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Alba
Prima di entrare
nella stanza, feci un respiro profondo e bussai. Come al solito non ricevetti
nessuna risposta, così aprii la porta, lentamente.
Marina era ancora
addormentata o forse fingeva di esserlo.
«Buon giorno, come
andiamo oggi?», chiesi, percorrendo a grandi passi la stanza e aprendo le tende,
la luce forte del sole, che si rifletteva sull’erba appena bagnata del guardino
della villa, quasi mi accecò.
Sentii un mormorio
dietro di me e mi voltai.
«Bene», biascicò una
voce ancora impastata dal sonno.
La donna fece per
alzarsi e mettersi a sedere sul letto, mi affrettai a raggiungerla per aiutarla,
ma lei alzò la mano per fermarmi.
«Faccio da sola,
grazie», disse, un po’ burbera.
Aveva un aspetto più
fragile degli altri giorni, ma i suoi occhi erano sempre decisi e severi come al
solito.
«Posso almeno
aggiustare i cuscini dietro la schiena?», la donna mi guardò un attimo
sospettosa, per poi accettare questo piccolo aiuto.
Mentre le aggiustavo
i cuscini la aiutai anche a drizzarsi meglio, dopo tanti anni di lavoro avevo
capito come fare per aiutare qualcuno in difficoltà, senza che l’altro se ne
accorgesse.
«Grazie», disse,
«anche se ti avevo chiesto di non aiutarmi a sedere».
Beh, immagino che
quella donna fosse un caso a parte.
Mentre le misuravo
la pressione e controllavo il suo battito, ci fu un pesante silenzio, quando poi
mi diressi verso il vassoio con la colazione, Marina parlò di nuovo.
«Signorina», fece,
«non ricordo lei chi sia», la guardai un attimo, mentre speravo che nei miei
occhi non si leggesse alcuna tristezza.
Poi un luccichio di
comprensione le brillò negli occhi.
«Lei è l’infermiera,
vero? Sì mi ricordo di lei, ieri sera è venuta a spegnermi la TV».
Mi sorrise ed io le
sorrisi di rimando.
C’erano dei giorni
in cui Marina sembrava avere una memoria di ferro, tanto da riuscire a ricordare
tutto della sua vita, anche gli avvenimenti più recenti, altri invece in cui non
ricordava neanche di essersi sposata ed aver avuto dei figli.
A volte mi veniva da
chiedermi quale fosse peggiore se una malattia che ti uccide togliendoti il
futuro, o una che ti succhia via man mano passato e presente.
«Vorrei proprio
tornarmene a casa mia», la sentii sospirare.
Mi voltai verso di
lei.
«Ma che dice, questa
è casa sua», la donna mi fissò di rimando, per poi scoppiare a ridere.
«Assolutamente no.
Sa io sono un po’ anziana, ma non rimbambita del tutto», sorrise, «Crede davvero
che con la mia pensioncina da vecchia impiegata statale potrei permettermi una
villa del genere?», sbattei un attimo gli occhi.
«Questa villa è di
mio figlio, Alberto.
Tanti soldi per
questa casa, tanti anni, la Basilica di San Pietro la chiamavamo, perché non
finivano mai di costruirla, inutile dire che si arrabbiava come un matto», si
fermò un attimo, sorridendo a qualche scena di parecchi anni prima.
«Secondo me se
glielo chiedesse,m Alberto mio le direbbe che la casa non è ancora finita
e che deve ancora costruire un deposito per gli attrezzi o un gazebo sul tetto»,
sorrisi, mentre mi affacciavo al balcone e vedevo degli operai portare delle
pesanti lastre di vetro per la serra che sarebbe sorta da lì a poco sul retro
della villa.
«Sì», dissi,
distogliendo gli occhi dal giardino, «credo di sapere a cosa si riferisce».
«Sai, io non volevo
venirci in questa casa, volevo restarmene nella mia casetta. Ah ma non pensare
che fosse un buco eh, ci ho cresciuto ben tre figli lì dentro, però è normale
chiamarla con un vezzeggiativo visto che ci sono affezionata», ridacchiai un po’
a quel discorso, sembrava quasi quello di una bambina.
«Purtroppo, però, mi
sono ammalata e mio figlio ha detto che dovevo assolutamente venire a vivere con
lui», sospirò di nuovo con un tono quasi esasperato, «e proprio adesso che ha
finalmente deciso di mettere la testa a posto e si è trovato una brava ragazza,
quello scapolone incallito».
Poggiai il vassoio
da letto, mentre lei mi guardava un po’ storto.
«Sai a me non sono
mai piaciute queste cose delle colazioni a letto come nei film…»cominciò.
«Mi spiace ma il
medico è stato chiaro, non deve assolutamente alzarsi dal letto né sforzarsi»,
la donna sospirò di nuovo, rivolgendomi una occhiata truce, poi prese la tazza
di camomilla che avevo poggiato sul vassoio e cominciò a sorseggiarlo.
«Eh ma più tardi
dovrò alzarmi», disse, mentre io mi accomodavo su una sedia vicino al letto.
«Perché?», chiesi.
«Più tardi viene a
trovarmi mia figlia, Lucia, con suo marito e la figlia», poggiai i gomiti sulle
ginocchia e il viso sui palmi delle mani, guardandola, mentre parlava.
«Sai, mia figlia
abita molto lontano, quindi può venirmi a trovare solo ogni tanto ed è difficile
muoversi ora che mia nipote è cresciuta. Quante ne ha passate con quella ragazza
negli ultimi anni. Non che sia una poco di buono, eh? E’ sempre stata una
ragazza modello, brava a scuola, con uno stretto giro di amicizie e sempre
giudiziosa, ma da quando si è diplomata, non riesce a trovare la strada giusta,
non so quante università abbia cambiato fino ad ora. Non lo dica ai miei figli,
ma a volte credo di voler più bene a lei che a loro», fece un sorriso complice,
che ricambiai.
«Sa quando stavo un
po’ meglio, le avevo detto di lasciar perdere tutto e di venirsene a stare un
po’ con me, per cambiare aria», disse, sorseggiando un altro po’ dalla sua
tazza.
«E l’ha fatto?»,
chiesi, dopo qualche minuto di silenzio.
La donna mi rivolse
uno sguardo stralunato, il filo del suo discorso perso tra chissà quale grigio
gomitolo di ricordi.
«Di cosa stavo
parlando?», mi chiese, intontita.
«Di sua nipote», le
dissi con un sorriso.
«Sì, giusto. Quando
nacque, mia figlia voleva per forza darle il mio nome, dico io con nomi così
belli, proprio il mio, Marina. Non mi è mai piaciuto questo nome, sa io
da bambina abitavo sul mare, figurarsi come gli altri ragazzini mi davano
fastidio, ricordo che mio fratello tornava sempre a casa pieno di lividi perché
faceva a botte per difendermi. Così glielo vietai».
Mi alzai e presi
delle vitamine e le medicine, insieme con un bicchiere d’acqua, per poi poggiare
il tutto sul vassoio, mi risedetti.
«Le dissi che se
proprio voleva che io e la bambina fossimo legate da un nome, sarebbe stato un
nome bello che avrei scelto io», fece, «però l’avrei scelto solo quando l’avrei
vista per la prima volta».
«Sa, ricordo ancora
il giorno in cui è nata. Alle 5.38 del 10 luglio, pioveva a dirotto, dico io a
luglio come poteva esserci una pioggia del genere.
Mi disperavo
pensando a mia figlia nella sala operatoria e cercavo di trattenermi dal non
urlare ad ogni tuono, ne ho sempre avuto paura.
Così quando mio
genere mi venne incontro per dirmi che potevo entrare, cominciai a correre per
il corridoio, preoccupata per mia figlia.
Tuttavia, quando
entrai nella sua stanza e vidi la mia nipotina tra le braccia di Lucia, la presi
subito tra le braccia.
Il medico disse che
era stato solo uno spasmo muscolare quello che fece quando la presi, ma secondo
me fu un sorriso. Non sentii più nulla, né mia genero che mi continuava a dire
quanto fosse bella, né i tuoni all’esterno che non smettevano di rombare, la sua
luce, mi accecò gli occhi», sentii la sua voce tremare appena, «Mi ricordati di
quando ancora bambina correvo con mio fratello sulla spiaggia, salutando la
barca di mio padre che tornava il mattino presto dopo una pesca con le lampare.
Mi sembrò di sentire il profumo del mare e di vedere il sole che nasceva veloce
dal mare».
Sospirò, mentre io
mi immaginavo la scena davanti agli occhi.
«Alba, dissi
e le diedi un bacio sulla fronte», fissò per un attimo il vuoto, per poi
continuare con aria corrucciata.
«Anche se non credo
che poi la scelta di quel nome le abbia evitato di essere infastidita,
dopotutto», scoppiai a ridere, mentre Marina prese le sue medicine e butto giù
l’acqua in un sorso.
«Ferma, ferma!», mi
voltai, mentre scendevo le scale ed una piccola peste di sei anni, dagli occhi
nocciola ed i capelli rossi come i miei correva verso di me.
«Piano, Marina, così
cadi!», dissi, scendendo gli ultimi scalini e afferrandola, mentre stava per
inciampare sull’ultimo gradino.
«Come sta oggi la
noooooonna?!», chiese, mentre le facevo fare un giro su se stessa.
«Un po’ meglio, se
vuoi puoi andare a salutarla», dissi, sorridendole.
«Davvero?!», disse
sgranando gli occhi e sorridendo e mettendo in mostra i suoi dentini.
«Certo», le
aggiustai il frontino, che stava man mano cadendo dalla sua testolina.
«Allora vado!», si
girò su se stessa e poi si fermò, «Secondo te oggi sa chi sono», mi chiese
fissando il pavimento.
«Può darsi di sì e
può darsi di no, Marina», dissi, mettendo una mano sotto il mento ed alzando il
suo viso per cercare i suoi occhi. Mi piegai sulle ginocchia fino a raggiungere
la sua altezza.
«Lo sai che la nonna
è malata e a volte perde un po’ quel che succede, però ti vuole bene lo sai, no?
Ti ricordi quando eri piccola e ti faceva volare sull’altalena», la bambina
annuì.
«Visto? Fai come se
tu e la nonna steste facendo un gioco in cui recitate entrambe la parte di
qualcun altro. Quindi se lei non ti riconosce o ti scambia per qualcun altro…»,
mi interruppe.
«Faccio finta di
essere qualcun altro», disse sorridendomi.
Avvicinai la sua
fronte alla mia.
«Sei una brava
bambina, grazie», dissi, dandole un bacio sulla fronte, lei mi regalò un
sorrisone.
«A me piace stare
con la nonna e giocare a recitare, come fanno quelle signorine per televisione»,
disse, mentre mi alzavo e lei prendeva a salire le scale di corsa.
«E poi la nonna
quando non mi riconosce mi scambia sempre per te, Alba e mi racconta un sacco di
cose buffe su papà», disse rivolgendomi un altro sorrisone.
«Dov’è zio
Alberto?», chiesi.
«Ah! Papà ha detto
che ti ha chiamato un tipo dalla voce buffa dall’ospedale, dicendo che rivoleva
la sua miglior dottoressa al più presto», disse, saltellando sull’ultimo
gradino, prima di arrivare sul pianerottolo, alzai gli occhi la cielo.
«Papà ti aspetta giù
nel giardino con zia», urlò, prima di correre nella stanza, facendomi un segno
di vittoria.
«Buon giorno!»,
sentii la voce squillante della mia cuginetta urlare gioiosa, «come andiamo
oggi?!»
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The One Hundred Prompt
Challenge
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