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Sequel di Redemption.
Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa
storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa
risultare comprensibile a tutti.
«Vai pure a farti la doccia per
prima, Aileen» ridacchiai dopo aver chiuso la porta di casa alle nostre spalle.
Aileen era appoggiata allo
stipite, ridente e ansimante per la corsa.
«Un… attimo» borbottò scostandosi
i capelli bagnati dal viso.
Era da qualche giorno che non la
vedevo ridere così, spensierata, e questo mi rendeva ancora più felice.
Guardai prima i suoi vestiti e
dopo i miei: erano in condizioni pietose; completamente zuppi, sembravano
incollati al nostro corpo.
«Dio, non pensavo che in California
potesse piovere in questo modo». Appoggiai la nuca alla porta e respirai a
fondo per far rallentare la corsa del mio cuore.
«Nemmeno lì c’erano questi temporali».
Il suo buonumore sparì
all’improvviso, probabilmente parlava di Baton Rouge.
Nonostante avesse lasciato quella
città, che per lei era l’inferno, tre anni prima, non riusciva ancora a
nominarla.
Non gliel’avevo mai fatto notare, ma mi ero sempre reso
conto di quel piccolo particolare.
«Vai Lee, che altrimenti ti
ammali» cercai di convincerla di nuovo, dopo averla vista rabbrividire.
«Io non sono vecchia come te, mi
ammalo con più difficoltà» sghignazzò cominciando a salire le scale di corsa
subito dopo avermi fatto una linguaccia, sicura che avrei ribattuto qualcosa.
«Ho ventisette anni, Lee! Non
sono vecchio, dannazione! Sei tu che sei piccola» strillai togliendomi la
maglietta zuppa, sperando di limitare le pozzanghere sul pavimento.
«Ne ho quasi ventuno. Sono
un’adulta» urlò dal piano di sopra, prima di chiudere una porta.
«Ventuno» mormorai tra me e me.
Era passato così veloce il tempo
da quando l’avevo conosciuta per sbaglio durante le riprese di Breaking Dawn.
Mi ritrovai a pensare a come
fosse incredibile che dopo tre anni dalla sua uscita dalla clinica fossimo
ancora in buoni rapporti tanto da vivere assieme.
Più che buoni, come fratello e
sorella.
Certo, una o duecento volte mi
ero trovato a pensare a lei come a un qualcosa di più, e mi ero subito tolto quell’idea
dalla mente.
Aileen era troppo piccola, un po’
come una sorellina: andava protetta.
Qualche minuto dopo sentii il
rumore di una porta aprirsi e Aileen strillare: «Rob, ho fatto»; poi, di nuovo
il rumore di un’altra porta, questa volta chiudersi.
Mi tolsi anche i calzini e
camminai velocemente verso il bagno chiudendo la porta.
Aprii l’acqua e lasciai che il
getto tiepido mi scaldasse e sciogliesse i miei muscoli stanchi. Anche in momenti
come quelli la doccia riusciva a rilassarmi, sgombrando la mia mente.
Qualche minuto dopo chiusi
l’acqua e aprii il box per uscire.
Subito lanciai un’occhiata ai
boxer, anche quelli bagnati a causa della pioggia; sbuffai arrotolandomi l’asciugamano
in vita.
Lasciai i capelli gocciolare sulla
fronte e sulla schiena, e mi diressi, fischiettando allegramente, verso la cabina
armadio che dividevo con Aileen.
Entrai, e…
«ROB!» urlò Aileen spaventandomi
a morte.
Improvvisamente capii cosa stava
succedendo: davanti a me c’era Aileen.
«O santo Dio». Mi coprii gli
occhi con una mano aggiungendone subito un’altra per non rischiare di
sbirciare.
«Se la porta è chiusa si bussa,
non te l’hanno mai insegnato?» sbuffò divertita aprendo e chiudendo qualche
cassetto.
«Non credevo di trovarti qui, nuda!». Aggrottai la fronte stringendo
di più gli occhi per non sbirciare.
Quelli erano esattamente i
momenti che mi facevano pensare a lei come a qualcosa di più di una sorella.
«Ero indecisa su che cosa indossare e ho impiegato un po’
più di tempo del solito. Be’, non c’è nulla che tu non abbia già visto anni fa.
In ogni caso, ho fatto» mi canzonò dandomi dei colpetti con la mano sulla mia
pancia e sorpassandomi per andare fuori dalla stanza.
Avrei tanto voluto risponderle che sì, c’era decisamente
qualcosa che non avevo visto anni prima.
Come il seno che era leggermente cresciuto perché aveva
messo su qualche chilo che le donava divinamente, come il suo sedere che aveva
assunto una forma perfetta, perfetta da mordere, massaggiare e stringere.
No, diavolo!
Stavo facendo ancora pensieri perversi su Aileen!
Bisognava mettere in chiaro le cose.
Subito.
«Aileen, devo parlarti». La seguii in bagno dove si stava
asciugando i capelli a testa in giù, naturalmente in intimo.
Non aveva il senso del pudore, non ero riuscito a farle
capire che dentro casa sarebbe stato meglio vestirsi, perlomeno ero riuscito a
non farla andare in giro nuda quando ero nei paraggi.
Kellan e Jackson le avevano gentilmente detto di portare
almeno una maglia durante le rare occasioni in cui venivano a trovarci.
Tom non si era fatto tanti problemi, mi aveva detto che siccome
Aileen era una bella ragazza, poteva rimanere nuda o vestita, a suo piacimento.
«Dimmi tutto!» strillò passandosi il phon sulle punte e
guardandomi a testa in giù con le gambe semi aperte.
«Credo sia una cosa seria». Mi avvicinai al lavandino
appoggiandomi con la schiena al bordo.
«Ok, ti ascolto». Spense il phon e si tirò su dritta di
colpo puntando i suoi occhi nei miei.
«Ecco, io credo che sia meglio mettere dei paletti tra di
noi». Mi passai una mano tra i capelli bagnati e Aileen mi fissò seria.
Ci pensavo ormai da qualche settimana.
Forse era la primavera che risvegliava i miei ormoni, forse
era l’assenza di ragazze, ma avevo cominciato sempre di più a vedere Aileen
come donna e l’idea della coinquilina con cui dividere un’enorme casa a Los
Angeles si stava lentamente accantonando da sola.
Era una cosa sbagliata, certo; ma sembrava che i miei ormoni
e il mio corpo non la pensassero come il mio cervello.
Cominciavo a non vederla più come una ragazza da salvare,
probabilmente perché l’avevo già salvata, in un modo o nell’altro.
«Che vorresti dire?». Si pettinò i capelli con le dita per
togliere un nodo che si era formato.
«Che per esempio, per cominciare, sarebbe meglio che non
andassi in giro nuda per casa, come avevamo già stabilito». Indicai il suo
corpo coperto da quei pochi centimetri di stoffa e Aileen si lanciò un’occhiata
confusa.
«Non vado più in giro nuda, non sono nuda. Ho un reggiseno e
un paio di slip». Con l’indice toccò prima il pezzo sopra e poi quello sotto.
«Aileen sono trasparenti, si vede quasi tutto! Sono un uomo!»
dissi con voce stridula, tentando di farle capire che non era carino
comportarsi così, per me e anche per il mio amico nascosto sotto l’asciugamano.
Non volevo tirarlo in ballo però.
Era una donna, una bella donna, che camminava per casa mezza
svestita.
Quello che mi metteva maggiormente a disagio era che non lo
faceva con malizia, semplicemente si comportava così perché per lei era normale.
Per molti uomini sarebbe stato un sogno, be’, per me non lo
era.
Non era piacevole svegliarsi alla mattina e trovare la
propria coinquilina in intimo che si lavava il viso.
«E io sono una donna, che vuol dire? In ogni caso tra i due
ora sei tu quello nudo». Additò il mio asciugamano e istintivamente portai le
mani davanti per coprirmi.
Ridacchiò scuotendo la testa.
«Aileen, non credevo di dover arrivare a questo punto, sul
serio» sospirai e la vidi sgranare gli occhi spaventata. «Sono un uomo e in
quanto tale ho certi istinti, come ben saprai. Sai altrettanto bene che è da un
pezzo che non ho una ragazza, in questo caso i miei istinti sono raddoppiati,
triplicati oserei dire. Non è una bella cosa vedere te, donna, che giri per
casa nuda, o mezza nuda, ora è più chiaro?». Speravo di essermi spiegato a
sufficienza.
Lei per prima doveva sapere che cosa volevo dire con
‘istinti maschili’.
Lei, che aveva lavorato per anni in quello stupido locale
che l’aveva quasi privata della sua vita.
Sembrava che non mi avesse ascoltato, continuava ad
alternare strane occhiate al mio viso e al mio corpo senza nemmeno mutare
espressione, immersa e concentrata nei suoi pensieri.
«Be’, ti svelo un segreto, Robert. Sono una donna, in quanto
tale, come tu non saprai, ho degli
istinti anche io. È da molto che nemmeno io ho un uomo e quindi questi istinti
si fanno sentire. Sarai anche vecchio ma sei pur sempre un bell’uomo. Non giova
a questo il fatto che tu gironzoli per casa con un asciugamano stretto in vita
che mi fa vedere praticamente tutto quello che c’è sotto». Guardò il mio
asciugamano all’altezza di quello che c’era sotto.
«Bene, allora se siamo nella stessa barca direi che…».
Cominciai a gesticolare imbarazzato, guardandomi attorno. Speravo di adocchiare
qualcosa con cui coprirmi e la sentii trattenere il fiato.
«Una trombata e via? Dici che così ci scarichiamo e
risolviamo tutto?». Mi guardò stupita, lusingata e preoccupata.
Sgranai gli occhi sconvolto, non credendo a quello che aveva
appena detto.
«A dire la verità volevo coprirmi» mi giustificai sottovoce,
non più tanto sicuro di quello che avevo pensato. La sua idea non era poi così male.
No!
No, stavamo parlando di Aileen, la piccola Aileen.
Che poi tanto piccola non era visto che ormai stava per
compiere ventuno anni.
«Ah. Va bene». Scrollò le spalle in un gesto di
indifferenza. I suoi occhi, che ormai avevo imparato a conoscere, sembravano
guardarmi quasi delusi.
No.
Aileen non poteva aspettarsi veramente che noi… no.
No.
Mi tirai uno schiaffo sul viso per togliermi quell’idea
malsana dalla mente, e sentii Aileen scoppiare a ridere davanti a me.
«Che cosa fai?». Si avvicinò divertita, posando una sua mano
calda sulla mia guancia.
«Nulla». Spostai lo sguardo per non guardarla negli occhi ma
me ne pentii subito dopo.
Involontariamente avevo cominciato ad ammirare quel
completino blu, completamente trasparente.
Chiusi gli occhi di colpo e la sentii ridere ancora una
volta.
«Vado a mettermi una maglia» bisbigliò prima di dirigersi
veloce verso la cabina armadio.
Che avesse avuto ragione il vecchio Tom, quando aveva detto,
sigaretta in una mano, birra nell’altra: «L’amicizia tra uomo e donna non
esiste, Rob. Finirai per andare a letto con lei e ti innamorerai più di quanto
tu non lo sia già»?
Tornò in bagno con addosso una mia maglia che le copriva
appena il sedere e questo peggiorò le cose perché quando cominciò ad asciugarsi
i capelli a testa in giù la maglia scivolò verso l’alto lasciando scoperto il
suo bellissimo fondoschiena.
Che diamine mi stava succedendo quella mattina?
La pioggia che avevamo preso correndo al parco era satura di
ormoni?
Mi allontanai dal bagno prima di peggiorare la situazione.
In camera aprii un cassetto e presi il primo paio di boxer
che trovai, li infilai velocemente e feci lo stesso con una vecchia maglia e un
paio di pantaloncini da corsa.
Per rimanere dentro casa erano più che sufficienti.
Scesi le scale e mi distesi sul divano.
Dovevo assolutamente schiarirmi le idee.
Senza nemmeno accorgermene, riportai la mente a tre anni
prima.
Tornai in Louisiana, a Baton Rouge, durante le riprese di Breaking Dawn.
Il fato mi aveva fatto incontrare per sbaglio Aileen e io
avevo deciso di continuare la mia vita con lei, aiutandola a uscire da quel
maledetto tunnel che l’aveva inghiottita e che, a distanza di anni, si faceva
ancora sentire.
Ricordavo la sua fuga non appena le avevo detto della
clinica, e il suo ritorno alla camera dell’hotel per accettare.
Ricordavo quando era uscita dalla clinica e mi era corsa
incontro con quel bellissimo sorriso da donna.
Ricordavo ogni più insignificante particolare dei momenti
trascorsi assieme a lei.
E no, non potevo dimenticare le sue siringhe gettate nel
cestino e la droga lanciata nel water, né la notte in cui era entrata in
astinenza e l’avevo vista soffrire.
Ricordavo troppo, anche le cose che non volevo ricordare.
Aileen portava ancora i segni di quella maledetta
dipendenza, li portava soprattutto di notte, quando cominciava a urlare nel
sonno e dovevo correre a svegliarla dicendole che era solo un incubo.
E non avrei mai scordato il padre, quel bastardo che aveva
abusato di lei.
Non glielo avevo mai chiesto, ma ero quasi sicuro che fosse il
suo fantasma quello che ogni notte la tormentava, ricordandole la sua infanzia
infelice.
Eppure di giorno era la persona più solare che io
conoscessi.
L’avevo vista crescere, in qualche modo l’avevo fatta
crescere io, le avevo spiegato le buone maniere, le avevo insegnato tutto
quello che i miei genitori avevano insegnato a me.
Per questo non potevo vederla come una donna.
Lei era… Aileen, la mia
Aileen.
Lei, che aveva imparato a ringraziarmi per una sigaretta
prestata, che lo faceva ogni giorno perché condivideva con me una casa a Los
Angeles, lontano dalla Louisiana, lontano dalla sua vecchia vita.
«Dormi?» sussurrò soffiando involontariamente sul mio
orecchio.
Mugugnai qualcosa di indistinto che la fece ridere.
«Fammi un po’ di posto, vecchietto». Sentii le sue mani
spingere sulla mia pancia per spostarmi.
Con un sorriso, sempre tenendo gli occhi chiusi, mi strinsi
contro lo schienale del divano lasciandole lo spazio necessario per stendersi
davanti a me.
Riconobbi la sua magra schiena premere sul mio petto e, in
un gesto istintivo, circondai i suoi fianchi con il braccio per non farla
cadere.
«Quando cominci le riprese di quello stupido film?» chiese
in un sussurro. Sembrava che si stesse addormentando.
«Non mi ricordo». Parlai a occhi chiusi.
«Dai Rob» brontolò girandosi all’improvviso e tirandomi un
leggero pugno sul petto.
«Auch!» mi lamentai facendola ridere «non disturbare i
vecchi durante il loro riposino pomeridiano, Lee». Portai un braccio a coprirmi
gli occhi per ripararmi dalla luce e sentii Aileen sbuffare prima di alzarsi a
sedere di colpo.
«Sei insopportabile quando fai così. Dove hai nascosto le
sigarette? Ho bisogno di fumare». Cominciò a infilare le mani tra la mia
schiena e il divano per cercare le sigarette e io ridacchiai per il solletico.
«Non devi fumare, lo sai che fa male» la rimproverai tentando
di schiacciarle la mano.
«Da che pulpito, parla la ciminiera ambulante. Dove le hai
nascoste?». Mi pizzicò un braccio e aprii gli occhi di scatto per il dolore.
«Lee! Mi hai fatto male. Per punizione non fumerai per tre
giorni» la minacciai, puntandole l’indice contro per farle più paura.
«Robert, lascia stare. Non faresti paura nemmeno a un
bambino. Dove le hai messe?» tornò a chiedere prima di cominciare a cercare
ancora tra il mio corpo e il divano.
«Non te lo dirò mai. Ora dovresti andare al lavoro, no?».
Sorrisi furbamente guardando l’orologio.
«Oddio. Sono in ritardo». Corse verso le scale salendo i
gradini a due a due.
Ridacchiai tra me e me, convinto che non se ne sarebbe ricordata
prima di essere arrivata davanti al locale: era domenica, non aveva nessun
turno quel pomeriggio.
Distesi le gambe appoggiando i piedi sul tavolino per
mettermi più comodo, e mi accesi l’ultima sigaretta del pacchetto.
«Vaffanculo Rob!» urlò dalle scale correndo giù.
Una delle tante cose che non ero riuscito a cambiare di
Aileen era il suo linguaggio colorito.
«Che c’è?» chiesi con l’aria più innocente che potessi avere.
«Mi hai mentito! Non lavoro oggi! Dammi la sigaretta». Si
tuffò sul divano per prendermi la sigaretta ma io riuscii ad abbassarmi
velocemente, talmente veloce che Aileen cadde dal divano, di fianco al
tavolino.
«Cazzo che male» borbottò massaggiandosi un gomito.
Cominciai a ridere tenendo la testa appoggiata sul morbido
schienale.
«Smettila, stupido. Mi sono fatta male» si lamentò alzandosi
lentamente e muovendo il braccio con cautela.
Camminò verso la cucina e la sentii aprire il frigo.
«Non c’è ghiaccio?» gridò frugando.
«Aspetta che arrivo». Smisi di ridere asciugandomi una
lacrima e, tenendo la sigaretta tra le labbra, mi alzai dal divano.
Aileen stava rovistando dentro al freezer, tenendo il
braccio alto, come se si fosse tagliata.
«Che fai?» domandai guardandole il braccio, in cerca della
botta.
«Cerco il ghiaccio» sbottò senza nemmeno guardarmi. Era
arrabbiata, lo sentivo anche dalla sua voce.
«Questo mi è chiaro. Che fai con il braccio alzato?».
Lanciai un’occhiata al suo braccio prima di farla spostare per prendere il
ghiaccio.
«Ho preso una botta, lo tengo alzato. No?» chiese titubante,
abbassando il braccio di qualche centimetro.
«Se hai un taglio profondo va bene, ma per una botta non
serve» mormorai appoggiandole il ghiaccio sul gomito arrossato.
Aveva preso una bella botta.
«Piano» piagnucolò tirandomi un piccolo schiaffo sul polso. «Mi
fa male».
«Lee, tutto bene?» chiesi insicuro, massaggiandole delicatamente
il gomito.
«Sì, mi fa male». Aggrottò la fronte, tirando su con il
naso.
«Sicura che non c’è altro?». Era strano.
Di solito non reagiva così a una botta; certo, era rossa e
un po’ gonfia, ma la sua reazione mi sembrava esagerata.
«Cosa dovrebbe esserci, scusa? Dammi qua, e continua a
fumare la tua sigaretta, chissà che ti venga un polmone pieno di tabacco»
sibilò strappando il ghiaccio dalle mie mani e camminando velocemente verso il
divano.
La seguii pensieroso e mi sedetti di fianco a lei.
«Tieni» dissi porgendole la sigaretta quasi terminata «ti
lascio le ultime due boccate».
Speravo lo interpretasse come un gesto di pace, non mi
piaceva litigare con lei.
Quando metteva il broncio diventava insopportabile e
irritante e mi costringeva a chiederle scusa e a fare il ruffiano per ore prima
di ritornare a comportarsi normalmente.
«Ne voglio una intera». Si imbronciò incrociando le braccia
al petto, come una bambina capricciosa, e mi fece sorridere.
«Andiamo Lee, è l’ultima sigaretta. O la finisci tu oppure
la finisco io». Avvicinai la sigaretta alle labbra, sicuro che avesse bisogno
di un minimo di nicotina.
«Ok, ok! Mi hai convinto». Strappò la sigaretta dalla mia
mano e ne aspirò una boccata socchiudendo gli occhi.
Rimasi a guardarla per qualche minuto in silenzio, mentre si
rilassava giocherellando con il filtro e aspirava l’ultima boccata prima di schiacciarlo
nel portacenere sul tavolo davanti al divano.
Era strana, mi sembrava diversa, offesa quasi.
Probabilmente era solo una mia sensazione, ma sembrava
diventata più distaccata dopo la chiacchierata che avevamo avuto in bagno.
«Lee, va tutto bene?». Mi avvicinai a lei, accarezzandole
delicatamente il gomito ancora coperto dal ghiaccio.
«Sì». Continuò a guardare davanti a sé, senza pensare
minimamente di guardarmi.
Sospirai, pronto al peggio.
C’era qualcosa che non andava.
«Avanti, dimmi che cosa succede» borbottai sedendomi comodo.
«Niente». Continuava a guardare lo schermo della televisione
spenta, senza rivolgermi anche il più piccolo sguardo.
«Lee» sospirai afferrandole un polso, «mi vuoi dire che cosa
succede o no?».
«No». Si divincolò dalla mia stretta e io sospirai.
«Bene, allora continua a comportarti da bambina» sbottai,
irritato per il suo silenzio.
«Non mi sto comportando da bambina, non ho assolutamente
nulla». Si alzò dal divano all’improvviso, dirigendosi a grandi passi verso la
cucina.
Sentii il rumore del ghiaccio lanciato nel lavello e pochi
secondi dopo Aileen cominciò a salire le scale sbattendo i piedi.
«Non sei una bambina? Secondo te una persona adulta si
comporta in questo modo?» dissi alzando la voce e salendo al piano superiore per
raggiungerla.
«Io mi comporto come voglio». Chiuse la porta della sua
camera a pochi centimetri dal mio naso e cominciai a bussare insistentemente.
«Smettila di fare la bambina, apri questa porta e dimmi che
cosa c’è che non va».
Dannazione, delle volte era così testarda che mi faceva
infuriare.
«Non ho niente che non va. Scusami ma voglio rimanere da
sola» strillò senza aprire la porta della sua camera.
«Bene, rimani lì dentro per tutto il pomeriggio allora. Io
vado a mangiare sushi con Steph, vieni anche tu o rimani a casa?». Cercai di
abbassare il tono della voce per calmarmi; speravo che Lee si decidesse ad
aprire la porta entro pochi minuti.
«Non voglio fare la terza incomoda, vai pure» sibilò dietro
la porta chiusa.
Terza incomoda?
Che cosa stava dicendo?
«Lee, sei ubriaca? Steph, la mia agente, la conosci! Non sei
la terza incomoda». Parlai gentilmente, provando ad aprire la porta, che era
ancora chiusa a chiave.
«Be’, non ho fame».
«Sono le cinque del pomeriggio, per forza non hai fame!
Andiamo Lee, apri questa porta». Bussai di nuovo; cominciavo a spazientirmi.
«Prevedo di non avere fame. Rimango a casa» borbottò.
«Bene, quando ti passerà questo momento di pazzia e sarai
ritornata la Lee di sempre, mandami un messaggio» dissi sarcastico, cominciando
a scendere le scale.
Avevo capito che non sarebbe uscita dalla camera in tempi
brevi.
Ogni tanto le capitava, si chiudeva in camera e non usciva
per un paio d’ore, poi ritornava la mia Aileen, quella che mi metteva di
buonumore.
Passai tutti i canali della pay-tv tre volte senza veramente
trovare qualcosa di interessante.
Alle sette, dopo aver spento la tv, salii al piano di sopra
e bussai di nuovo alla porta della sua camera.
«Lee? Ti è venuta fame? Hai deciso di venire anche tu?».
Cercai di indorare la pillola e parlai con un tono gentile; infondo mi
dispiaceva veramente litigare con lei.
«No» brontolò.
Provai ad aprire la porta ma era ancora chiusa a chiave,
dannazione!
«Vuoi che ti porti un caffè quando torno? Passo da
Starbucks?». Non poteva resistere al caffè di Starbucks.
«Ho sonno, credo che andrò a dormire presto».
Ma che cosa le prendeva?
Rinunciai a riappacificarmi con lei e uscii dopo averla
salutata davanti alla porta chiusa.
Quando ritornai a casa, alle undici e mezza passate, mi
stupii di trovare tutte le luci spente.
Che fosse uscita?
«Lee?» sussurrai salendo le scale.
La porta della sua camera era chiusa, quindi doveva essere a
casa.
Provai ad aprirla e mi accorsi che non era chiusa a chiave,
sorrisi involontariamente avvicinandomi al suo letto.
«Lee? Sei sveglia?» mormorai inginocchiandomi di fianco al
suo letto e spostandole una ciocca di capelli dalla guancia.
Cominciò a russare.
Lee non russava; allora era sveglia.
«Lee, lo so che sei sveglia, andiamo» borbottai sedendomi
per terra e aspettando che aprisse gli occhi.
Continuava a russare; alzava e abbassava le spalle in modo
esagerato e questo era un altro segnale: stava mentendo ed era sveglia.
«Lee, lo so che sei sveglia, non russi mai e stai alzando
troppo le spalle», aspettai qualche secondo prima che smettesse di russare e sorrisi
divertito. «Ti ho portato il caffè con il caramello come ti piace e ho comprato
le sigarette, te ne lascio un pacchetto qui». Appoggiai le sigarette e il caffè
sopra al suo comodino e la scoprii a sbirciare con un occhio prima di chiuderlo
velocemente non appena si accorse che la stavo guardando. «Così insomma stai
veramente dormendo, eh?».
Nessuna risposta da parte sua.
«Ok, allora ci vediamo domani, buonanotte». Mi alzai lentamente,
sperando che si decidesse a parlarmi.
Quando chiusi la porta di camera sua senza che mi avesse
salutato o parlato, sospirai.
Che cosa le era successo?
Cosa avevo combinato di male?
Donne.
Questa era l’unica risposta che riuscivo a darmi.
Rimasi a rigirarmi a letto senza addormentarmi per ore,
continuavo a sbuffare, tirando pugni al cuscino per sistemarlo e accatastando
le coperte ai piedi del letto.
«No».
Mi immobilizzai, temendo il peggio.
«Per favore».
Mi alzai velocemente dirigendomi a grandi passi verso la
camera di Aileen.
«No, per favore, lasciami, ti prego» urlò quando aprii la
porta della sua camera.
Mi precipitai di fianco a lei e le presi una mano tra le
mie.
«Lee, Lee è solo un incubo, svegliati». Tolsi una lacrima
dalla sua guancia mentre continuava a scalciare e a urlare.
«Non voglio, lasciami» strillò continuando a piangere.
«Aileen, Aileen, sono Robert, è un sogno, svegliati». Presi
il suo volto tra le mani e cercai di parlare più forte per fare in modo che si
svegliasse.
Aprì gli occhi di colpo, disorientata.
«Lee, sono qui, va tutto bene» mormorai accarezzandole il
capo, quando, dopo essersi messa a sedere, appoggiò la fronte nell’incavo del
mio collo.
Quegli incubi erano frequenti, troppo frequenti.
Quasi ogni notte correvo nella sua stanza, attirato dalle
sue urla.
Sapevo cosa sognava, non ne avevamo mai parlato, ma ero
quasi sicuro che fosse suo padre.
«Andiamo, fammi un po’ di spazio» mormorai stendendomi di
fianco a lei. Non obiettò, come sempre.
Appoggiò il viso sul mio petto mentre cercavo di calmarla
accarezzandole la schiena: stava ancora tremando.
Lentamente il suo respiro rallentò e smise di rabbrividire.
Sentii il suo corpo rilassarsi contro il mio e qualche
minuto dopo si addormentò.
Non avrebbe più sognato il padre, per quella notte.
Sembrava che la mia vicinanza la proteggesse anche nel
sonno, per questo avevo preso l’abitudine di dormire con lei quando aveva gli
incubi.
Senza svegliarla allungai il braccio per prendere il
bicchiere di caffè.
Era vuoto.
Sorrisi, pensando che in fin dei conti Aileen era ancora una
bambina.
Il pacchetto di sigarette era aperto, ne mancava una.
Si sistemò meglio, stringendo il mio petto con un braccio e
sospirò.
«Sei proprio uno stupido» farfugliò continuando a dormire.
Ero sicuro che quella frase fosse rivolta a me.
Chissà che cosa stava sognando.
Buongiorno/Buon
pomeriggio/ Buonasera/ Buonanotte! :)
Ragazze…
Aileen e Robert sono tornati!
Non pensavo
che l’avrei mai fatto ma… ecco il sequel di Redemption!
Prima
di tutto specifico, anche se credo sia chiaro: la storia è ambientata tre anni
dopo Redemption e abbiamo cambiato città…
Aileen
non si droga più e non lavora come spogliarellista e Rob… be’, lui come sempre
è impegnato a girare qualche film.
Se avete
domande fatele pure, io accetto tutto, anche critiche!
Come
al solito vi ricordo il mio profilo Fb: Roberta RobTwili
E il
gruppo Fb Nerds’
corner, dove potete iscrivervi, è chiuso. Per l’iscrizione non chiedo
codice IBAN o altro, mi mandate la richiesta e siete accettate!
Credo
di aggiornare una volta a settimana più o meno…
Alla
prossima settimana! :)
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