Saku's
Space
Eccomi
qui di nuovo con questa storia, rivista e corretta. L'avevo iniziata a
pubblicare in inverno, ma poi un po' per problemi un po'
perchè non ero del tutto convinta dello sviluppo che
prendeva, avevo interrotto con l'intenzione di sistemare le cose. E
adesso eccomi qui. Nuovo titolo, nuova trama. Questo prologo e il
prossimo capitolo, comunque, rimarranno sostanzialmente invariati, a
parte qualche piccola correzione qua e là, qualche
aggiustatina. Insomma, dato che non accadeva ancora nulla di
fondamentale per la trama, non li ho quasi per nulla toccati.
Adesso
ad ogni modo vi lascio alla lettura. =)
PROLOGO
I
pochi avventori che a quell’ora della mattina
consumavano la loro classica colazione fatta di cappuccino e cornetto
rimanevano silenziosi sui loro sgabelli o ai tavolini.
Il freddo
pungente di una bella giornata invernale si
insinuava fino alle ossa di chi si trovava fuori dai locali.
Un baluginio
violetto in mezzo a un indistinto flusso
di ricci al vento.
Un respiro
affannoso per una corsa a perdifiato.
La strada
solitaria di una città millenaria scorreva
sotto i suoi piedi.
E un solo,
assillante, pensiero le girava in testa:
“Sono
in ritardo, in ritardassimo!”
Era
l’unica cosa che riusciva a pensare mentre cercava
di raggiungere in tempo l’aula di lezione
dell’università. Non ce l’avrebbe mai
fatta, ne era consapevole, ma sperava nell’ennesimo, cronico
ritardo di tutte
le persone appartenenti alla categoria “professori
universitari”. In caso
contrario temeva che sarebbe sprofondata sotto uno sguardo accusatorio
che
difficilmente avrebbe potuto sostenere. Soprattutto lei, studiosa
serissima,
mai assente e mai in ritardo! Era la prima lezione di quel semestre e
ci teneva
a fare buona impressione sulla nuova insegnante che si sarebbe trovata
davanti.
Inciampò
in una buca del marciapiede, ma riuscì a non
cadere e a ricominciare a correre, e correre, e correre,
finché quasi non
superò il portone d’ingresso, inchiodando e
lanciandosi all’interno
dell’edificio.
Salì
correndo anche le scale e notò che la porta
dell’aula era ancora aperta, segno che l’insegnante
ancora non c’era.
Tirò
un sospiro di sollievo, ma alla vista degli
studenti seduti in quella stanza si rese conto di averlo fatto troppo
presto.
No, non era colpa di tutto il gruppo di studenti che in quel momento si
stava
chiedendo come sarebbe stato il nuovo corso. Era colpa solo di una
chioma bionda,
troppo bionda, che riluceva in modo strano in quell’ambiente.
Pensò
immediatamente ad uno scherzo
dell’immaginazione, solo una somiglianza scambiata per altro.
Ma si sbagliava.
E se ne rese conto quando la testa a cui quella chioma bionda
apparteneva si
girò nella sua direzione e incontrò due occhi del
colore del ghiaccio.
Le sorrise. O
meglio rivolse verso di lei un ghigno
che del sorriso poteva essere solo una brutta copia. Ma lei ne era
consapevole:
quel ragazzo non sapeva sorridere.
Miriadi di
ricordi la invasero. Alcuni piacevoli, come
la memoria di un pugno che le aveva dato molta soddisfazione. Altri
invece, la
maggior parte per essere esatti, non fecero altro che aumentare a
dismisura il
suo malumore.
Un lampo di
tristezza le attraversò gli occhi, ma fu
solo una frazione di secondo. Non poteva farlo notare a lui, a quel
ragazzo che
la fissava con aria di sfida. E allora si riscosse e cercò
di andare verso le
prime file, dove molte sedie erano ancora libere, quando una voce che
per anni
non aveva più sentito, ma che non aveva certo dimenticato,
la fermò.
“Sempre
la solita secchiona, vero, Mezzosangue?”
Un malcelato
disprezzo trapelava da quell’ultimo
termine. Sempre. Sempre le avrebbe rinfacciato quella sua
caratteristica. E lei
sempre gli avrebbe dimostrato di essere più in gamba di lui.
In ogni campo.
Tentò
di ignorarlo, ma il brivido che le aveva
percorso la schiena al sentire quel tono che nei suoi ricordi era
rimasto anche
troppo vivo, non era di certo sfuggito al suo interlocutore, che rise
sommessamente.
Con uno sguardo
di fuoco si voltò verso di lui,
fermandosi giusto in tempo, prima di tirare fuori la sua bacchetta.
Cambiò
direzione e si diresse con passo deciso verso di lui, fino ad arrivare
alla
sedia accanto. Si sedette per essergli più vicina e
sussurrargli una frase
all’orecchio con tutto l’odio che riuscì
a metterci.
“Ringrazia
che siamo nel mio mondo e non posso
lanciarti nessuna fattura, altrimenti a
quest’ora non so come ti troveresti, Malfoy.”
“Oh,
allora non ti sei dimenticata di me!” esclamò lui
con ironia.
“Cosa
ci fai qui?” tagliò corto lei.
Era strano.
Draco Malfoy, purosangue e anti-babbani
per eccellenza, si trovava in quell’aula di
un’università babbana, piena di
studenti babbani, tranquillamente seduto in attesa
dell’inizio di una lezione.
“Oh,
Granger. Eppure tutti erano convinti che eri la
più intelligente strega mai nata! Penso che molti si
dovranno ricredere dopo
questa tua domanda.”
Lei lo
guardò torva e in quel momento lui notò il
leggero trucco violetto sulle sue palpebre. Credeva che fosse talmente
bigotta
da non conoscere nemmeno come si usavano i trucchi!
Stava forse
pensando che la ragazza fosse quasi
carina? Mai! Lui non l’avrebbe mai pensato. Anzi, si era
ripromesso di non
pensarlo mai più dopo quell’ultima disastrosa
volta in cui si erano visti.
Improvvisamente
quello sguardo indagatore lo riportò
alla realtà.
“Seguo
le lezioni come te.”
Hermione non ne
sembrava molto convinta.
“Segui
lezioni di archeologia in un’università
babbana? Mi dispiace ma non ti credo. Te lo chiederò
un’altra volta, Malfoy, gradirei
che la smettessi di prendermi in giro e mi dicessi la
verità. Cosa ci fai qui?”
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