PASSATO
“Dove sarà la mia mamma? In quale parte di questo
orribile posto l’avranno messa? E papà?..
papà.. chissà dov’è
papà.. ho tanta paura che gli abbiano fatto qualcosa di
male..”. Pensai, finendo di cucire le scarpe che avevo in
mano. Ormai è da qualche giorno che sono qui, in questo
postaccio insieme agli altri bambini.. o forse qualche mese.. qualche
anno.. o addirittura qualche ora. Le mie mani mi facevano molto male..
ero molto stanca. Mollai per un attimo gli oggetti, posandoli sul
tavolo accanto. Mi strofinai li occhi con le dita. Mi veniva da
piangere.. ora come faccio ad andarmene? Voglio tornare dalla mamma..
starà bene?
La mia testa era circondata da questi pensieri.
Faceva freddo. Avevo fame. Avevo sonno. Chiusi gli occhi cercando di
staccarmi da questa cruda realtà, ma un bambino
più grande di me mi spinse. Per non cadere a terra, mi
aggrappai ad una bambina che era davanti a me facendola barcollare, e
lei, a sua volta, dalla rabbia mi spinse. E fu lì
che caddi veramente. Alzai lo sguardo e li guardai impaurita. Mi
guardavano con occhi di fuoco, come al solito.
“Smettila di perdere tempo e lavora, come facciamo tutti noi!
Non pensare che perché sei la più piccola devi
lavorare di meno!”. Abbassai lo sguardo.
“Dai, alzati e non fare la scema!” gridò
un’altra bambina, sempre più grande.
“Lasciatela stare voi!” replicò
un’altra.
“Stai zitta!!”… stavano cominciando a
litigare. Di nuovo. Per colpa mia.. la bambina che mi difese e quella
che mi spinse cominciarono a spintonarsi, ma furono interrotti
dall’arrivo di una SS. Gridò qualcosa in un
linguaggio strano. Era molto arrabbiata, come al solito. Prese un
bambino da un orecchio e lo strattonò. Un bambino che non
c’entrava niente. Poi lo spinse. Gridò ancora
qualcos’altro ed infine, guardandomi, se ne andò.
Ero terrorizzata ed ancora non mi ero alzata da terra.
I bambini cattivi mi guardavano molto male, ma poi continuarono i loro
lavori. Gli altri non dicevano niente, ma forse perché non
capivano la nostra lingua, l’italiano.
Mi alzai e ripresi le scarpe.. era proprio una cruda realtà.
Continuando il lavoro, cominciai a rivivere tutto ciò che
era accaduto, sin da quando questo incubo ebbe inizio.
Ricordo quei giorni in cui stavano tutti attorno alla radio: mamma,
papà e la famiglia di Marco. Erano molto agitati ed ogni
volta che arrivava la notizia che aspettavano, rimanevano immobili,
senza respirare, ad ascoltarla. Io non riuscivo ne a
sentire ne a capire niente dato che mia mamma mi diceva di
stare in cameretta con Marco. Io però aprivo di poco la
porta e con un occhio solo li osservavo. Non capivo cosa succedeva,
eppure i loro comportamenti mi preoccupavano, nonostante loro
cercassero di non dimostrare la loro agitazione. Mi preoccupavano
soprattutto i discorsi che facevano dopo: “Basta, siamo
spacciati ci verranno a prendere tutti” diceva il
papà di Marco.
“Calmati, caro” lo tranquillizzava sua moglie.
“Lo dici solo perché non hai avuto la sfortuna di
avere tutti e quattro i nonni ebrei” replicava lui.
Mio papà era seduto immobile. Aveva le braccia poggiate
sulle gambe e a sua volta, la testa poggiata sulle sue mani. Fissava il
vuoto. Mia mamma era in piedi e guardava a terra con il viso
pallidissimo, ma intanto accarezzava la schiena di papà.
Quando alzò lo sguardo rivolgendolo verso la mia cameretta,
chiusi velocemente la porta, anche se mi aveva vista. Aveva le lacrime
agli occhi, l’ho notato subito. Mi aspettavo che sarebbe
venuta da me, ma niente.
Quando mi girai, Marco aveva smesso di disegnare e mi guardava
“Che c’è, cos’hai?”.
Avrà notato la mia espressione turbata. “Niente,
tranquillo” gli dissi. Non potevo dirgli niente, aveva solo
cinque anni. Più piccolo di me di soli tre, ma pur sempre
piccolo. Anche perché non sapevo niente di preciso. Da
quello che avevo capito sarebbero venuti a prendere chi aveva i quattro
nonni ebrei. Ma chi? E perché? Dove li avrebbero portati?
La cosa oltre a riguardare il papà di Marco,
riguardava anche me. Avevo tutti e quattro i nonni ebrei.
Capii tante cose invece due giorni dopo, quando veramente vennero a
prenderci. I tedeschi, erano loro. Cercai di ricordare le parole della
maestra Carlotta. Diceva che fossero gli abitanti
dell’Austria o della Germania. Non ricordavo tanto. Venivano
a prendere gli ebrei e li portavano in un posto, tutti insieme, ma
ancora mi mancavano dettagli. Dove? E soprattutto ancora,
perché??
Eravamo in fila in centro alla strada. Tutti ebrei con delle valige in
mano. Ero tra la mamma ed il papà. Con una mano tenevano la
mia e con l’altra una piccola valigia con cui in fretta e
furia fu preparata sotto l’ordine di questi tedeschi. La loro
paura era più che nota in quel momento, anche se mio
papà cercava di nasconderla.
Continuammo ancora ad incamminarci. Verso l’infinito.
Così sembrava..
Dopo il lunghissimo e scomodissimo viaggio in treno, arrivammo in
quello strano posto. Eravamo tutti in fila. Vecchi, bambini, ragazzi,
ragazze, uomini, donne, neonati. Intuivo che fossero tutti ebrei. Le
mille domande che facevo a mamma e papà erano senza
risposta. “Non pensarci tesoro, andrà tutto
bene”, diceva la mamma accarezzandomi i capelli neri che mi
ricadevano sulle spalle. Quelle carezze mi mettevano sicurezza, anche
se desideravo di non essere così piccola.
Poco dopo cominciarono a separarci. Gridavano gli ordini in
diverse lingue. In italiano dissero: “Uomini di qui, donne di
là, bambini di qui” ed intanto con le mani davano
le indicazioni.
Mamma e papà si guardarono disperati. Ci avrebbero separati
tutti.
Dopo aver abbracciato me e la mamma, papà ci ha dovuto
lasciare. Promettendoci che sarebbe tornato. La mamma singhiozzava e si
asciugava le lacrime.
Quando venne il momento della separazione dei bambini sopra i due anni
dalle madri, la mamma, facendo attenzione a non farsi notare, mi
tirò a sé e mi nascose sotto la sua lunga e larga
gonna. Mi sussurrò di resistere e di non muovermi. Speravo,
e sicuramente la mamma sperava la stessa cosa, che non se ne sarebbero
accorti. Per starci sotto la gonna, dovevo chinarmi un poco.
Il piano funzionò, finché, il secondo giorno,
mentre la mamma si recava in un angolino per farmi fare
pipì, cercando di non farsi notare, una SS la vide. E vide
anche me. Mi tirò strattonandomi. Mi stava portando via, ma
la mamma urlava e non mi lasciava il braccio. “No ti prego
no, LASCIALA!!”.
Il uomo era arrabbiato e continuava a tirarmi. Lei resisteva piangendo
e supplicando, allora le tirò uno schiaffo fortissimo.
Urlai. La mamma si fermò di colpo. Il tempo stesso si era
fermato. Guardavo lei per terra inginocchiata. Ancora non si muoveva.
Dopo un’infinità, alzò lo sguardo e
guardo l’SS con dolore e con gli occhi pieni di lacrime.
“Ti prego” gli disse “Non
uccidetela… ti prego, se hai anche tu una figlia, ti prego..
non fare alla mia ciò che non vorresti venga fatto alla
tua..”.
L’espressione sul volto del uomo cambiò
radicalmente. Fissava la mamma in modo strano. Quasi con compassione.
Il tempo ancora non ripartiva. Mi prese comunque per mano e mi
portò via con lui. “Tranquilla”.
È stata l’unica cosa che disse alla mamma, prima
di allontanarsi.
Mi portò in un posto insieme ad altri bambini molto
più grandi di me. L’SS gentile mi aveva
raccomandato di dire di avere 12 anni, semmai me lo avrebbero chiesto.
In quel postaccio dovevo lavorare. Cucire scarpe molti grandi. Non lo
avevo mai fatto, non ero capace..
Tutti i bambini mi fissavano. Alcuni incuriositi, ma altri mi
guardavano molto male. Il bambino più grande mi chiese
quanti anni avessi. “Dodici” gli risposi, come mi
aveva detto di dire l’SS. Il loro volto era piano di odio e
di rabbia. “Tu non hai 12 anni! Si vede benissimo. Che ci fai
qui? In questo posto ci stanno i ragazzini dai 12 ai 17 anni. Che ci
fai TU qui? Perché non ti hanno uccisa? Perché tu
puoi stare qui mentre mia sorella di dieci anni è stata
bruciata ieri? PERCHÈ??” cominciò a
gridare uno di loro. Ero molto spaventata e non sapevo che rispondere.
L’intervento dell’SS di prima calmò
tutto. Ma questo non cambiò il fatto che quel ragazzo,
insieme ad altri ragazzi e ragazze, mi attaccava trattandomi male.
Qualche giorno dopo ci portarono tutti nella
“cucina” dei lager. È così
che chiamavano quel posto. Mi chiedevo cosa ci avrebbero fatto fare in
quella cucina. Magari ci avrebbero dato da mangiare qualcosa di caldo,
finalmente.
PRESENTE
Eccomi qui, nella probabile cucina del lager. Siamo tutti in fila,
donne, bambini e anziani. Della mamma e del papà non ho
avuto più notizie.. chissà dove sono.. mi mancano.
Questo posto è abbastanza grande, eppure è
così pieno. In fondo vedo dei grandi forni. È qui
che sicuramente fanno il cibo buono e caldo che ho sempre sognato, sin
da quando ci hanno allontanati da casa. L’odore
però è atroce. Questo sicuramente non
è odore di cibo buono. Non sembra minimamente odore di cibo.
Spero di non dover mangiare questa schifezza. Pian piano mi
avvicinavo insieme agli altri a questi grandi forni. Chissà
cosa ci avrebbero fatto vedere o cosa ci avrebbero fatto fare. Non sono
preoccupata, non so il perché. Mi sento tranquilla. Tanto
peggio di quello che ho vissuto fino ad ora, non esiste.
Avvicinandomi però, mi sono accorta di cosa
facevano… vedo due uomini prendere due bambini e sollevarli.
Poi, come se niente fosse, li buttano all’interno dei forni!!
No!!
CI AVREBBERO BRUCIATI VIVI!!
Ma com’è possibile?? Ma
PERCHÈ??
Perché mi stanno portando all’inferno?? Sono
sempre stata una bambina buona, non ho mai fatto niente di male!!
Perché?? Dalla disperazione comincio a piangere. Non sarebbe
servito a niente, ma non potevo fare altrimenti. Voglio scappare, ma
è impossibile. Non ho altra scelta, devo avanzare. Non ce la
faccio. Chi è intorno a me non fa altro che piangere o
pregare. Il tempo comincia a scorrere alla velocità della
luce.
Ed ecco che arriva il mio turno. Sono terrorizzata, non riesco
più ad avanzare. Due uomini mi prendono per le braccia e per
le gambe e si avvicinano ad uno dei due forni. Il cuore mi batte
all’impazzata, dal fumo non riesco più a respirare
e non vedo più niente. Chiudo gli occhi. Senza esitare mi
lanciano nel fuoco ardente dell’inferno.
È la fine.
Prima di raggiungere le fiamme roventi però…
raggiungo il paradiso.
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