Non ricordo
il colore dei
tuoi occhi
Tic. Tic.
Tic.
Sento
ancora quel rumore, dopo anni, insistente e rigido,
nella mia testa.
Tic.
Tic. Tic.
Credo
ormai che come una macchia d’inchiostro si sia attaccato
alla mia pelle, ai miei muscoli, alle mie ossa, ai miei pensieri, e che
mai se
ne andrà. Una macchia d’inchiostro proprio come quelle che si andavano
a
disperdere nei fogli bianchi e mio padre, esasperato, stracciava tutto
e
buttava via. E poi di nuovo tic, tic, tic. La macchina da scrivere
riprendeva a
partire, calma e a volte frenetica, inciampavano le lettere e lui
sbuffava.
Che
tipo era mio padre? Forse non l’ho mai conosciuto
davvero. Ricordo solo le sue spalle sotto il maglione di cotone di
quando lo
osservavo davanti alla porta della sua stanza, io ancora piccolo, e lui
troppo
grande. Stava davanti a quella macchina da scrivere giorno e notte.
Ogni tanto
lo vedevo poggiare gli occhiali sulla scrivania per poi asciugarsi la
fronte e
di nuovo infilarseli.
Mio
padre voleva che diventassi medico. M’iscrisse ad una
scuola molto ricca quando ebbi l’età e non poteva permetterselo.
Tic.
Tic. Tic.
Ancora
risuona dentro di me quella macchina; non sentivo
altro giorno dopo giorno. Quel rumore dei tasti ha segnato tutta la mia
vita;
ad ogni tic io ero
cresciuto. Ad ogni
tic io
diventavo più grande davanti a
quella porta e mio padre più piccolo davanti a quella macchina da
scrivere.
Tic.
Tic. Tic.
Il
tempo è trascorso, lo so, ma non ricordo nulla di nuovo.
Mi
affaccio davanti a quella cornice e mi rivedo bambino,
con i calzoni corti e il farfallino, che mi apprestavo al mio primo
giorno di
scuola; e mi rivedo grande mentre me ne vado, con i calzoni lunghi e la
cravatta, il mio ultimo giorno di scuola. Non ero mai riuscito a
diventare
medico: sono scomparso.
Resto
affacciato alla cornice che come una magia – no, maledizione – mi
porta a rivedere
continuamente il mio passato, quel poco che c’è da raccontare, fino
alla fine.
Sono
ancora qui eppure, davanti a quella porta ad osservare
le tue spalle davanti alla macchina da scrivere. Scrivi con gli ultimi tic della tua
vita i ricordi di un
figlio che non hai mai vissuto, che doveva diventare medico e non ce
l’ha
fatta. Posi gli occhiali tondi e ammaccati ancora una volta sulla
scrivania ma non
li riprendi più, io ti vedo, tu piangi. Perché piangere? Non capisco,
papà, io
sono invisibile ora come lo ero allora.
Tic.
Tic. Tic.
Mi
riaffaccio alla cornice che incornicia la mia vita. La
mia inutile vita non vissuta.
A
cosa è servito, papà? Non ho amato, non sono diventato
medico, non ricordo il colore dei tuoi occhi. Non sono mai diventato
piccolo
come lo sei tu ora: gracile e fine, non sembri più tu.
Nutrivate
grandi speranze, tu e mia madre? Riaffacciandomi
alla cornice posso rivedere gli immensi sorrisi dovuti alla mia
nascita… Una
nuova vita, non è così?
Ricordo
ancora bene nella memoria, senza usare la cornice
che mi è stata affidata, le tue lacrime pesanti e lunghe di quella sera
scura,
quando mia madre venne sepolta e consegnata agli angeli. Mi tenevi
stretto a te
quasi a farmi male ma quando mi lasciai la tua mano non toccò mai più
la mia
pelle, me lo ricordo, papà.
Tic.
Tic. Tic.
Eri
ancora un ragazzo quando la tua vita si spezzò con la
sua; vedo attraverso la cornice buia la tua disperazione. Avevi paura,
papà. Sorridevi
ma fingevi, non mi hai più guardato in faccia da quando non poté più
farlo mia
madre.
Mi
hai amato?
Avevi
paura di una vita nostra e mi hai lasciato crescere ad
osservarti dalle spalle. Avevi paura di essere di nuovo felice, di
ricominciare,
che tutto avrebbe potuto spezzarsi ancora e non ci hai neanche provato,
papà.
Tic.
Ero
invisibile nella tua vita.
Tic.
Non
ci sei mai stato.
Tic.
Avevo
anche io paura.
Il
rumore si è zittito. Mi dispiace di com’è stato, papà. Se
solo ti fossi voltato, avresti visto che io ero proprio lì ad
aspettarti,
sempre, per provare a sorridere insieme.
Il
tuo corpo ora è floscio su quella dannata macchina da
scrivere, finalmente zitta. Attraverso la cornice vorrei poterti
toccare ma non
mi è più possibile; è troppo tardi.
Mi
sdraio in quel pavimento freddo e tengo stretta la
cornice nel petto, quel rumore se n’è andato. Mio padre se n’è andato.
Nella
mia testa ora si fa viva solo la sua voce che mi chiama, tacendo quella
macchina, e nulla può farmi più sorridere di quello.
«Alfred».
«Sono qui,
papà
».
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Questa
piccola shot partecipa al contest di Eylis “[Mini
Original 2] - La Cornice e... l'Invisibile”, con
scadenza il 7
luglio, io ovviamente ho già consegnato o non avrei potuto postarla.
Quasi
tutto come un sogno, un sogno terribile da cui è difficile svegliarsi.
Forse
questo piccolo racconto parla in modo un po’ astratto di una delle mie
paure
più grandi: quella di non riuscire a vivere la vita e di restare sola.
Si hanno
grandi aspettative (diventare medico in questo caso) ma infine ci si
ritrova
senza più nulla tra le mani. Il padre del protagonista si è visto
spezzare la
vita e non è riuscito a tirarsi su. Voleva che suo figlio diventasse
medico per
imporgli un obiettivo nella vita, che lo portasse ad avere soldi e
magari a una
vita migliore di quella che si era scelto lui, ma non si rendeva conto
che con
la sua disgrazia aveva trascinato con sé il figlio. Alfred fin da
bambino non
era riuscito a ricevere amore e non gli è stato insegnato il motivo
importante
per cui conseguire quell’obiettivo. Non aveva senso per lui riuscire a
diventare medico se non riusciva neppure ad avvicinarsi a suo padre, e
così
alle persone, era solo: a che pro riuscire nella vita se non aveva
qualcuno con
cui condividerne la gioia? Forse Alfred era stato ucciso da questo, e
in
effetti è così che volevo un po’ far pensare al lettore.
Per il
resto… mi sono quasi messa a piangere mentre scrivevo XD Non è la prima
volta
che mi succede, ma ho scritto una cosa triste stavolta… e infatti non
so dire
se mi è o meno venuta su bene XD
Il
titolo
mi piace molto :) Appena ho scritto quella frase ho pensato di
intitolare tutto
così.
Un
grazie
sincero a chi ha letto e a chi magari lascerà una recensione ^^
Alla
prossima,
ciao,
ciao
da Ghen =^_____^=
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