Alla memoria di mio padre.
Per Schroeder suonare era come
raggiungere un'oasi di pace dopo un
lungo cammino nel deserto, era raggiungere l'Eden in cima al monte
purgatorio al quale la vita stessa sovente ci condanna. Lì,
seduto al suo piano, gli pareva quasi di essere in paradiso,
mentre ascoltava le note del suo amato Beethoven che parevano nascere
direttamente dal profondo
della sua anima. Poi, naturalmente, c'era Lucy van Pelt.
Quella ragazzina, così noiosa e petulante, che sembrava
non poter fare a meno di venire ogni giorno ad ascoltarlo,
disturbandolo con inutili ciance sull'amore e sul matrimonio e su
chissà quali altre follie, aveva finito per divenire una parte
quasi essenziale di quel rito quotidiano che era per lui la musica.
All'inizio Lucy detestava
la musica e odiava quel maledetto, stupido, piano che si frapponeva tra
lei e il suo adorato Schroeder; lentamente però aveva finito per
apprezzarla sempre di più: sentiva che quel piano non era un
muro tra lei e il ragazzo biondo, ma il legame che in qualche modo li
univa, che la musica di Schroeder era il modo in cui il giovane sapeva
parlarle nel modo migliore. Così, anche per lei, la musica
era diventata un rito. Ogni volta che Schroeder si
esercitava -e lei riusciva sempre ad udire, da casa sua, la musica di
Schroeder, anche quando nè Linus nè Rerun nè sua madre
sentivano nulla- usciva di casa e entrava da lui salutando la "Signora
Schroeder" come lei si ostinava a chiamare la madre di lui. La donna le
era ormai affezionata: l'accoglieva sempre con un sorriso, con una
parola di sincero interesse per i suoi fratelli (Lucy rispondeva al
sorriso con un sorriso e alle domande sui fratelli con espressioni
acide), con una tazza di the; la chiamava "la piccola fan di Beethoven"
e la introduceva nello studio, dove Schroeder si esercitava,
richiamando l'attenzione del figlio.
Schroeder alzava la testa, senza
smettere di suonare, fissava brevemente Lucy, poi con un sospiro
esasperato abbassava di nuovo lo sguardo sul pentagramma ma, dentro di
sè, sorrideva: anche quel pezzo del rito era
compiuto. Il rito, poi, continuava come una variazione su un tema
fisso: lunghi silenzi dove risuonava solo la musica, intervallati
ai discorsi sconclusionati di Lucy sull'amore e sul matrimonio. Brevi
risposte sarcastiche del pianista. Oppure silenzi, nei quali Schroeder
parlava attraverso la musica. Tentativi di bacio sul naso o sulla
fronte e Snoopy che venivano da chissàdove. Come in un gioco a
due.
Anche quel giorno il rito si era
ripetuto. Eppure da subito Lucy aveva avvertito che qualcosa non
andava: sentiva nell'aria un qualche cosa di sbagliato, una sorta di
dissonanza che disturbava il piacere della melodia: lo avvertì
nel sorriso della "signora Schroeder" che la accoglieva sempre caldo,
ma ora velato da un'ombra di tristezza, lo avvertì nello sguardo
incerto che Schroeder stesso le rivolse, e nel fatto che aveva chinato
la testa senza il suo solito sospiro esasperato. Camminò
lentamente attraverso la stanza e si sedette nel luogo che il rito
prescriveva: davanti a quel piano che li separava e insieme li univa.
Schroeder, che aveva interrotto l'esecuzione alla sua entrata (un altro
segno di dissonanza), attaccò il primo movimento della Suonata al chiaro di luna. Lucy
fu singolarmente colpita dalla tristezza di quella melodia, dalla
malinconica nostalgia che trasudava da ogni nota. Esaurito il primo
movimento, inaspettatamente Schroeder non attaccò il secondo,
più veloce e meno maliconico, ma riattaccò da capo, come
se volesse immergersi nel ricordo e nella malinconia.
In quel momento Lucy capì.
«Che stupida sono» pensò tra sè «come
ho potuto dimenticarmi? Quella piaga di Linus me l'aveva pure detto
proprio ieri. Oggi è l'anniversario della morte del padre di
Schroeder». E, improvvisamente, Lucy si sentì un'estranea
in quel luogo, sentiva di essere di troppo, di disturbare il dolore del
ragazzo con la sua sola presenza. Avrebbe voluto dire qualcosa di
gentile o di consolante, ma non trovava le parole: tutto gli sembrava
così poco, così radicalmente insufficiente. E intanto
Schroeder continuava la sua triste suonata. Lucy lo fissò negli
occhi, senza ricevere in cambio uno sguardo da quegli occhi inumiditi,
poi si alzò e decise di andarsene per rispettare il dolore di
Schroeder.Si stava dirigendo verso la porta quando Schroeder smise di suonare.
«Lucy!» la richiamò lui. Lei si arrestò,
lasciando cadere la mano che già si dirigeva verso la maniglia
della porta, e lo guardò di nuovo, questa volta ricambiata dai
verdi occhi del pianista.
«Rimani qui. Ti prego».
Lentamente Lucy tornò indietro e sedette
nuovamente accanto al pianoforte, in silenzio perché non
c’era bisogno di alcuna parola. E Schroeder attese che si fosse
seduta prima di ricominciare a suonare. Attaccò di nuovo la
Sonata al chiaro di luna. Ma questa volta non si arrestò al
primo movimento e continuò con il breve secondo (allegretto, in
forma di minuetto) per approdare infine al presto agitato in cui la
tristezza del primo veniva in qualche modo ripresa, benché il
presto le desse una forza molto diversa. Per tutta l’esecuzione,
e persino nella prima malinconica parte, Schroeder parve come
più sereno e meno triste: sorrideva, con solo un velo di
mestizia a Lucy che lo fissava, silente.
Alla fine, alzate le mani dalla tastiera, Schroeder fissò Lucy negli occhi.
«Grazie di essere stata qui ad ascoltarmi».
E chinatosi su di lei la baciò sulla fronte.
Lucy arrossì di gioia e di piacere.