The Beauty Mark

di Tuccin
(/viewuser.php?uid=97327)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


 

The Beauty Mark 

 

Part I:

 

Una gocciolina di sangue sullo zigomo destro. Una liquida macchia rossa sul volto, come il buco di un verme su una mela rosata.

L’avevo nascosto con il trucco, sperando che nessuno si accorgesse che stavo portando il segno del suo amore sul viso.

Una linea azzurro chiaro, che si incrocia con un’altra. Più. Positivo. Mi sento una mela marcia.

So che posso nasconderlo, forse nessuno si accorgerà che Chuck è dentro di me.

 

“Si è attenuata un po’” dice Louis puntando il dito sulla linea invisibile del mio viso.

Lo spio da un occhio e la luce mi acceca. Da Les Révoires il mare è una strisciolina azzurra lontana. Il principe e io alloggiamo in una villa situata sul punto più alto del Principato di Monaco, nei pressi del giardino esotico. E’ qui che passiamo i nostri giorni, al sole, lontano da occhi indiscreti. Immersi nel verde acceso, c’è sempre tanta e troppa luce; la vegetazione cresce rigogliosa e invadente, ci sono fiori, ma anche spine, le foglie sono grasse e lucide. Il mio cappello di paglia, bianco, traforato e a tesa larga - accessorio irrinunciabile di ogni beau fille - si rivela inutile.  Richiudo gli occhi e vedo rosso.

“Spero solo che non rimanga il segno” rispondo fingendomi stizzita. Mi scompongo sulla sdraio senza darmi pace e mi maledico per non aver acquistato uno di quei cappelli, simili a dischi volanti, che una modista di Cap d’Ail mi aveva consigliato per assomigliare a Kate Middleton. Indubbiamente mi avrebbero riparato meglio dal sole.

“Tutti portano cicatrici” sospira Louis saggiamente, sorseggiando il suo thè ghiacciato. I cubetti si scontrano appena producendo uno sfrigolio acquoso. Io increspo le labbra appiccicose di rossetto: “E’ vero” ammetto, pensando a quella mezza luna che gli segna il mento. “Come te la sei fatta?” gli domando vaga.

Louis non risponde subito, forse perché cerca di capire a cosa mi sto riferendo, poi lo sento sorridere: “Giocando a polo…

Io tengo gli occhi ancora chiusi e, anche se non posso vederlo, so che in quel momento la cicatrice si rimarca ancora di più sul suo volto, come una fossetta. Anche Chuck porta una cicatrice, non certo sul viso, quello è perfettamente levigato, se non per qualche ruga che gli dà un aria vissuta e affascinante. La sua è sempre nascosta e per vederla bisogna slacciargli la camicia. Troppe volte le mie dita erano scivolate sul quel lieve solco, lì dove la pelle è più chiara e più liscia. Mi sentivo sempre in colpa, come se gli avessi sparato io. Per questo spesso mi addormentavo sulla sua pancia, con la mano sopra quel segno, come per coprirlo: pensavo che non vedendo più quella cicatrice forse avrei dimenticato; avrei dimenticato Parigi, i suoi occhi pretenziosi, un po’ lucidi, e quella scatolina nera.

Et en fin…” stava continuando a raccontare Louis, gesticolando quasi quanto un italiano “Wills mi ha disarcionato e sono caduto faccia a terra, ci credi?” conclude ridacchiando.

Incroyable…!” esclamo con voce squillante e sciogliendomi in una risata liberatoria.  

Ciò che mi sembra incredibile è invece come sia facile ridere con Louis. Mi sforzo per tenere gli occhi aperti e lo vedo sorridere: ha delle deliziose rughette intorno agli occhi e le labbra sottili contornano un semplice, ma allo stesso tempo regale, sorriso. E’ così facile essere felice con lui: lo sento ridere e lo faccio anche io, automaticamente. Spesso non ascolto una parola dei suoi racconti, ma credo di non aver mai riso così tanto in tutta la mia vita. Che importa se rido per finta?

Scossa ancora dalle risate, la mia mano destra si dirige sulla pancia, è un gesto naturale che faccio senza pensare. Dopo qualche attimo Louis unisce anche la sua, appoggiandola delicatamente. Mi incupisco subito e guardo le nostre mani a contatto: quella di Louis è leggermente più grande e più bronzea. Un quadro perfetto, se non fosse che mi sento gelosa: gelosa di una parte che è solo mia e che lui non può toccare. Anche se mi sono sempre piaciute le sue mani, con quelle unghie perfettamente curate, mi sembrano estranee. Le mani di Chuck mi sono ben più familiari, sono più grandi e dalla presa più vigorosa… lo so bene perché è davvero difficile dimenticarsi di come reagivo al suo tocco: anche quando non avevo freddo le sue dita bruciavano sulla mia pelle.

“J'ai fait quelque chose de mal?” mi chiede subito Louis, stupito dalla mia ritrosia. Ormai so che il principe usa il francese quando qualcosa non va, anche se in generale qualche parola gli scappa sempre. Fa parte del suo fascino.

No… certo che no” mi affretto a dire, portando la mia mano sinistra - ancora vestita di quel pesante diamante - sulla sua.

Cerco di sorridergli rassicurante, ma lui non mi sembra convinto. Nei suoi occhi verdi macchiati di grigio c’è un’ombra. E’ sospettoso e, inevitabilmente, un’espressione di amarezza mi si dipinge sul volto: quando lo deludo mi è davvero difficile nascondermi dietro a un sorriso. E’ come se facessi un dispiacere a me stessa, ci tengo molto che la nostra relazione funzioni. Lui è la persona che ho sempre sognato di incontrare.

Poi il rumore di un elicottero in avvicinamento ci fa alzare lo sguardo al cielo.

“Paparazzi” sentenzia Louis balzando in piedi seccato e appoggiando il bicchiere sul tavolo da giardino.

Mi riparo la vista con la mano, mentre il velivolo si fa sempre più vicino. I miei occhi si stringono cercando di identificare la sagoma di un uomo.

“Copriti” mi intima infastidito passandomi il prendisole. Io ubbidisco silenziosa, mentre liscio le pieghe di sangallo sotto le dita e l’elicottero continua a ronzarci fastidioso sopra la testa.

“Torniamo a La Rocher…” aggiunge porgendomi la mano perché mi alzi dalla sdraio “Torniamo a Monaco-Ville. Non ha senso stare qui. Non siamo adeguatamente protetti e ci fotografano lo stesso…”. Nella sua voce c’è rassegnazione, un lieve disappunto e uno sbuffo contenuto gli gonfia le guance.

Avevo da sempre amato i paparazzi, forse proprio perché raramente guadagnavo la loro attenzione; mentre ora, questo essere seguita e fotografata continuamente, cominciava a pesarmi. A Manhattan i loro flash abbaglianti e fulminei si univano alle luci colorate della città e, nei miei ricordi, illuminavano di bagliori intermittenti l’invidiato volto di Serena e qualche volta anche il mio, se ero in sua compagnia. Alla prémiere di Fleur mi era capitato di essere fotografata da sola, ma quella fu l’unica volta: mi avevano fermato dando per scontato che fossi Blair Waldorf e con immenso orgoglio avevo detto che sì, ero proprio io. Con il principe le occasioni si erano moltiplicate, ormai ero abituata a vedere il mio viso sulla carta patinata delle riviste: la mia pelle bianca diventava quasi trasparente e gli occhi solo due luci indistinte.

 

 

 





Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=751812