Allora… Innanzitutto buongiorno a tutti :)
Stanotte ho pensato molto, visto che non riuscivo a prendere sonno, e
ho deciso di postare questa mia piccola long che, come avete notato,
è un "What if?".
In poche parole, vi spiego la domanda che mi ha portato a scriverla e
che mi ha dato l'ispirazione: "E se
Ary avesse reagito in modo diverso alla morte del suo fratellino Davide?".
Quindi, se volete riallacciarvi alla storia originale "Il sogno di un
sogno", dovreste andare al capitolo 21: è da lì
che ho ripreso e ho cambiato alcune cose. Troverete alcune note, a
volte, per farvi capire ciò che è cambiato in
particolar modo, ma ho cercato il più possibile di mantenere
gli stessi episodi :)
Okay, credo sia tutto... Ah, come ho già detto è
una piccola long, ci sono solo 7 capitoli, ma spero comunque che possa
essere di vostro gradimento, soprattutto in questo momento in cui grava
la sospensione di "Il sogno di un sogno: Our Future".
Non mi resta che
augurarvi buona lettura :D
Fatemi sapere che cosa ne pensate ;) Un bacio, vostra _Pulse_
____________________________________________
Heal
with your love
I
«It is the distance
that makes life a little hard
Two minds that once were close,
now so many miles
apart».
(You’re not alone –
Mads
Langer)
«Ragazzi,
io… no, non posso
partire. Non con Ary in queste condizioni».
Tom, dopo aver guardato
negli
occhi il fratello e i suoi compagni di band, si voltò e
guardò la sua ragazza,
seduta fra i cuscini del divano ad L nel salotto, avvolta da una
coperta
chiara. Aveva un aspetto pessimo, il colorito spento e gli occhi vacui,
fissi
su un punto indefinito del pavimento. Accanto a lei c’era
Antonia, la sua
migliore amica nonché ragazza di Bill, ma da
dov’erano loro, in cucina, non
riuscivano a sentire che cosa le stesse dicendo, ma nemmeno la stessa
Ary
sembrava sentirla.
«Lo sai che
non puoi», gli disse
Georg, dispiaciuto.
«Ma io devo
restare! Non… non posso lasciarla sola proprio in questo
momento, ha bisogno di me!». Aveva il viso contratto in
un’espressione
disperata, perché anche se continuava ad aggrapparsi a
futili speranze, sapeva
che era come diceva l’amico: non sarebbe potuto davvero
rimanere con lei.
Bill, sofferente della
sofferenza
del gemello, abbassò lo sguardo e gli gettò le
braccia intorno al collo,
stringendolo fortissimo a sé, il viso nascosto
nell’incavo della sua spalla.
Rimasero aggrappati
l’uno
all’altro, come se fossero l’uno l’ancora
di salvezza dell’altro, fino a quando
non videro Anto alzarsi lentamente dal divano, con gli occhi grandi
lucidi e le
labbra che tremavano, e raggiungerli in cucina.
«Ti ha detto
qualcosa?», le
chiese Gustav.
Lei scosse il capo con
insistenza
e poi si coprì il viso con le mani, iniziando a
singhiozzare. Bill si scostò
dal fratello per accogliere fra le sue esili braccia il corpo tremante
della
propria ragazza; le accarezzò i capelli, sperando di
riuscire a rilassarla un
minimo, ma il suo pianto non si affievolì, così
nemmeno per i suoi singhiozzi.
L’atmosfera
che si respirava in
quella casa, fin troppo silenziosa, era di tensione e di dolore.
D’altronde,
che altra atmosfera ci poteva essere dopo un lutto? I genitori di Ary
si erano
rifugiati nelle camere al piano superiore, lei si era messa sul divano
in
salotto e da qualche ora non si muoveva dal suo posto: era come se le
avessero
strappato l’anima, talmente era assente, e come se non
riuscisse a capire ciò che stesse
accadendo intorno a lei.
Erano passati
già diversi giorni
dall’accaduto, erano tornati a Milano in anticipo
poiché quella normalissima ed
abituale vacanza si era trasformata in un inferno, e qualche ora prima
era
stato celebrato il funerale in una chiesa modesta, con pochi ed intimi
partecipanti.
Tra loro c’era
stato un insolito
silenzio durante quei giorni, un po’ perché non si
sapeva cosa dire oppure
perché proprio non c’era nulla da dire in quel
momento, ma da quando Davide non
c’era più sua sorella non aveva più
aperto bocca, come se avesse perso la voce,
e viveva passivamente, mangiando a malapena e se forzata.
Tom sentì un
profondo malessere
guardandola e si sentì uno stronzo per non poter starle
accanto come avrebbe
dovuto e voluto. Si strinse le braccia al petto, cercando conforto nel
suo
stesso abbraccio, e fece un passo verso il salotto, quando un clacson
fuori
dalla casa li fece sobbalzare tutti quanti: la macchina che li avrebbe
portati
in aeroporto per tornare in Germania era arrivata.
Non si sarebbe mosso da
lì,
avrebbero dovuto prenderlo con la forza, si promise e senza badare ai
clacson
successivi, poiché nessuno si era mosso per avvisare
l’autista che sarebbero
arrivati, raggiunse il divano e si mise seduto accanto alla propria
ragazza. Le
avvolse un braccio intorno alle spalle e
l’avvicinò a sé, se la strinse al
petto e con le labbra sulla sua fronte tiepida le sussurrò:
«Mi dispiace,
piccola. Io sono
qui».
Ma da lei nessuna
reazione,
nemmeno ricambiava l’abbraccio. Gli sembrava di avere fra le
braccia un pupazzo
inanimato. Sentirla in quello stato fu un altro colpo in pieno petto.
«Ti amo, ti
amo, ti amo»,
sussurrò ancora, ripetutamente, passando a baciarle la
tempia e i capelli.
Ary non gli rispose
nemmeno
quella volta e ciò che gli fece più male fu che
se l’era aspettato. Sapeva che
avrebbe dovuto lottare, che avrebbe dovuto farle aprire la bocca e
farle uscire
un suono qualsiasi anche con la forza se necessario, ma in quel momento
non
possedeva nemmeno un briciolo di quella forza. Anzi, come aveva potuto
pensare
di costringerla a fare qualcosa che non voleva? La sua piccola, il suo
amore…
Non si era nemmeno
accorto che
Gustav era uscito e aveva raggiunto la macchina per avvisare
l’autista che
sarebbero arrivati fra qualche minuto: tutto il suo campo visivo e la
sua
attenzione erano rivolte solamente a lei, a quel gattino ferito che
teneva fra
le braccia e che non avrebbe dato alcun segnale di vita se non fosse
stato per
il suo respiro, che gli sfiorava il collo facendolo rabbrividire.
«Ragazzi,
dobbiamo andare…
l’autista è incazzatissimo e ha minacciato di
chiamare David…», spiegò Gustav a
Bill e Georg, ancora in cucina con Anto che ormai aveva gli occhi gonfi
e
arrossati di pianto.
Forse credevano che non
riuscisse
a sentirli, tanto che iniziarono a parlare di lui e di Ary,
lanciandogli
occhiatine preoccupate:
«Ma come
facciamo, Tom non…».
«Lo sa
benissimo che se fosse per
David verrebbe a riprenderselo seduta stante».
«Ci sono
troppe cose in ballo,
non può… lasciarci così, di punto in
bianco. Io… io capisco che cosa è successo
ad Ary, che ha bisogno di lui, ma anche noi abbiamo bisogno di lui. Ci
sono
concerti, promozioni, il nuovo album… e non può
sparire dalla circolazione, le
fan inizierebbero a sospettare qualcosa e credo che non sia la cosa
migliore
per Ary, se si venisse a sapere qualcosa…».
«Georg, tu hai
ragione, però…».
Bill sospirò e, mentre lanciava una fra le tante occhiate
nervose in direzione
del gemello, incontrò il suo sguardo ferito e
deglutì, sentendosi infinitamente
stupido ed inutile: voleva aiutare il fratello, ma non
poteva… Era una
sensazione orribile, perché sentiva ogni minima emozione che
stava provando,
proprio come se fosse nel suo corpo, e non era affatto piacevole.
Tom distolse per primo
lo sguardo
da quello di Bill e abbassò gli occhi su Ary, stretta ancora
dalle sue braccia,
impassibile e con il viso nascosto nell’incavo della sua
spalla. Le accarezzò
docilmente i capelli e le prese il viso fra le mani, con una
delicatezza tale
da farla sembrare di cristallo. La guardò intensamente negli
occhi, nonostante
li sentisse bruciare, e diede un tono neutrale e composto alla propria
voce,
seppure con fatica:
«Piccola,
dimmi qualcosa». La
guardò negli occhi e si accorse che quegli occhi azzurri di
solito così caldi
ora erano di ghiaccio, privi di ogni emozione: ci aveva sempre visto un
mondo,
dentro quegli occhi… ora non ci leggeva niente, erano vuoti,
spenti come si era
spenta la vita in Davide. Stava morendo con lui e Tom non poteva fare
assolutamente
nulla per impedirlo… A quel pensiero fu costretto a chiudere
gli occhi per non
piangerle davanti e un brivido lo scosse, portandolo ad appoggiare la
fronte
sulla sua.
«Qualsiasi
cosa», la implorò con
la voce tremante, passandole i pollici sulle guance.
«C’è
la macchina che vi aspetta».
La sua voce, nonostante
fosse fin
troppo flebile, gli arrivò alle orecchie come un grido
disperato e spalancò gli
occhi per guardare i suoi che erano ancora lì, immobili,
gelidi.
«C-Come?»,
sussurrò, incredulo.
Gli stava dicendo di
andarsene?
Non lo voleva al suo fianco? Una marea di domande e di dubbi si
insinuarono
nella sua mente senza pietà, distruggendolo
psicologicamente, e si chiese se
avesse sentito male oppure se quelle parole fossero uscite davvero da
quelle labbra
che fino a qualche giorno prima sorridevano e lo baciavano con amore.
Ma Ary
ritornò in quel suo stato
di mutismo, dopo aver sospirato stancamente, e si sfregò gli
occhi prima di
accasciarsi sul divano, la testa fra i cuscini morbidi e i capelli
biondi che
le coprivano il viso pallido e sciupato.
Tom, ancora fermo come
l’aveva
lasciato, era scioccato e profondamente ferito. Non sapeva
più che cosa
pensare, ma il suo cuore gli disse che non aveva detto così
perché non lo
volesse al suo fianco, perché non lo amava più,
ma solo perché in quel momento
aveva bisogno di stare un po’ da sola. Ma era davvero sicura
di quello che
aveva detto? Una volta preso quell’aereo non si sarebbero
visti chissà per
quanto, era sicura di voler stare senza di lui per così
tanto tempo?
Con la coda
dell’occhio notò il
fratello e i suoi amici con il fiato sospeso, che guardavano con gli
occhi
leggermente sgranati tutto ciò che accadeva nel salotto.
Prendendo coraggio,
fece un lungo respiro profondo, si inginocchiò sul pavimento
e le spostò i
capelli dal viso, per poterla guardare negli occhi.
«Piccola»,
mormorò incerto,
mentre il suo cuore prendeva a battere furiosamente nella cassa
toracica,
facendogli persino male: quegli occhi inespressivi lo uccidevano.
«Non so per
quanto non ci vedremo, una volta uscito da quella porta. Se tu vuoi
posso stare
qui, con te». Le accarezzò ancora i capelli,
portandoli dietro l’orecchio, e
durante il compimento di quel normalissimo gesto notò una
scintilla negli occhi
della ragazza che amava.
Che fosse il suo modo
per dirgli
di restare? Era possibile che nel profondo volesse che lui restasse al
suo
fianco, ma che non voleva essere compatita e allo stesso tempo
ostacolare il
suo lavoro, la sua vita?
«Io posso
restare, se tu lo
vuoi», mormorò avvicinandosi di più al
suo viso, con l’ombra di un sorriso
sulle labbra. «Vuoi?».
Le labbra di Ary si
dischiusero,
forse avrebbe parlato e avrebbe risposto a voce, avrebbe estraniato i
propri
pensieri, la propria volontà; Tom pendeva da quelle labbra,
le guardava con un
desiderio impellente di ricevere la conferma di quello che aveva visto
di
sfuggita e allo stesso tempo fremeva perché avrebbe voluto
tanto baciarle fino
a non avere più aria nei polmoni.
Ma la suoneria di un
cellulare
interruppe tutto quel complicato meccanismo e in un attimo Ary
serrò le labbra,
sprofondando di più con la testa dentro al cuscino. Tom
sollevò lo sguardo,
adirato, e vide Georg tirare fuori dalla tasca dei jeans il proprio
telefono e
portarselo all’orecchio.
«Pronto?»,
sussurrò, dandogli le
spalle. Quello, però, non gli impedì di sentire.
«Oh, David,
sei tu… No, noi non
siamo ancora… C’è stato un
contrattempo… No, no! Tom non vuole venire»,
sospirò.
«Lo conosci, è testardo e anche io…
anche io sono d’accordo con lui, infondo.
Non si potrebbe…? Ma, David, Ary…! Lo sappiamo
perfettamente, ma…!». Georg
sospirò di nuovo, incurvando le spalle in avanti, e Tom
capì che non ci sarebbe
stato nulla da fare: si sarebbe dovuto separare dalla sua piccola,
avrebbe
dovuto lasciarla sola, o quasi, proprio nel momento in cui aveva
più bisogno di
lui.
«Sì,
okay», rispose Georg,
probabilmente ad un ordine del manager, e chiuse la chiamata, riponendo
il
cellulare nella tasca.
Bill e Gustav non ebbero
bisogno
di delucidazioni, la situazione era fin troppo chiara a tutti ormai.
Tom compreso.
Anzi, lui aveva capito meglio di tutti.
«Tu non puoi
restare».
All’udire
quella voce, se
possibile ancora più flebile e soffocata a causa del
cuscino, sobbalzò e portò
immediatamente lo sguardo sul suo viso nascosto nuovamente dai capelli,
che
prese a spostare alla rinfusa, respirando affannosamente.
«No, piccola,
io…», tentò di
spiegare, ma la mano di Ary si posò sulla sua, sulla propria
testa, e la
trattenne lì, facendogli gelare il sangue nelle vene.
Dopo qualche istante di
silenzio,
mormorò: «Tu non puoi restare, nemmeno se io
voglio».
Tom sentì i
propri occhi
riempirsi di lacrime e lottò con tutte le sue forze per
ricacciarle indietro,
ma allo stesso tempo un grosso magone in gola gli fece mancare
l’ossigeno e gli
fece sfuggire un singhiozzo. Si appoggiò con il viso sul
bordo del divano e
strinse la mano di Ary, così piccola e fredda, nella sua
grande e calda. Era
disperato, non sapeva più che cosa fare per impedire che
succedesse
l’inevitabile.
Improvvisamente la mano
di Ary
sgusciò via dalla sua presa e si posò sul suo
capo, sul cappellino nero che
indossava; poi scivolò lentamente sul suo profilo e si
fermò sulla sua guancia
bollente e che era stata rigata da una solitaria lacrima che non era
riuscito a
trattenere fra le ciglia.
«È
giusto così», mormorò ancora
Ary, atona. Aveva parlato tanto, tantissimo: aveva forse detto
più cose quel
pomeriggio che durante tutti quei giorni. «Tu devi andare,
è la tua vita».
«Fa schifo, fa
schifo la mia vita
se so che tu non ci sei e che soffri», biascicò,
ormai tormentato dalle lacrime
e i singhiozzi.
L’ennesimo
clacson, persino più
lungo ed irritato degli altri, gli fece alzare il capo ed incontrare di
nuovo
quegli iceberg che senza pietà gli lacerarono il petto. Ma
riuscì a cogliere
qualcosa di diverso, quella volta. Forse… Era un minuscolo
sorriso, quello che
stendeva di qualche centimetro le sue labbra?
La mano di Ary non si
era ancora
spostata dalla sua guancia e non sembrava volerlo fare,
perché iniziò ad
accarezzarla con il pollice. Una lacrima sgorgò dal suo
occhio destro e li
chiuse entrambi ad un nuovo clacson, lasciando scivolare la mano sul
collo e
sul petto di Tom, per poi lasciarla ciondolare nel vuoto, ad un soffio
da terra.
«Vai»,
disse quasi in labbiale,
talmente poca era stata la sua voce in quel momento.
«Sei
sicura?», domandò incerto.
Per forza, che cavolo di domanda era?
Ary, ovviamente, non
rispose; si
limitò a dargli le spalle e a rannicchiarsi su se stessa.
Tom si passò
una mano sul viso,
distrattamente, e si sollevò da terra tenendo le mani sul
bordo del divano. La
guardò dall’alto e gli sembrò
così piccola e così indifesa… Si
piegò nuovamente
su di lei e le posò una mano sui capelli, sfiorandole la
guancia, poi avvicinò
le labbra alla sua pelle e sussurrò un «Ti
amo», prima di baciarla sull’angolo
della bocca, il massimo a cui riusciva ad arrivare. Lei non ebbe alcuna
reazione esterna, rimase impassibile e con gli occhi chiusi: forse si
era
addormentata.
Un altro clacson lo fece
girare
irritato verso la porta, fulminandola con lo sguardo. Aveva una voglia
immensa
di ammazzare l’autista che li avrebbe portati in aeroporto.
«Ti chiamo
quando arrivo, okay?»,
disse. Rimase qualche secondo in attesa di una risposta, che non
arrivò.
«Okay», si rispose da solo,
allora, e ritornò dagli amici con passo stanco e
demoralizzato.
Le braccia di Anto
furono le
prime che lo avvolsero una volta raggiunti e poi ognuno lo strinse a
sé,
ricordandogli tantissimo il momento che aveva passato a guardare Ary
mentre
veniva abbracciata a turno dai parenti e da altre persone che non
conosceva, e le
facevano le condoglianze. Rabbrividì e si scostò
docilmente da Georg, l’ultimo:
lui non aveva perso proprio nessuno, a parte Davide, e non doveva
essere
“consolato” in quel modo fin troppo triste.
La guardò,
stesa sul divano, e si
promise che avrebbe lottato per la propria piccola. E ce
l’avrebbe fatta, ne
era certo.
Raggiunse la propria
stanza,
lasciò lo zaino, nonché suo bagaglio a mano,
accanto alla porta, che chiuse a
chiave, e poi si gettò sul letto, sul quale rimase diversi
istanti ad osservare
il soffitto.
Con un sospiro prese il
cellulare
nella tasca dei propri jeans, compose il suo numero a memoria e se lo
portò
all’orecchio. Chiuse gli occhi, pregando con tutte le sue
forze che
rispondesse, ma dopo secondi incessanti, passati ad ascoltare i
“tu” che
indicavano che era libero, l’unica cosa che udì fu
una voce metallica: la
segreteria telefonica.
Lanciò il
telefono dall’altra
parte del letto e affondò il viso nel cuscino. Da solo,
nella sua camera, non
aveva alcuna paura a mostrare i suoi sentimenti, infatti
incominciò a piangere
come un bambino.
Infondo, come poteva
avere la
certezza di riuscire a guarire la propria piccola da un male che non
sapeva
nemmeno da che parte doveva essere preso?
Come poteva avere la certezza che
anche se avesse lottato con tutte le proprie forze per lei, avrebbe
avuto
successo?
L’unica cosa a
cui riuscì ad
aggrapparsi, per quella sera e alla quale si sarebbe aggrappato molte
altre
sere ancora, fu il sentimento che li legava e che sperava li avrebbe
tenuti
uniti anche in quelle circostanze: l’amore.
|