orecchie a sventola che
aveva appena interrotto il suo allenamento quotidiano; anche se,
più che allenarsi, si stava letteralmente facendo beffe del
suo servitore. «Cosa?».
Merlin sorrise
e scrollò le spalle. «Ti sei divertito, amico
mio».
Il Principe
corrugò la fronte e gli andò in contro.
«Ti conosco?».
«Ah,
sono Merlin».
«Quindi
non ti conosco».
«No».
«Ma
mi hai chiamato "amico mio"».
Merlin
imbronciò appena le labbra. «È stato un
mio errore».
«Sì,
lo penso anch'io».
«Già...
Non ho mai avuto un amico così asino».
†
† †
Le due facce
della stessa medaglia, ora, erano finalmente pronte per essere unite.
Ed
è così che la storia inizia.
NdA: Come al
solito, ecco qua
una delle mie stupide idee. In un momento di noia totale, la mia mente
malata si è messa a fantasticare su Merlin -
sarà l'astinenza? Non ce la faccio più: voglio la
quarta stagione! - e questo è il risultato.
Arthur e Merlin in formato mini e patatoso
mi sembravano troppo teneri. ♥
Sappiamo che si conosceranno soltanto da grandi, ma mi piaceva l'idea
di farli incontrare prima, in circostanze diverse. Ho quindi cambiato e
anticipato un paio di cosette, sperando di non aver fatto troppi casini.
Spero vi piaccia.
Dedico la storia ad Agnese e ad Elisabetta, senza le quali non saprei
come fare.
Buona lettura! ;)
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