Dream, or maybe not. di Bethan Flynn (/viewuser.php?uid=92550)
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Silenzio. E buio.
Plic. Plic. Plic.
Adesso solo buio.
Si svegliò al suono ritmato di quello sgocciolio.
L’oscurità sbiadì lentamente. Plic.
Plic. Continuava incessante come un orologio, anzi, come una clessidra
quasi piena d’acqua che scandiva i secondi svuotandosi
impercettibilmente. Era poggiata su un tavolino, e rappresentava
l’unico oggetto non essenziale presente nella stanza; per il
resto, c’era il letto, un armadio vuoto, un comodino e una
piccola finestra.
Nient’altro.
I muri erano dipinti di un colore indefinito fra il bianco ed il grigio
topo, ed attorno alla porta regnava un campo di crepe e reticoli, come
se fosse stata strappata via e poi rimessa al suo posto.
Come riprendendosi da un lungo letargo, la sua mente formulò
un’unica domanda.
“Dove sono?”.
Niente di ciò che lo circondava gli era familiare, eppure
non poteva nemmeno affermare con certezza che gli fosse sconosciuto. Si
sentiva straordinariamente calmo.
Ormai completamente sveglio, si alzò e andò alla
finestra. Vide un grosso albero,
un enorme tronco d’albero, con tanto di finestre ornate da
tendine e balconi ricolmi di fiori.
Abbassò gli occhi e si rese conto di trovarsi in una
costruzione identica a quella che aveva di fronte. Inequivocabilmente
un albero. Un abete, per la precisione, a giudicare dai lunghi aghi
verde smeraldo che si protendevano dai rami.
“Un grattacielo” pensò, registrando
l’informazione senza eccessivo stupore. Dovunque egli si
trovasse, capì che in quel luogo era perfettamente normale
abitare dentro a palazzi-alberi.
-Ti piace stare qui?-
Una voce improvvisa lo fece voltare di scatto, giusto in tempo per
vedere una bimba vestita di bianco in piedi di fronte a lui. -Chi sei
tu? Come hai fatto ad entrare?-. Lei lo guardò con occhi
tristi e profondi -torna da me, Art, torna a casa-. Nel tempo di un
battito di ciglia, se n’era andata altrettanto
silenziosamente ed improvvisamente di com’era venuta. Art,
così si chiamava, dunque, si sedette sul letto frastornato.
“Torna a casa? Quindi non dovrei essere qui”
pensò. “Ma chi era?”. Notò
che il suo ricordo della bambina andava sempre più sfumando
mano a mano che passavano i minuti. Di che colore aveva gli occhi? E i
capelli? E la sua voce, che suono aveva? Ricordava solo
l’abito bianco, molto più grande di lei, che la
infagottava, così simile… così simile
ad un camice.
Appena ebbe formulato questo pensiero il suo corpo scattò,
mosso da un impulso incontrollabile: doveva raggiungerla.
Infilò la porta, noncurante del fatto di essere ancora in
pigiama, scendendo una lunghissima scala a chiocciola fino alla strada.
Lo spettacolo che gli si parò davanti gli fece
istantaneamente dimenticare l’impulso che lo aveva mosso: si
trovava immerso in un mondo surreale. Gli edifici erano non solo
palazzi-alberi, ma anche grappoli d’uva, cubi e sfere
incastrati l’uno dentro l’altro o enormi gusci di
tartaruga. In mezzo ad essi si districavano strade di mattoni rossi,
senza l’ombra di un mezzo di trasporto. Ma niente lo
stupì tanto quanto gli abitanti del luogo: coloro che ad un
primo sguardo potevano sembrare simili a lui, avevano in
realtà solo i corpi in forma umana. Le teste erano di
animali. Ebbe un capogiro, e dovette sedersi su una panchina.
Gli si accostò subito un tizio con una terrificante
dentatura, che Art riconobbe essere quella di uno squalo. -Si sente
bene, signore?- gli chiese Faccia di Pesce. Art lo guardò
smarrito e annuì fino a che quello non se ne andò
con un cenno cortese dell’enorme testa.
-Qui tutti si mostrano per come sono realmente. Non esistono maschere,
qui.-
Ancora lei. Art si voltò di scatto, come se la bimba che gli
stava davanti fosse il più terrificante dei mostri. -Ma tu-
le chiese, cercando di controllare il tremito nella voce, -tu chi sei?-.
Non ottenne risposta, ma lo sguardo della sua piccola interlocutrice si
spostò verso un lontano disco viola, che si avvicinava
lentamente alla città. Art si domandò come avesse
fatto a non vederlo prima. -Preparati. Arriva, Art.- disse lei. E
sparì.
In un lampo, prima ancora che potesse recepire completamente il
messaggio e chiedersi che cosa stesse arrivando, in strada fu il
pandemonio: persone-bestie terrorizzate e feroci, che si calpestavano e
accapigliavano uno sull’altro, disposti a tutto pur di
infilarsi per primi nei gusci di tartaruga. L’unica parola
che si sentiva, urlata, sussurrata, pensata all’unisono era
“arriva”.
-Arriva, arriva, arriva-.
E il disco si avvicinava. -Arriva,
arriva, arriva-.
Ed infine arrivò. Si ampliò sopra la
città, coprendo completamente il cielo, prima limpido e
terso, di un colore viola brumoso. All’improvviso, del tutto
inaspettata, scese la calma. Un silenzio assoluto, denso, permeava ogni
cosa: non un fruscio, non un alito, non un sussurro. L’unico
essere vivente rimasto allo scoperto era lui.
-Torna a casa, Art-.
La voce della bambina echeggiò nel silenzio assoluto.
-Ma se non dovrei essere qui, se non vivo realmente in quel palazzo,
dov’è la mia casa?- chiese lui disperato, quasi
urlando. Lei non rispose, si limitò a fissarlo con occhi
seri e tristi. Continuarono a guardarsi mentre, irreale, una neve
dorata e luminescente cominciava a cadere dal cielo, silenziosa ed
ovattata, ricoprendo tutto attorno a loro. Non appena la polvere lo
sfiorò, Art cadde a terra e rimase immobile come se stesse
dormendo. In realtà era perfettamente cosciente, e stava
provando un dolore che andava al di là di ogni
immaginazione. Gli sembrava che ogni suo nervo avesse preso fuoco, e
che le fiamme gli invadessero anche l’anima. Non riusciva
più a distinguere ciò che provava il suo corpo da
ciò che sentiva la sua mente.
Il buio lo avvolse, e le parole della bambina furono l’ultima
cosa che udì prima di perdere conoscenza.
-Torna da me, Art-.
Quando riaprì gli occhi, era sdraiato su un letto, avvolto
in candide lenzuola.
“Come sono arrivato qui?” pensò
guardandosi intorno.
Le pareti giallo uovo rendevano luminosa la stanza invasa dal sole e da
una piacevole brezza tiepida che muoveva le tende. Accanto a lui
c’era una ragazza addormentata su una sedia, i capelli
castani che le ricadevano sul volto. Aveva un’aria familiare,
anche se non avrebbe saputo dire chi fosse. Qualcosa scattò
nella sua mente, ebbe come un dejà-vu. Avrebbe potuto essere
un lontano ricordo come un vecchio sogno, ma bastò per
spingerlo a parlare in un sussurro. <> disse rivolto alla giovane.
Sentiva che lo stava aspettando.
Lei aprì gli occhi, e fu come trovarsi dentro una bolla di
vetro rotta dalle dita maldestre di qualche bambino. Ogni edificio,
ogni oggetto, tutto l’ambiente che lo circondava
iniziò a riempirsi di crepe, frantumandosi e i frammenti
iniziarono a cadere poco alla volta, simili ad una pioggia argentata e,
mano a mano che cadevano, lasciavano il posto ad un altro ambiente, un
labirinto di scale di ogni foggia e dimensione in mezzo alle quali,
ora, Art galleggiava sospeso a mezz’aria.
-Devi seguirmi, Art, non c’è più tempo-.
La giovane donna con la voce da bambina era davanti a lui, che la
seguì senza una parola in quel budello intricato di gradini
e luccichii. La seguì attraverso una porta aperta, e vide la
scena.
Lei, in mezzo ad una strada trafficata, in una sera di pioggia.
Un camion che non riusciva a frenare, suonando il clacson
all’impazzata.
-Attenta!- gridò, e senza neanche pensarci si
gettò su di lei, spingendola via dalla traiettoria assassina.
E poi fu il buio.
*****
Ormai erano passati due mesi, e Art non si svegliava.
Seduta di fianco a quel letto, Leila seguiva l’agonia e il
coma senza darsi pace, non badando a nient’altro.
“Devi aver cura di te, pensa alla bambina” le
ripeteva la madre, quando la sorprendeva a perdersi in singhiozzi.
La bambina. Sua figlia, e figlia di Art, che per la
stupidità di sua madre forse non avrebbe mai conosciuto suo
padre.
Era stata talmente felice lei, Leila, quando aveva scoperto di essere
incinta. Riviveva ancora col pensiero l’euforia di quei
giorni con lui, ogni secondo e ogni attimo: la gioia, le risa e le
bottiglie di champagne.
E poi? Cos’era successo, dopo?
I problemi per comprare una nuova casa, il licenziamento, lo stress. E
l’impressione che Art ritenesse la bambina una fonte di
problemi economici, piuttosto che di gioia. Era corsa via dopo
l’ennesima discussione, senza nemmeno sapere dove andare,
senza accorgersi che lui era uscito di casa per seguirla.
Pioveva, quella sera, e l’asfalto era bagnato e scivoloso.
L’ultima cosa che ricordava era la luce dei fari che
l’aveva abbagliata. Si era immobilizzata in mezzo alla strada
con la tromba del clacson che le risuonava nelle orecchie.
Poi aveva visto il corpo di Art, a terra. Immobile. Come sarebbe stato
da quel giorno a due mesi più avanti.
Basta, non doveva pensarci, adesso. L’unica cosa importante
era che Art stesse meglio, che guarisse: non contava
nient’altro.
Quando il medico le aveva comunicato che le terapie non stavano dando
più esiti, si era rifiutata di arrendersi ed aveva insistito
per settimane, finchè non aveva ottenuto di tentare con una
nuova cura, ancora in sperimentazione, frutto delle ricerche di uno
strano tipo che le aveva fatto paura fin dall’inizio, con
quella faccia un po’ simile ad un pescecane. Una cosa in gran
segreto, da fare in una clinica privata, ma Leila voleva, doveva
tentare. Parenti ed amici si erano opposti non appena avevano
conosciuto il medico. “Non sappiamo neppure chi sia! Non vuol
dire nemmeno il suo nome! E’ un pazzo!” avevano
ripetuto senza sosta. Tuttavia, qualcosa nell’atteggiamento
dell’uomo le aveva detto che poteva fidarsi di lui, che
avrebbe saputo cosa fare. Le sembrava che ne sapesse molto di
più di quanto volesse far credere.
O forse era lei così disperata da aggrapparsi a qualsiasi
cosa, anche ad un barlume di fantascienza.
Fantasia o no, se quel tizio aveva un modo per curare Art e per
riportarlo da lei, non le importava cosa dicesse la gente, concluse.
Era la sua unica speranza. La loro unica speranza.
-Torna da me, Art. Torna a casa- ripeteva senza sosta, accarezzandogli
la fronte. Era convinta che lui potesse, in qualche modo, sentirla, sia
quando gli parlava, sia quando gli appoggiava il palmo della mano sulla
pancia, come se potesse riuscire a sentire la bambina.
“Qualsiasi cosa che gli ricordi la vita può essere
fondamentale” le aveva detto il medico, e lei lo aveva preso
alla lettera. Non si muoveva mai dal fianco di Art, e distoglieva lo
sguardo solo per leggere il libro che le aveva dato lo stesso dottore,
dicendole che se Art fosse uscito dal coma l’avrebbe aiutata
a capire.
Parlava di una strana città simile ad un dipinto, logica e
senza senso al tempo stesso, dove gli abitanti avevano corpi umani e
teste di animale. Leila non era certo in vena di dilettarsi con
racconti fantastici, e all’inizio aveva stentato, pensando
che quel libro fosse niente più di un espediente per farla
distrarre. Non capiva come avrebbe potuto aiutarla una volta che Art
fosse guarito. Lui non poteva certo averlo letto. Ma il medico
l’aveva spronata ogni giorno, ripetendole che era
fondamentale, e lei aveva finito per arrendersi.
Non era certo la cosa più assurda alla quale aveva creduto
nelle ultime settimane.
Arrivò il giorno della cura e Leila, pallida e tremante,
ascoltò la spiegazione del medico.
Consisteva in una semplice pasticca color viola scuro,
l’ennesima, di cui però l’uomo non
voleva in alcun modo spiegare la composizione. -Ma io devo sapere cosa
c’è lì dentro- protestò lei
-cosa gli farà?-. Le rispose uno sguardo serio -se tutto va
bene, darà un forte shock al cervello, risvegliandolo.
Altrimenti- proseguì il medico senza mezzi termini -non ci
sarà più niente da fare. Vuole tentare lo
stesso?-. Il silenzio si era fatto denso come cemento, gli occhi di
tutti erano puntati su Leila: quelli piccoli e acquosi
dell’uomo, quelli delle infermiere, quelli della madre.
Leila deglutì. Come spiegazione era stata decisamente vaga,
ma non c’era altra strada. Dovevano tentare.
-Si- rispose con la gola secca -cominciamo-.
Il dottore fece un cenno alle infermiere, che uscirono dalla stanza
assieme alla madre di Leila.
-Lei rimanga- disse, facendo delicatamente inghiottire la pasticca ad
Art -rimanga qui, e gli parli. Deve dirgli di seguirla e di tornare a
casa, perché ormai non c’è
più tempo- le si avvicinò improvvisamente, fino
ad arrivare ad un soffio dal suo volto -ha capito bene? Deve fare
esattamente come le ho detto!- esclamò secco. Leila
annuì, facendosi forza. Quando il medico fece per uscire,
gli chiese ciò che aveva voluto chiedergli fin
dall’inizio -ma lei chi è?-.
-Provengo dal luogo dove lui è intrappolato- rispose quello,
dandole le spalle. -Se uno di voi finisce nella nostra
città, uno di noi deve riportarlo indietro, o nessuno dei
due potrà mai più tornare-.
Leila non fece in tempo a domandare di più. Il medico
uscì chiudendo la porta.
Tutto era sempre più incomprensibile, ed il senso di colpa
per l’impressione di aver lasciato Art nelle mani di un
probabile maniaco di fantascienza e mondi paralleli si faceva sempre
più strada dentro di lei.
Si avvicinò al corpo immobile del giovane. Paura, speranza,
un’emozione incontrollata la dominava. Le lacrime iniziarono
a scorrerle sulle guance. Prese una mano nelle sue e l’altra
l’appoggiò sul proprio ventre -ora devi seguirmi,
Art, non c’è più tempo-
sussurrò.
Improvvisamente, il corpo inerte ebbe un sobbalzo. Poi un altro. E
ancora, ancora, sempre più violenti.
Leila gridò, chiamò il dottore, sua madre, ma non
arrivava nessuno, nessun aiuto, e Art si contorceva sempre di
più, come se stesse soffrendo all’inverosimile.
Presa dalla paura, dal rimorso, il cuore stretto in una morsa gelida,
Leila si fermò.
Smise di gridare, di chiamare, di parlare.
Immobile, lo guardò sobbalzare sul materasso. Sfinita,
chiuse gli occhi.
-Attenta!-
Il grido, che sembrava aver attraversato gli strati del tempo, la fece
schizzare in piedi.
Davanti a lei, Art era vivo.
Avevano vinto.
Note dell'Autrice:
Beh, chi mi conosce e guarderà questo racconto
chiuderà la schermata da tante volte che l'avrà
letto XD per tutti i nuovi lettori... è un racconto ispirato
a un sogno che ho fatto, è la prima volta che mi
è riuscito di descriverne uno in maniera compiuta!
Spero che a qualcuno possa piacere ^_^
Bethan
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