Summer breeze
Villa Conchiglia, Tinworth.
27 luglio 2018.
Ore 9:30.
«Tesoro, mi passi il giornale?» chiese Bill a sua
moglie un’afosa mattina di fine luglio.
«Subito, caro. Luois, usa la forchetta per fovore e non le
mani per mangiare».
«Ma James lo fa sempre, mamma» protestò
il bambino fissandola con i suoi occhioni blu.
«Be’, perché credi che zia
Jinnì e zio Arrì siano sempre così
nervosi quando si alzano da tovola?» esclamò Fleur
con aria leggermente stizzita versando del tè in una tazza e
aggiungendovi del latte.
«Perché James odia usare le posate e non fa che
lanciare cibo ad Albus e a Lily» rispose Dominique
diligentemente, per poi scoccare al gemello un’occhiata di
divertita superiorità. Louis ricambiò con una
linguaccia approfittando di un momento di distrazione di sua madre,
occupata a riempire una piccola ciotola con della frutta tagliata.
«Oh, santo scielo» esclamò, allarmata.
«Che non vi passi mai per la testa di imitorlo!»
«Poveri Harry e Ginny… Quel ragazzino li
farà invecchiare precocemente»
sentenziò Bill, mezzo nascosto dietro La Gazzetta
del Profeta del giorno.
Fleur
sbuffò mentre sistemava la ciotola di frutta davanti a un
bicchiere di latte, lungo l’unico lato libero del tavolo.
«Ascidonti, ma dov’è Vic? Se non si
sbriga farà colasion all’ora di pranzo. Qualcuno
vada a chiamarla».
Bill
sembrava troppo preso dalla sua lettura e Dominique non avrebbe mai
interrotto spontaneamente la colazione; toccò a Louis
alzarsi e salire la prima rampa di scale che conduceva di sopra.
«Ehi, Vic! La mamma dice che devi muoverti!»
Seguì un secondo di silenzio, poi uno strillo.
«Arrivo!»
«Ieri è rientrata piuttosto tardi» disse
Bill; allungò una mano oltre il giornale per afferrare la
sua tazza di caffè.
«La scena con Teddì e i suoi amisci
dell’Accademia è durata più del
provisto» rispose Fleur.
«Spero sia andata bene. Si è appena diplomata, e
con il massimo dei voti: è proprio il momento che si diverta
e si rilassi un po’».
La
discussione tra i genitori fu interrotta dalla voce squillante di
Dominique. «Qualcuno aspetta una lettera?»
domandò guardando fuori dalla finestra.
«No, non mi pare» rispose Bill.
«Be’, sta arrivando un gufo»
continuò la bambina, e gli altri tre, seguendo la direzione
indicata dal suo dito, notarono qualcosa di scuro che volava
rapidamente verso la casa.
Fleur si
alzò e fece di corsa il giro del tavolo per aprire la
finestra, e qualche secondo dopo un grosso allocco planava nella
cucina; l’animale atterrò con aria impettita tra i
piatti della colazione e allungò elegantemente una zampa a
cui era legata una busta rettangolare da un nastro blu scuro.
«Per la barba di Merlino, non
sarà…» mormorò Bill.
Dominique fu
la più rapida a scattare in avanti e a slegare la busta,
mentre il pennuto la fissava con aria sdegnata come se lei non fosse
stata all’altezza del compito, e non appena fu libero
volò immediatamente fuori dalla finestra con un gran frullo
d’ali. «Madamoiselle Victoire
Weasley… Le ministère française...»
lesse la bambina ad alta voce sul retro della busta. «Ehi, ma
sono loro! E’ arrivata!»
Bill e Fleur
si scambiarono un’occhiata incredula.
«Così prosto?» esclamò Fleur.
«Apriamola» disse Dominique, impaziente.
«No!» gridarono in contemporanea i suoi genitori, e
lei si bloccò con la mano sospesa sulla busta; Louis si
sporse per strappargliela, ma riuscì a gettarle solo
un’occhiata prima che gli venisse a sua volta sottratta.
«Questa è di Victoire e deve aprirla
lei» dichiarò Bill brandendo la busta.
I gemelli si
guardarono. «Vado a chiamarla!» trillò
Dominique, e corse alle scale.
«No, vado io!» esclamò Louis e si
precipitò all’istante dietro di lei.
Salirono le
scale insieme, strillando, spintonandosi e cercando di ostacolarsi a
vicenda, incuranti dei richiami materni che giungevano dal piano di
sotto. Victoire, che aveva appena finito di fare un bagno ed era ancora
avvolta in un telo bianco, si stava giusto chiedendo il motivo di tanto
fracasso (sembrava che una decina di tori infuriati stesse correndo su
per le scale) quando la porta della sua stanza si spalancò
di botto e i suoi due rumorosi fratellini piombarono dentro.
«Ehi, ma che modi sono questi? Che succede?» chiede
stupita, frizionandosi i capelli bagnati con un asciugamano.
«Sapete che per essere due bambini di dieci anni avete dei
polmoni impressionanti?»
Fu subito
sommersa da una marea di grida e frasi sconclusionate, mentre i gemelli
le saltellavano intorno e cercavano di tirarla verso la porta.
«Vic, è arrivata…»
«… proprio adesso! Devi scendere,
subito…»
«… è arrivata,
sul serio!»
«E’ arrivata che cosa?»
sbottò la ragazza, decisamente confusa.
«La lettera dalla Francia!» strillarono in coro
Dominique e Louis.
Victoire
sbiancò e per un istante li guardò ammutolita.
«Cosa… è arrivata? Di
già?».
Lanciò in aria l’asciugamani e si
precipitò al piano di sotto con i gemelli alle calcagna.
Bill e Fleur erano ancora seduti in cucina e fissavano la busta come se
fosse stata una Caccabomba pronta a esplodere da un momento
all’altro. Vic si fermò con una frenata appena
prima di schiantarsi contro la credenza. «E’
arrivata?» ripetè, ansimando.
«E’ questa?»
«Sì, tesoro» esclamò Bill.
«Aprila, coraggio!»
Lei
guardò la busta, ma sembrava che non avesse il coraggio di
toccarla. In quell’istante i gemelli le arrivarono addosso da
dietro a tutta velocità e la spinsero in avanti di qualche
passo.
«Su, aprila, aprila!» strillò Dominique,
saltellando tutta eccitata.
«D’accordo, d’accordo»
mormorò Victoire, tesa. Allungò la mano,
afferrò la busta e l’aprì. Mentre
svolgeva il foglio di pergamena elegantemente piegato in tre parti (e
ci mise un bel po’ di tempo per via delle mani che le
tremavano), aveva la sensazione che i genitori e i fratellini fossero
stati pietrificati, neanche avessero appena visto un Basilisco, gli
occhi fissi sulla lettera. Prese un bel respiro, lesse le prime righe
in silenzio; non ebbe alcuna reazione.
«Alors?» chiese Fleur con voce ansiosa.
Victoire li
guardò e non potè più trattenere il
sorriso. «Mi hanno presa» disse tranquillamente.
Poi fece un saltello sul posto e strillò. «Mi
hanno presa!»
In un lampo
la cucina si riempì di grida, schiamazzi ed esclamazioni di
felicità. Vic passò tra le braccia di tutta la
famiglia e ci vollero parecchi minuti prima che recuperassero la calma,
Fleur la smettesse di correre a stringere sua figlia di continuo, i
gemelli la smettessero di saltare sul divano, e potessero sedersi di
nuovo per continuare la colazione.
«Grande notizia!» esclamò Bill, e si
allungò per accarezzare Louis sulla testa e scompigliargli i
capelli. «Non potevano che scegliere te!»
Così eccitata che le sembrava di non riuscire a stare seduta
e a smettere di sorridere, sentendosi come minimo dieci centimetri
più alta del solito, Victoire infilò in bocca con
entusiasmo una forchettata di macedonia; all’improvviso
provava una gran fame, anche se la mattina in genere mangiava
pochissimo.
«Teddì sarà tonto felisce di
saperlo» intervenne Fleur agitando la bacchetta verso i
piatti sporchi, che si impilarono da soli uno sull’altro e
volarono nel lavandino. «Volio proprio vedere che fascia
farà! Dominique, via i gomiti dal tovolo»
Victoire
sentì il proprio smagliante sorriso congelarsi di colpo, e
la felicità, l’orgoglio, l’entusiamo
sgonfiarsi come un palloncino. Teddy… non ci aveva ancora
pensato. Si sentì subito in colpa: lui era sempre il primo a
cui pensava quando le succedeva qualcosa, bella o brutta che fosse, fin
da bambina; quella volta invece lo aveva inconsciamente messo da parte.
E forse sapeva anche il perché.
****
Casa Tonks, Tinworth.
27 luglio 2018.
Ore 14:00.
Ted Remus
Lupin non aveva mai amato troppo Materializzarsi e Smaterializzarsi. Al
contrario della maggior parte dei ragazzi della sua età, che
gioivano all’idea di poter sparire e riapparire ovunque a
loro piacimento, mal sopportava la sensazione di essere ficcato a forza
dentro un tubo di gomma, l’oppressione che gli schiacciava il
petto e la testa e quasi gli impediva di respirare e di ragionare:
chissà come mai, collegava quelle sensazioni a una serie di
spiacevoli ricordi d’infanzia che non sapeva definire bene, e
a dirla tutta nemmeno ci teneva a definirli.
Ma Ted Remus
Lupin era anche una persona molto pratica, oltre che estremamente
sensibile, e per niente al mondo avrebbe rinunciato ai vantaggi della
Materializzazione: tanto per cominciare, gli consentiva di arrivare a
casa – presso Tinworth, in Cornovaglia - con un vassoio di
deliziosi pasticcini freschi come se non fossero stati appena
acquistati a Londra, in Berkeley Street, ma da un fornaio dietro casa.
Aprì il basso cancello in legno dipinto di verde e percorse
il viale lastricato osservando con affetto la bassa villetta bianca con
le finestre anch’esse dipinte di verde e il tetto fatto di
vecchie tegole. Entrò, e nell’ingresso
posò un momento la confezione di dolci su un tavolino per
sfilarsi il giubbotto e attaccarlo all’appendiabiti.
Dall’interno della casa provenivano un rumore di stoviglie e
un delizioso profumo di carne arrosto.
«Teddy, sei tu?» chiamò una voce
femminile.
Il ragazzo
percorse un corridoio ed entrò nella cucina. Andromeda Tonks
era di spalle, davanti ai fornelli, e armeggiava con una grossa teglia.
Teddy la raggiunse e le scoccò un bacio sulla guancia.
«Ciao, nonna. Sorpresa» disse, e le porse il
pacchetto con un sorriso.
La signora
Tonks osservò per un attimo la confezione con aria severa, i
lineamenti un po’ contratti, poi il suo volto si
aprì in un sorriso incredibilmente dolce e molto
intelligente. «I miei preferiti, eh?». Prese la
scatola e guardò di sbieco suo nipote. «Grazie,
caro, ma… vuoi forse corrompermi e non farmi notare che hai
tardato anche oggi?»
Poteva
passare per un rimprovero, ma Teddy sapeva bene che a volte sua nonna
si divertiva a fingere di essere arrabbiata, e
che dietro quell’apparente durezza nascondeva un cuore tenero
come burro. «Scott ci ha trattenuti mezz’ora in
più per esercitarci con i patroni: voleva essere sicuro che
tutti avessimo afferrato l’essenza
dell’incantesimo».
Andromeda lo
fissò senza parlare, poi corrugò la fronte.
«Ancora Scott? Quell’uomo vi dà il
tormento».
Teddy
sorrise, prendendo una mela dal cestino della frutta e cominciando a
giocarci. «Zio Harry dice che è uno dei migliori
Addestratori¹ mai passati per l’Accademia».
«Sarà, ma sembra che si aspetti che diventiate
tutti Auror dopo solo due anni di studio».
«Magari fossi già un Auror»
borbottò Teddy.
«L’Addestratore Scott ne sarebbe entusiasta,
vero?» fece la signora Tonks con un’occhiata
divertita. Suo nipote ridacchiò e non aggiunse altro.
«Su, a tavola. E’ pronto, e io ho già
aspettato fin troppo».
Mezz’ora dopo avevano terminato di pranzare, Teddy si era
cambiato ed era uscito di casa diretto verso Villa Conchiglia. Non
aveva messo le scarpe, aveva arrotolato un po’ i jeans e si
divertiva a camminare sulla riva, i piedi immersi nell’acqua.
Quando
giunse in vista di Villa Conchiglia trovò Victoire seduta
sul bagnasciuga: era in bikini, seduta su un telo bianco, le braccia
tese all’indietro, i capelli di un biondo chiarissimo che le
svolazzavano intorno mossi dalla brezza marina, lo sguardo celato da un
paio di occhiali da sole fisso su un punto indefinito
all’orizzonte.
Teddy non
riuscì a non sorridere mentre la osservava. Conoscendo
Victoire, di sicuro non aveva idea di essere incredibilmente bella e
dannatamente sexy in quel momento. Lei era fatta così:
capace di incantarti con i gesti e nei momenti più banali,
standosene semplicemente seduta sulla riva, ma incapace di rendersene
conto; raccoglieva complimenti e sguardi ammirati ovunque andasse, ma
sembrava non accorgersi di quanto fosse grande il fascino che
esercitava sugli altri, e la sua ingenuità non faceva che
renderla ancora più accattivante. Per Teddy era una vera
fortuna che Vic fosse praticamente indifferente
all’ammirazione dell’altro sesso, o la continua
lotta con la concorrenza lo avrebbe di sicuro sfinito.
«Scusa il ritardo!» esclamò quando fu
abbastanza vicino da farsi sentire.
Lei si
girò, lo vide e si sfilò subito gli occhiali da
sole, sorridendo. «Scott?» domandò con
l’aria di chi conosce già la risposta.
«E
l’Incanto Patronus» aggiunse Teddy. Sedette sulla
sabbia accanto a lei e si chinò per baciarla dolcemente.
«Ma i corsi sono finiti, ormai. E il tuo patronus
è perfetto» protestò la ragazza quando
si separarono. «Lo spiego io a quello lì se non ci
arriva».
Teddy le
accarezzò piano una guancia, un lampo di malizia negli occhi
scuri. «Non pensi di essere un po’ troppo di
parte?»
«Certo che no».
Quasi per
sfidarla a contraddirsi, Teddy le prese il volto tra le mani e la
baciò ancora, più lentamente, questa volta.
Rimasero con le labbra incollate finchè non ebbero esaurito
la riserva d’aria, poi Victoire si tirò indietro
con aria beata. «Okay, forse un pochino»
esclamò, e scoppiò a ridere.
Gettò indietro la testa, e Teddy osservò
incantato i riflessi del sole tra quei capelli d’oro. Nel suo
sorriso c’era qualcosa di diverso, quel giorno, ne era certo:
era più luminoso. «Ci sono
novità?»
Victoire lo
guardò. «Perché me lo
chiedi?». Si sistemò una ciocca dietro
l’orecchio, sembrando un po’ a disagio.
«Non so… Mi sembri più allegra del
solito».
L’espressione di Vic divenne irresistibilmente compiaciuta.
«Be’, in effetti ho una notizia».
«Ah sì? Spara». Teddy la
osservò mentre lei faceva un respiro profondo, e gli parve
di scorgere un velo di ansia in fondo ai suoi occhi color lapislazzuli.
«Ricordi che la scorsa primavera mi sono messa in lista per
quello stage organizzato dal Ministero francese? Ecco…
stamattina è arrivata la risposta: mi hanno presa. Vado a
Parigi».
La voce, il
volto, lo sguardo di Victoire erano uno strano miscuglio di gioia e
incertezza. A Teddy parve che quelle stesse sensazioni si riversassero
dentro di lui, le sentì sbocciare sul proprio volto: uno
slancio di emozione, ma stemperato da qualcos’altro. La
fissò per un istante. «Parigi?»
sussurrò. Vic annuì, e davanti a quel
meraviglioso sorriso non riuscì a trattenersi dal
ricambiarlo. «Parigi» ripetè.
D’istinto la prese tra le braccia e la strinse a
sé. «Vic, è fantastico. Fantastico.
Sono felice per te».
La ragazza
gli passò una mano tra i capelli con dolcezza.
«Sul serio?» chiese, titubante.
«Certo. Era quello che volevi, giusto?»
«Sì, io… lo volevo veramente
tanto» mormorò Victoire. La sentì
emettere un piccolo sospiro e rilassarsi contro di lui.
«Mamma e papà sono felicissimi… i
gemelli hanno fatto tanto di quel chiasso da farsi sentire fino a
Tinworth, ne sono sicura! Mi meraviglio che tua nonna non sia venuta a
vedere cos’era successo! Avresti dovuto esserci, è
stata una scena allucinante».
«Immagino» commentò Teddy sottovoce.
Premette il viso sulla spalla nuda e morbida di lei e ne
aspirò il profumo di salsedine. «Sapevo che ti
avrebbero presa, sei stata la studentessa migliore del tuo
anno».
Rimasero in
silenzio per qualche secondo. «Teddy» lo
chiamò Victoire all’improvviso con voce bassa.
«Mm?»
«Davvero sei felice?»
«Sì» ripose il giovane, ed era la
verità: amava quella ragazza, la sua gioia non poteva che
essere anche la sua. Ma allo stesso tempo sentiva
qualcosa farsi strada dentro di sé, qualcosa di strisciante
e sgradevole, qualcosa di orrendamente familiare: la paura. Quella
paura. Respirò profondamente, cercando di reprimerla.
«Perché me lo chiedi?»
«Niente, è solo che… mi sembri un
po’…» balbettò Vic, esitante.
Tacque per un attimo. «Teddy, non cambierà niente,
te lo giuro».
Lui sciolse
l’abbraccio che li legava e la guardò.
«Non capisco».
«So a cosa stai pensando perché ci ho pensato
anch’io, ma non voglio che tu ti preoccupi da questo punto di
vista. Non voglio che pensi che dovremo cambiare qualcosa».
Teddy
spostò lo sguardo verso il mare, luccicante sotto il sole
come se tantissimi piccoli diamanti galleggiassero in superficie.
«Questo è impossibile» disse con voce
bassa e tranquilla; suonò più amara di quanto
avrebbe voluto.
«Perché?» chiese Victoire con cautela,
ancora vagamente preoccupata.
«Ti trasferisci in un altro paese per un anno, certo che
dovremo cambiare qualcosa. Ma non è un problema».
Il giovane le sorrise, cercando di rassicurarla.
«Be’, non potremo vederci tutti i giorni, forse, ma
tornerò sempre a casa per le feste… Sono sicura
che al Ministero non faranno problemi a crearmi una Passaporta quando
ne avrò bisogno… E possiamo sempre
Materializzarci e Smaterializzarci, anche se non ti piace
tanto».
Teddy
sospirò pesantemente e non riuscì a trattenere un
moto di fastidio. «Vic, perché stai parlando di
queste cose, adesso? Non saremo né i
primi né gli ultimi ad affrontare una situazione del genere,
giusto? Ce la caveremo, vedrai». Le prese una mano e la
strinse nella sua. Si rendeva conto che forse non voleva solo
rassicurare lei ma anche sé stesso; e si rendeva conto che
la cosa era palese per entrambi. Fin troppo palese.
Ci fu una
breve pausa. «Quindi non sei preoccupato?» riprese
Victoire.
Teddy
percepì un lieve scetticismo. «No»
rispose e si augurò di sembrare convincente.
«Nemmeno un po’?»
«Vic, ti dico di no».
«Non ci sarebbe niente di male se lo fossi. Le debolezze sono
umane, e tu non sei più debole degli altri solo
perché…». Victoire aveva parlato di
getto, senza riflettere, ma poi sentì la mano di Teddy
irrigidirsi di colpo mentre ancora stringeva la sua; non
terminò la frase,e abbassò la testa, dispiaciuta.
«Scusami» mormorò.
«Perché mi chiedi scusa?»
domandò Teddy con tono piatto. Sentì la
cosa dentro di lui artigliargli la gola e deglutì
per scacciare quella spiacevole sensazione; non ebbe molto successo.
Non ne aveva mai avuto, d’altronde, nel fronteggiare quella
paura: non era mai riuscito a vincerla davvero, ma solo a sopportarla
finchè qualcosa o qualcuno non arrivava a dargli una mano; e
una piccola parte di sé sapeva che sarebbe stato
così per sempre.
«Non volevo ferirti».
Il ragazzo
strinse la mano intorno a quella di Vic con più forza per
farle capire che non ce l’aveva con lei. Ce l’aveva
con sé stesso, forse. E con quella dannata cosa che gli
serrava la gola. «Non l’hai fatto, Vic, tranquilla.
Però non roviniamo questo bel momento mettendoci a
discutere».
«Io… non volevo discutere, è solo
che… Per me questo stage è importante,
è vero, ma lo sei anche tu, e volevo che ne parlassimo
insieme prima di…». Ancora una volta, Victoire non
finì la frase e tacque con l’aria di chi non sa
come continuare.
Teddy si
voltò a fissarla di scatto, la fronte contratta.
«Prima di decidere?» terminò al posto
suo. Lei non rispose, e Teddy prese quel silenzio come una conferma.
Per un istante ammutolì, incredulo. «Stai
scherzando… pensavi che io ti chiedessi di
rinunciare?»
«No, ma…»
«Perché mai dovrei chiedertelo? So quanto lo
desideravi» insistè il ragazzo, lasciandole la
mano.
«Teddy, non intendevo dire questo!»
esclamò Victoire, agitata.
«E
cosa, allora?»
«Che se tu avessi avuto… qualche obiezione da fare
io ti avrei ascoltato e poi avremmo trovato insieme la
soluzione!»
«Be’, io non ho obiezioni, okay?»
sbottò Teddy, e un istante dopo si maledisse per essere
stato così brusco, ma quella conversazione aveva preso una
piega che lo innervosiva parecchio. Cercò nuovamente di
deglutire per scacciare la stretta alla gola. Andiamo, non
sei più un bambino di sei anni. Resisti. Controllati.
«Okay, okay» ripose Vic precipitosamente,
preoccupata dal tono del suo ragazzo. Puntò lo sguardo
davanti a sé, e per un po’ sembrò che
volesse cominciare una nuova conversazione che non includesse nella
maniera più assoluta le parole “stage”,
“Ministero francese” e
“Parigi”, ma evidentemente non trovò
nulla da dire perché scese un imbarazzante silenzio.
Evitavano persino di guardarsi. Non c’era niente che loro due
detestassero come litigare, anche se a malapena succedeva un paio di
volte in un anno, e più che litigi si trattava di scambi di
opinione appena un po’ più animati del solito.
Probabilmente detenevano il primato per il minor numero di litigi di
coppia della storia.
A un certo
punto, tuttavia, Teddy non ce la fece più. Si
chiarì la voce. «Devo andare».
Victoire lo
guardò. «Così presto?»
«Ho promesso a zia Ginny che nel pomeriggio sarei passato
alla Tana per dare una mano per la festa».
Lei
annuì. «Va bene» mormorò.
Mancavano
solo tre giorni al 31 luglio e i preparativi per i festeggiamenti
stavano per entrare nella fase più frenetica: in quanto compleanno
dello zio Harry, era un evento che coinvolgeva tutta
la famiglia; in quanto compleanno
del Salvatore, era un evento che coinvolgeva tutto
il mondo magico, con gran disappunto del Salvatore stesso,
che da trent’anni tentava di passare inosservato senza
riuscirci, e il suo compleanno era una delle occasioni in cui ci
riusciva di meno.
«Vieni anche tu?» propose Teddy con tono leggero.
«Non posso, vado con i miei a fare un po’ di
acquisti a Diagon Alley» rispose Vic. Sembrava un
po’ incerta. «Ti va di unirti a noi quando avrai
finito alla Tana?»
«Non credo che finirò tanto presto, ci sono ancora
un sacco di cose da fare». In realtà Teddy non
sapeva con esattezza a che punto fossero i preparativi, ma sapeva che
non gli andava di fare spese con Vic e la sua famiglia, sapeva di
sentirsi confuso e che forse un po’ di solitudine lo avrebbe
aiutato a schiarirsi le idee.
La ragazza
dovette intuirlo perché non insistè.
«Oh. Capisco. Allora…».
«Allora… ehm, noi due ci… vediamo
presto?» balbettò Teddy.
«Sì. Appena possibile». Victoire lo
guardava con occhi ansiosi, poi lentamente gli rivolse un piccolo
sorriso. «Ciao, Teddy».
Lui si
chinò per baciarla velocemente sulla bocca. «Ciao,
Vic» sussurrò.
Si
alzò, spazzò via un po’ di sabbia dai
jeans e si incamminò lungo la riva, sentendosi gli occhi di
lei che lo seguivano e chiedendosi se fosse arrabbiata visto che aveva
praticamente rovinato un giorno così speciale.
Be’, aveva provato a fingere che tutto andasse bene, a
fingere di essere felice per lei e basta, a fingere di non sentire
nulla in fondo allo stomaco, ma non era mai stato bravo a dire bugie e
a nascondere i propri sentimenti. Tendeva per carattere a chiudersi in
sé stesso, a non raccontare in giro cosa provava,
soprattutto quando era triste, ma sapeva che qualunque cosa gli
passasse per la testa la portava scritta in faccia.
Forse
avrebbe dovuto parlare ancora con Victoire, spiegarsi, farle capire
cosa aveva provato nell’apprendere che se ne sarebbe
andata… Combattuto tra il bisogno di stare da solo e il
desiderio di averla accanto, si voltò d’impulso a
guardarla, ma non la vide seduta a riva, dove l’aveva
lasciata. Non c’era nessuno, solo il telo bianco abbandonato
sulla sabbia insieme agli occhiali da sole. Il suo cuore fece un balzo
e sentì un’altra ondata di gelido e irrazionale
panico investirlo in pieno. Poi Vic ricomparve:
all’improvviso emerse dalle onde cristalline del mare,
inspirando una boccata d’aria mentre con le mani si scostava
i capelli bagnati dal viso e li portava dietro la testa con gesto
delicato ed elegante. Teddy provò un istantaneo sollievo e
per qualche secondo rimase ad osservarla, affascinato. Vic mosse
qualche passo lento nell’acqua, poi prese lo slancio e si
tuffò di nuovo sollevando spruzzi dappertutto.
Teddy si
riscosse e quasi rise di sé stesso, passandosi una mano
sulla faccia. Perderai la testa, prima o poi, Ted Lupin,
si disse. Si voltò e riprese a camminare, accigliato, le
mani sprofondate nelle tasche. Quando arrivò a casa
trovò la signora Tonks seduta in veranda, immersa nella
lettura del Settimanale delle Streghe,
probabilmente a caccia di nuove ricette da provare.
«Ciao, nonna» la salutò con voce cupa
salendo le scale della veranda.
La signora
smise di leggere, lo guardò, esaminò la sua
espressione tirata e spalancò la bocca. «Santo
cielo» sbottò. «Che ti è
successo, ragazzo?»
«Niente» borbottò Teddy. Sapeva di avere
scarsissime possibilità di farla franca con sua nonna, ma
tanto valeva provarci.
«Ma ti sei visto in faccia?» proseguì
Andromeda, imperterrita.
Appunto.
Teddy si toccò una guancia, allarmato.
«Perché, cos’ha la mia faccia?»
«Sembra che ti abbia investito in pieno il
Nottetempo».
Il giovane
fece una specie di smorfia che poteva passare per un sorriso e
sospirò. «Ah, sì? Ehm…
più o meno è quello che è
successo».
“In bilico
tra santi e falsi dei
sorretto da
un’insensata voglia
di equilibrio
e resto qui
sul filo di un rasoio
ad asciugar parole
che oggi ho steso
e mai dirò”
Estate, Negramaro²
****
Londra, Ministero della Magia,
Quartier Generale degli Auror.
31 luglio 2018.
Ore 15:30.
Teddy se ne
stava appoggiato alla scrivania di un cubicolo a lui ben noto, forse il
più disordinato dell’intero Quartier Generale.
Sulla scrivania, così ingombra di oggetti che a stento si
riusciva a individuarla, stazionavano tre fotografie: una raffigurava
un folto gruppo di persone dai capelli rossi intente a ridere e a
salutare, un’altra una giovane coppia abbracciata e
l’ultima due bambini, un maschio e una femmina, che si
accapigliavano allegramente. Molte altre fotografie simili erano
attaccate sui muri, tra frammenti di giornali, due poster dei Cannoni
di Chudley, figurine delle Cioccorane e pergamene sbiadite dal tempo;
tra le foto appese spiccava quella di un terzetto di ragazzi a
braccetto, sullo sfondo un castello parzialmente in rovina.
Il ragazzo
ammazzava il tempo lanciando e riacciuffando al volo un Frisbee Zannuto
color verde acido, e sembrava profondamente annoiato. A un tratto
sentì un rumore di passi, sollevò la testa e vide
il padrino camminare lungo il corridoio tra i pannelli divisori, la
bacchetta infilata dietro l’orecchio, una grossa scatola
piena di scartoffie tra le braccia e l’aria affaticata.
Quando fu abbastanza vicino Harry lo notò e gli rivolse un
gran sorriso.
«Teddy, ciao!»
«Ciao, Harry» rispose, raddrizzandosi e accennando
anch’egli un sorriso.
«Tutto bene? Che fai qui? Pensavo fossi alla Tana».
«Sono stato mandato con il compito di trattenerti in ufficio almeno
fino alle cinque» spiegò Teddy, divertito.
«Trattenermi? E perché?»
«Non vorrai arrivare alla tua festa di compleanno prima che
sia tutto pronto, giusto?»
Harry
sembrava sbalordito. «Ma sono stato alla Tana stamattina ed
era tutto sistemato, cosa…».
S’interruppe e sul suo volto comparve
un’espressione strana. «No, non me lo dire: James
ha rovesciato di nuovo la torta».
Teddy
ridacchiò. «Con la collaborazione di
Fred» aggiunse.
Il padrino
alzò gli occhi al cielo, a metà fra la
disperazione e la rassegnazione. «Merlino, quei due sono
l’equivalente di un terremoto, un maremoto e un uragano tutti
insieme» sbottò. «Giuro che non so
più che fare per tenerlo a bada, è peggio di un
folletto della Cornovaglia! Non ti ho detto che l’altro
giorno ha svegliato sua sorella con un… va
be’». Gli sfuggì un sospiro e si
affacciò nel cubicolo. «Hai visto Ron?»
«No, e non credo che potrà tornare al lavoro,
oggi: zia Ginny lo ha mandato a comprare l’occorrente per
un’altra torta. Ah, e gli ha detto di portarsi dietro James,
altrimenti lei non sarebbe stata responsabile delle sue
azioni».
«Fantastico» rispose Harry con tono funereo.
«Ho solo cinque Auror che non siano ancora andati in ferie, e
uno è bloccato a casa dalle intemperanze di mio
figlio». Sbuffò e si risistemò la
scatola tra le braccia. «Andiamo nel mio studio, vieni. Se
proprio ci tocca passare il pomeriggio qui, almeno mettiamoci
comodi».
Teddy
afferrò il Frisbee che stava per schizzare contro il
pannello divisorio di fronte per l’ennesima volta e
seguì il padrino fuori. Harry raggiunse una porta nera alla
fine del corridoio, sulla quale una targa recitava “Capo
dell’Ufficio Auror”, appoggiò un momento
la scatola su un ginocchio per prendere la bacchetta e colpire una
volta la maniglia; la porta si spalancò su una stanza di
medie dimensioni, anche se il caos che vi regnava contribuiva a farla
sembrare più piccola di quanto in realtà non
fosse; alle spalle della scrivania stracarica una finestra mostrava il
cielo di un azzurro sporco. Mentre Teddy richiudeva la porta, Harry
posò la scatola su una sedia girevole dietro la scrivania,
ne trasse fuori un fascicolo di documenti e vi gettò
un’occhiata distratta.
«Allora, come sono andati gli ultimi giorni di
corsi?»
Teddy
scrollò le spalle. «Non male».
«Scott vi ha dato un po’ di tregua?»
«No, per niente: ha detto che a settembre ci
scaglierà addosso delle maledizioni senza preavviso per
verificare se ci siamo esercitati durante le vacanze».
Harry rise
di cuore. «Davvero? Accidenti, se non avessi la certezza che
sa quello che fa direi che sta esagerando… Ma tu non hai
niente di cui preoccuparti, schivi maledizioni meglio di un Auror
diplomato; tu sei fatto per questo mestiere».
Teddy non
commentò, impegnato a giocherellare con il Frisbee che
stringeva in mano. Harry lo fissò con espressione un
po’ confusa. Lanciò il fascicolo di nuovo nella
scatola. «Di questa roba posso anche occuparmi domani. Forza,
parliamo un po’». Con la mano tolse di mezzo un
mucchio di buste da lettera chiuse, una grossa confezione di Gelatine
Tuttigusti+1 e qualche pergamena accartocciata e sedette sulla
scrivania. Il ragazzo esitò un attimo, poi lo raggiunse.
«Allora…» cominciò Harry
«va tutto bene?»
«Certo» rispose Teddy meccanicamente, ostentando la
massima tranquillità. Erano tre giorni che si sentiva
rivolgere quella stessa domanda da chiunque gli capitasse a tiro, e
ormai credeva di essere sufficientemente allenato da non destare
sospetti.
Harry
annuì lentamente. «D’accordo.
Cos’è questa faccia da funerale, allora?»
Teddy si
preparò a resistere. Non avrebbe ceduto così
presto: far finta di niente era la sua parola
d’ordine. «Be’, oggi è una
brutta giornata…»
«Veramente anche ieri era così; e
l’altro ieri…» lo interruppe il padrino.
Il giovane non seppe cosa rispondere e rimase zitto con
un’espressione abbattuta che annullava qualunque suo
precedente tentativo di sembrare normale. Harry riprese a parlare
lentamente. «Teddy, non devi tenerti tutto dentro:
è sbagliato e non ti fa bene, lo sai. Con me puoi parlare.
Non c’è niente di male ad ammettere con le persone
che ti vogliono bene di avere un problema».
«Lo so» rispose Teddy bruscamente.
«Allora ti va di dirmi cosa
c’è?»
Il ragazzo
si limitò a guardarlo, incerto. Tre giorni di forzata
solitudine, malumore e pensieri poco allegri non erano stati di grande
utilità… Forse parlare non era una cattiva idea.
Tentar
non nuoce.
«Ehm… si tratta di Vic»
balbettò, arrossendo un poco. Raccontò al padrino
cos’era successo, senza soffermarsi troppo sui dettagli;
d’altra parte Harry già sapeva che Victoire
sarebbe andata a Parigi, Fleur era così entusiasta che la
notizia era circolata con rapidità sorprendente anche per
gli standard della famiglia Weasley-Potter. «… e
poi sono andato via. Ci siamo lasciati così, insomma, e non
ci siamo più visti né sentiti». Fece
una breve pausa, durante la quale anche Harry assunse
un’espressione sconvolta: tre giorni di silenzio erano un
autentico record per lui e Vic.
«Capisco» fece Harry lentamente. «Ma non
avete litigato, giusto?»
«No… abbiamo discusso, ecco».
«Perché non l’hai cercata, dopo? Mi
sembra assurdo tu e Vic che vi tenete il broncio».
Teddy teneva
gli occhi bassi. «Non sto tenendo il broncio, io…
non credo che abbia voglia di parlare con me, adesso».
«Perché no?»
Il ragazzo
gli lanciò un’occhiata sorpresa. «Era un
giorno speciale per lei ed io l’ho rovinato».
Harry
accennò un sorriso comprensivo. «Non
l’hai rovinato, ne sono sicuro. Anzi, credo che tu abbia
sbagliato ad andare via: dovevi restare e dirle quello che
provi».
«Ma come facevo a dirle…» Teddy tacque
all’improvviso e parve spaventato dal pensiero che stava per
formulare.
Harry
esitò un minuto, incerto; non voleva ferire il figlioccio,
ma il silenzio sarebbe stato molto peggio. «Teddy,
Teddy…» fece un sospiro pesante e si
aggiustò gli occhiali sul naso, poi incrociò le
braccia. «Ricordi che da bambino avevi paura del buio e
quando tua nonna spegneva la luce per farti dormire la riaccendevi da
solo, con la magia? Non volevi che lei lo scoprisse, ma tutte le
mattine ti trovava addormentato con la lampada accesa e
all’inizio temeva di avere un poltergeist in casa».
«A
quanto pare sono rimasto quel bambino, allora»
mormorò Teddy.
Harry lo
guardò: il suo volto e la sua voce sembravano oppressi dal
dolore. Sentì una stretta al cuore. Non sopportava di vedere
quell’espressione sul viso di Teddy perché sapeva
che era associata a un pensiero ben preciso: i suoi genitori; per
lui, invece, significa un fiotto di bruciante senso di
colpa. «No, non sei rimasto quel bambino» rispose
dolcemente. «Ma ci sono paure, dentro di noi, che non se ne
vanno mai, e ci fanno soffrire, a meno che non riusciamo a…
essere più forti di loro».
«Vuoi dire che avrò… il terrore di
perdere le persone che amo per tutta la vita?» chiese Teddy.
Sembrò che parlare gli costasse uno sforzo immenso.
«Ma tu puoi essere più forte, Teddy»
ripetè il padrino con convinzione. «Io ho provato
la stessa cosa per anni, e la provo ancora». Strinse le
labbra, il suo sguardo si perse in un punto impreciso. Teddy era
sorpreso di sentire quelle parole: Harry non era mai stato molto
incline a condividere con lui i momenti più bui della sua
adolescenza, e in particolare le varie perdite che l’avevano
segnata. «Perdere qualcuno a cui tieni ti lascia dentro un
segno, come un ferita; e anche se con il tempo la ferita guarisce e si
rimargina, hai sempre paura che prima o poi si riapra e ricominci a
sanguinare. Credo che non mi abbandonerà mai, questa
sensazione. E’ normale, ma con il tempo ho imparato ad
affrontarla e a gestirla. Ci riuscirai anche tu. E’ solo
questione di tempo, e… e poi bisogna volerlo,
ovvio».
«Io lo voglio» disse Teddy, confuso.
«Allora dovresti permettere a Vic di aiutarti». Il
ragazzo sollevò gli occhi e si accorse che Harry lo guardava
sorridendo affettuosamente.
«Ma lo sa» disse. «Lei sa
tutto».
Sì, Vic sapeva tutto di lui, pensieri, paure, ossessioni,
incubi, desideri, e non certo perché Teddy fosse molto
incline a roccantare tutto di sé, anzi; ma lo conosceva da
una vita e lo amava da impazzire: impossibile pensare di nasconderle
qualcosa. Anche mentre parlavano sulla spiaggia aveva colto la
comprensione nel suo sguardo… Ecco perché aveva
sentito improvvisamente il bisogno di allontanarsi da lei e di stare un
po’ da solo, perché non ne poteva più
di suscitare la compassione altrui, nemmeno e soprattutto
quella della donna che amava. Probabilmente neanche le
persone che lo avevano cresciuto, sua nonna e zio Harry, potevano dire
di conoscerlo così bene. Ma Teddy non si apriva mai troppo
con gli altri, nemmeno con Vic; amava condividere la gioia, la
tristezza preferiva tenerla per sé.
«Certo» assentì Harry. «Questa
non è una buona scusa per non dover dire ad alta voce quello
che ti spaventa, però».
Teddy
riflettè in silenzio per qualche secondo. Prima che uno di
loro potesse aggiungere altro, il Frisbee Zannuto sfuggì
dalla presa del ragazzo, schizzò roteando attraverso la
stanza, si scontrò con la parete e cominciò a
sbriciolare un vecchio articolo di giornale attaccato con il
Magiscotch; Harry corse ad acciuffare il Frisbee, lo strappò
dalla parete e con qualche difficoltà riuscì a
ficcarlo in un cassetto.
«Mi dispiace» esclamò Teddy mortificato.
Puntò la bacchetta contro l’articolo ridotto a
brandelli, ma Harry lo fermò.
«No, non preoccuparti, non ne vale la pena… era
vecchio di dieci anni, più o meno. Che ci facevi con quel
coso, comunque? Non è da te giocare con un Frisbee Zannuto
nel mezzo del Quartier Generale».
«Era sulla scrivania di zio Ron» rispose il ragazzo
con un sorrisetto.
Harry parve
imbarazzato. «Ah, sì. Ora ricordo che ne aveva
sequestrato uno a un allievo qualche settimana fa, in effetti, e
poi…» fece un sospiro e lanciò
un’occhiata al figlioccio. «Non fartelo scappare,
okay? Soprattutto con Hermione: ce l’ha ancora con Ron per
quella storia del fuoco d’artificio che ha incendiato il
divano».
“In bilico
tra tutti i miei vorrei
non sento più
quell’insensata voglia
di equilibrio
che mi lascia qui
sul filo di un rasoio
a disegnar
capriole
che a mezz’aria
mai farò”
****
Casa Tonks, Tinworth.
31 luglio 2018.
Ore 19:30.
«Teddy, faremo tardi se non ci muoviamo».
Andromeda
Tonks irruppe nella stanza di suo nipote con un cesto pieno di
biancheria pulita.
«Ma è presto, nonna» protestò
Teddy; era in piedi davanti allo specchio, impegnato a raccogliere le
idee per decidere cosa dire a Victoire, e come
dirglielo.
Andromeda
posò il cesto sul letto, colpì con la bacchetta
una pila di panni piegati e quelli si sollevarono per andare a
infilarsi ordinatamente in un cassetto e nell’armadio.
«Be’, se hai in programma di fare qualcosa prima
della festa sarebbe meglio se ti sbrigassi».
Il ragazzo
la guardò a bocca aperta. Non era affatto la prima volta che
sua nonna gli dava l’impressione di sapergli leggere nel
pensiero senza saper praticare la Legilimanzia… O forse
aveva semplicemente associato la sua aria depressa e scontrosa al fatto
che da tre giorni Vic non si faceva vedere a casa loro e lui si teneva
alla larga da Villa Conchiglia. A ogni buon conto, meglio informarsi.
«Hai parlato con Harry, oggi?» sbottò.
«Harry? Non lo vedo da giorni» rispose la signora
distrattamente. Riprese il cesto tra le braccia e uscì in
fretta. Teddy la seguì con lo sguardo, meditabondo. In
effetti aveva proprio pensato di fare un salto a Villa Conchiglia prima
di andare alla Tana: sapeva per esperienza personale che le feste del
clan Potter-Weasley erano così affollate, rumorose e
incasinate da non permettere lo svolgersi di una conversazione normale,
e preferiva chiarire con la sua ragazza prima di trovarsi a tiro delle
prese in giro dei cuginetti e delle occhiate inquisitorie delle zie.
Contrasse un
momento la fronte, come se avesse avuto mal di testa, e i suoi capelli
passarono dal viola scuro che aveva sperimentato poco prima a un
morbido castano, il colore che preferiva portare nei momenti neutri.
Uscì dalla camera e si affacciò in quella
accanto, dove la signora Tonks era ancora impegnata con il bucato.
«Nonna, vado a Villa Conchiglia. Ti raggiungo più
tardi alla Tana».
Andromeda
gli rivolse un sorriso furbo. «Era ora»
esclamò.
Teddy
ridacchiò. «Lo so. A dopo».
Prima di
uscire si liberò di calze e scarpe e si incamminò
con i piedi nell’acqua, come al solito. Era circa a
metà strada, perso nei propri pensieri, quando colse in
lontananza un baluginio di capelli biondi; con un tuffo al cuore
capì che una ragazza alta e snella veniva verso di lui,
indosso un abito bianco che svolazzava mosso dal vento. Non sembrava
che Victoire lo avesse visto, anch’ella immersa nelle proprie
riflessioni. Teddy si fermò, incredulo. Non
è possibile, si disse. Per ragioni a lui
sconosciute, all’improvviso sentiva una gran voglia di ridere.
Finalmente
Vic sollevò lo sguardo, si accorse di lui e un sorriso
ampio, spontaneo, divertito, si disegnò sul suo volto. Smise
di camminare e rimasero entrambi a fissarsi, immobili e sorridenti, per
lunghi secondi. Poi Teddy ripartì, più in fretta,
questa volta, e la ragazza lo imitò; quando si incontrarono,
la prese per le spalle, attirandola a sé, e la
baciò. Le loro labbra si toccarono solo per qualche istante,
ma a Teddy parve che gli si schiarisse la mente: fu come se un vento
delicato ma deciso spazzasse via le nubi che avevano offuscato i suoi
pensieri. Appoggiò la fronte contro quella di Vic e
sospirò profondamente.
«Scusa» mormorò.
Lei gli
passò le braccia intorno al torace. «Ti scusi per questo?
Sei pazzo? A me non è dispiaciuto per niente».
Teddy rise.
«Non per questo, ma… per
quello che ho combinato. Io… stavo venendo da te proprio per
dirtelo. E per dirti che mi manchi, anche».
«Io stavo venendo a dirti la stessa cosa» rispose
Vic, e scoppiò a ridere di fronte alla faccia stupita del
suo ragazzo.
«Cioè vuoi dire… vuoi dire che stavamo
andando l’uno dall’altra con le stesse
intenzioni?» esclamò Teddy.
Victoire
scuoteva la testa e i suoi lunghi capelli color oro colato ondeggiarono
sulle sue spalle, catturando i riflessi aranciati del sole al tramonto.
«Sembra un romanzo rosa della peggior specie… Se
James verrà a saperlo ci prenderà in giro fino
alla fine dei tempi!»
«Ecco, allora… facciamo in modo che non lo
sappia» borbottò il ragazzo, ma non smetteva di
sorridere. Fece una pausa, gli occhi fissi in quelli di lei.
«Mi dispiace» dichiarò con voce bassa ma
decisa. «Mi dispiace di non essere stato felice come avrei
dovuto quando mi hai dato la notizia. Io… io non voglio
perderti».
Finalmente
l’aveva detto! Si sentì all’istante
molto più leggero. Vic gli accarezzò il profilo
del viso con la punta delle dita.
«Nemmeno io. Ma non succederà, Teddy, non
succederà. Devi avere fiducia in noi».
Teddy le
prese la mano e gliela strinse forte. «Lo so. Adesso
lo so. Anzi, forse l’ho sempre saputo, anche tre giorni fa,
ma a volte ho una paura tale che credo possa schiacciarmi, e non riesco
più a ragionare con chiarezza, e…»
«Teddy» lo interruppe la ragazza con un sussurro;
sembrava triste ma determinata, come se credesse profondamente in
ciò che stava per dire. «Niente potrà
mai schiacciarti se siamo in due. E noi siamo sempre
in due. La lontananza non c’entra niente. Io sono
qui» passò la mano sul petto di Teddy
all’altezza del cuore, poi vi appoggiò la guancia.
Lui la
circondò con le braccia e restarono a lungo immobili,
stretti l’uno all’altra, ascoltando il rumore delle
onde che giungevano a riva, contro le loro caviglie, e le grida dei
gabbiani, assaporando il piacere di ritrovarsi.
Fu Vic a
rompere il silenzio. «Sai, in questi giorni…
pensavo a noi due, e mi è venuta in mente una
cosa».
«Cosa?» domandò Teddy; si sentiva
benissimo, sereno e in pace col mondo.
Lei si
tirò un po’ indietro per guardarlo. «Mi
sono accorta che la nostra storia… ruota da sempre intorno
alle estati».
«Sul serio?»
«Il nostro primo bacio, quando eravamo ragazzini…
Il giorno in cui ci siamo messi insieme… La prima volta che
ci siamo detti “ti amo”… La prima volta
che sei venuto in Francia con la mia famiglia… E’
successo sempre tutto in estate».
Teddy ci
pensò su, ricordando quei momenti. «Hai
ragione». Fece un sorriso divertito. «A quanto pare
la… brezza estiva ha un effetto potente su di noi».
Vic
alzò le spalle. «Sì,
dev’essere così… E questa volta allora
cosa ci porterà, la brezza estiva?»
«Cosa ci porterà? Abbiamo quasi litigato, non ti
basta?» esclamò Teddy, ridendo.
«Io intendevo qualcosa di bello. Anche questa
estate deve essere speciale».
«Sono d’accordo» rispose il ragazzo.
«Hai qualche idea?»
«Non so… però direi che stasera abbiamo
tutto il tempo per penserci». Vic si avvicinò di
nuovo a lui fino a trovarsi a un centimetro dalla sua bocca. Senza
sapere bene il motivo, Teddy si sentì rimescolare dentro.
«I miei sono già andati alla Tana con i
gemelli».
«Anche mia nonna» rispose lui, e la sua voce
suonò stranamente roca. Perché diavolo gli usciva
in quel modo? Sembrava che avesse mandato giù un bel
bicchierone di Solvente Magico di Nonna Acetonella per Ogni Tipo di
Sporcizia.
«Oh» fece Vic per tutta risposta; era arrossita
improvvisamente. «Allora…
ehm…»
Prima che
potesse balbettare qualcos’altro lui le chiuse la bocca con
un bacio, e poi… si ritrovarono avvinghiati, così
stretti che per riuscire a scollarsi ci avrebbero messo un bel
po’; Vic era talmente vicina che Teddy poteva sentire tutto
il suo corpo contro il proprio, la sua pelle contro la propria, il suo
fiato caldo sul collo, i suoi capelli sul viso, sugli occhi, sulla
bocca, dappertutto… Vic era
dappertutto… Vic, raggi del sole al tramonto, vento caldo,
profumo di mare… non riusciva a pensare ad altro. Caddero
rotolando sulla sabbia, ma a un tratto Teddy si disse che uno dei due doveva
recuperare un briciolo di controllo; con uno sforzo che gli parve
immenso la sua coscienza si fece strada attraverso la marea di
sensazioni che lo travolgeva.
«Vic» mormorò «Vic».
La ragazza,
stesa sotto di lui, aprì gli occhi, e in fondo a quel blu
mozzafiato Teddy scorse il calore di un fuoco bruciante; si rese conto
che era vicinissimo a buttare di nuovo all’aria quel granello
di padronanza di sé che aveva raccattato da qualche parte.
«Tu vuoi… cioè, sei
sicura…»
Una mano di
Victoire salì ad accarezzargli i capelli, le dita si
intrecciarono a una ciocca delicatamente ma con decisione. Sorrise.
«Teddy… è la brezza
dell’estate» sussurrò con tono
malizioso. «Lasciamola fare».
Teddy stava
ancora ridendo quando si chinò di nuovo su di lei per
baciarla.
“Non senti che
tremo mentre canto
nascondo
questa stupida allegria
quando mi guardi
non senti che
tremo mentre canto
è il segno
di un’estate che
vorrei potesse non finire
mai”
Note:
1 - Ho immaginato che gli Auror in servizio non possano occuparsi anche
dell’addestramento delle nuove reclute, dunque gli allievi
sono affidati agli Addestratori, i quali hanno comunque frequentato
l’Accademia e poi evidentemente hanno deciso di rimanere a
insegnare lì.
2 - Ecco
il link della canzone.
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