A Muse

di sam_dannson
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Le sue dita si posarono sulla tastiera come stanche farfalle prossime alla fine della loro breve, splendida esistenza. I lunghi capelli neri come la notte le cadevano lungo le guance e le incorniciavano due occhi di cristallo che parevano aver rubato la profondità ai cieli e il colore agli oceani più profondi. Il mondo perse importanza. Le labbra carnose, del colore delle ciliegie mature si dischiusero in un sorriso che nessun artista moderno saprebbe riprodurre, che solo i greci forse riuscirono a imprigionare nella pietra impassibile. Il tempo si fermò. L’istante sembrò prolungarsi all’infinito. Poi lei alzò le spalle, sollevò le mani e la sinistra coprì con delicatezza la penultima ottava del sol diesis, poi do diesis, poi chiunque stesse ascoltando perse la ragione. Era quasi un canto… un canto di cigni neri… e tristi. Erano lacrime di solitudine, gioia, rabbia, frustrazione, paura, stanchezza. Erano pensieri scomposti di una vittima di se stessa. Erano i giorni che mancano alla fine o all’inizio di tutto. Erano i venti che soffiavano implacabili e rabbiosi sulle nostre strade strette e polverose come sentieri di montagna, troppo vecchi e scomodi per essere utilizzati, diretti verso luoghi di cui nessuno rammenta più la splendida esistenza. Erano i brividi del silenzio, come sospiri nella folla… nessuno se ne cura. Nessuno se ne accorge. Come disegnarli? Come scriverli? Come rappresentarli in qualsiasi altro modo che non ascoltando quella musica e tentando di immaginarli… cercare di cogliere la stupefacente perfezione di ciò che nasce come imperfetto, vive incompleto e muore nel rammarico dopo anni, mesi, secondi, istanti di esistenza?





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