C'era
silenzio.
Non
un silenzio mistico, nemmeno il silenzio tombale che forse avrebbe
dovuto accompagnare un momento come quello; soltanto il normale
silenzio notturno di Londra, fatto in realtà di
incalcolabili
piccoli rumori lontani: rombi di motori, cigolii di porte, sbattere
di finestre, clangore di imposte alzate o abbassate e forse qualche
voce. In realtà non lo sapeva esattamente, perché
non aveva
ascoltato. Era lì seduto nel vicolo da ore, ma non aveva
ascoltato
nulla. Rimaneva fermo, accoccolato per terra sul marciapiedi, coi
piedi abbandonati nel canaletto di scolo, in mezzo alla sporcizia, un
lembo di mantello che galleggiava nell'acquetta lercia ribollita
fuori da un tombino un po' otturato. Restava seduto lì,
immobile, al
punto che nemmeno i suoi occhi si muovevano, le iridi rimaneva per lo
più fisse in avanti, vacue, assenti.
Non
stava ascoltando il finto silenzio di Londra e non stava pensando a
niente, si limitava a lasciarsi respirare piano come per permettere
al suo corpo, ai suoi polmoni, al suo stomaco, alle sue mani e alla
sua bocca di incassare il colpo, che però difficilmente
poteva
essere assorbito. Di arrivare anche ad affrontarlo con la mente era
fuori discussione, tutte le sensazioni rimanevano ancora ad un
livello strettamente fisico – le mani che tremavano, gli
occhi
spalancati, gli zigomi e tutto il viso tesi allo spasmo, i polmoni
che non pompavano l'aria, lo stomaco stretto dalla nausea, le
orecchie ottenebrate da un sorta di sordo ronzio ovattato, la gola
secca, tutto quanto era bloccato nel suo corpo. E forse era meglio
così, perché nel momento in cui fosse subentrato
il cervello la
botta sarebbe stata insopportabile.
Era
metaforicamente rintanato da qualche parte all'altezza del suo
ombelico, proprio al centro del suo tronco, in profondità.
S'era
rifugiato sottopelle, rannicchiato su se stesso, e non badava a
niente di tutto quel che aveva intorno, non badava alla minima
consapevolezza lucida e razionale della realtà. Non sapeva
nemmeno
da quanto tempo fosse seduto lì – dieci minuti?
sei ore? - e
quando per un riflesso meccanico muoveva appena la testa intorno, a
scatti, il suo sguardo scorreva sulla vecchia cabina del telefono e
sulla serranda del pub chiuso senza soffermarsi su nulla, senza
nemmeno percepire le cose.
Nemmeno
si accorse che albeggiava fino a quando, trasognato, si rese conto
che sul muro davanti a lui s'iniziavano ad intravedere più
precisamente i contorni dei graffiti che erano stati dipinti da
qualche mano adolescenziale; e poco a poco, dopo le sagome delle
scritte e delle figure, apparvero pian piano i colori: emersero dal
grigio plumbeo della strada male illuminata dapprima come
leggerissime sfumature, timide venature di pervinca, di rosa, di un
grigiazzurro pallido e di un verdognolo rugginoso. Poi bordi, figure
e colori presero a diventare un tutt'uno, a riconquistare nel nitore
dell'alba ancora neonata la loro connotazione reale, e ai suoi occhi
giunsero come materializzandosi le forme logiche, le lettere
dell'alfabeto, un riconoscibilissimo viso stilizzato, il profilo a
bomboletta di un condominio di tutti i colori, e il rosso diventava
rosa, l'azzurro un blu elettrico e così via. Erano ancora
opachi ma
già riconoscibili e finalmente i suoi occhi rimisero a fuoco
il
mondo, per scrutarlo tutto in quei graffiti sul muro.
Stava
albeggiando e lui continuava a non pensare a niente, rintanato in
mezzo alla sua stessa pancia.
Maggio,
27, 1977
“Come
puoi addormentarti proprio adesso, Prongs?”
James,
quasi del tutto addormentato, muove faticosamente la testa a quella
parola accusatorie dell'amico, in un eroico quanto inutile sforzo di
apparire perfettamente lucido e sveglio.
“Non
sto dormendo. Chi ha detto che sto dormendo?” protesta con
voce
impastata.
“Tu,”
ribatte Sirius senza demordere. “Hai appena detto che
sonno,
ragashi, no ce la faccio più.”
“Non è assolutamente
vero,” nega James meccanicamente.
Sirius
aggrotta la
fronte con quello che potrebbe sembrare signorile sdegno. Si
raddrizza leggermente, appoggiando il peso del corpo, allungato sulla
sabbia, sul gomito destro. In quella posizione può ruotare
sufficientemente la testa da voltarsi verso Remus, acquattato su un
telo da mare alle sue spalle.
“Moony?” lo
interpella, in cerca del suo appoggio.
Remus
sbatte un paio di
volte le palpebre, impiega qualche secondo a spostare lo sguardo
dalle piccole onde che si infrangono dolcemente sul bagnasciuga alle
facce dei suoi amici.
“Ahn... Potresti
averlo detto, James,” ammette.
Il
diretto interessato
sbuffa rumorosamente, affondando la testa tra la rena.
“Lo sapevo che
avresti dato ragione a lui,” osserva imbronciato.
“Tu ultimamente
dai sempre ragione a lui, Lupin,” continua tragicamente.
“Perché io ho sempre
ragione, Prongs,” dice Sirius gargiulo, contemporaneamente a
Remus
che protesta “io non do sempre ragione a questo coso, James,
sarebbe un gravissimo errore.”
di
fronte a quella
replica incrociata James si limita a sospirare nuovamente.
“Vorrei aver bevuto
un po' meno Firewhisky,” commenta malinconico.
“O meno
Mirtograppa...”
“...O anche un po'
meno Bangin'rhum, Jimmy, sarebbe stato un bene,” conclude
Sirius,
con un'occhiata carezzevole ai vuoti di bottiglia abbandonati accanto
a loro.
Il
suo migliore amico
sospira stancamente, di nuovo un po' addormentato. Sirius ridacchia
tra sé e torna ad abbandonarsi indietro. Remus lo guarda
mentre,
spalancate gambe e braccia, comincia lentamente a chiuderle e
riaprire giocando all'angelo nella sabbia. Sarebbe una bella immagine
da ricordare, pensa: James che sonnecchia, lui accoccolato nel suo
angoletto riparato e Sirius che si strofina sulla spiaggia come un
bambino, o forse come un cane – o tutt'e due le cose. I suoi
capelli neri pieni di granelli quasi bianchi, il costume da bagno
scuro sulla pelle chiara e un po' scottata e un mezzo sorriso sul
viso puntato al cielo.
Remus
torna a puntare
lo sguardo sull'acqua, in lontananza, là dove il chiarore
vago
dell'aurora sta iniziando a diventare più nitido e luminoso.
Poi è
una questione di pochi secondi prima che una minuscola strisciolina
di luce infuocata compaia sulla linea dell'orizzonte, tra mare e
cielo.
“Ehi,” mormora
Remus sorridendo.
Sirius
intuisce dal suo
tono che è finalmente ora, solleva la testa e, arrancando,
si
raddrizza rimanendo appoggiato sugli avambracci, scrutando con occhio
insospettatamente lucido il piccolo spicchio di sole nascente che si
riverbera sul mare in lingue incandescenti e che cresce di secondo in
secondo. Allunga stancamente una gamba, rifilando a James un leggero
calcio.
“Ehi, Prongs,
l'alba!” esclama.
James
sussulta con un
mugugno, riscuotendosi stancamente.
“Godric,” biascica
roco. “Non posso. Giuro che non posso. No. Dormire.”
Si
ribalta sul telo da
mare, con movimenti goffi e sconclusionati.
“James! Ehi, Jim, che
fai?” chiede Sirius, vedendolo alzarsi barcollante, con gli
occhi
semichiusi.
“Bungalow.”
“Ma ormai è l'alba,
abbiamo aspettato fino adesso...” dice Remus incoraggiante.
“Bello. Magnifico.
Ciao ciao, a domani,” ribatte James con voce strascicata,
senza
nemmeno voltarsi a guardare il settore di sole che ormai sembra
incendiare il mare. Non servono a niente le proteste veementi di
Sirius e quelle più pacate di Remus, il ragazzo s'incammina
stentoreamente nella sabbia, traballando ad ogni passo.
“Traditore!” lo
insegue la protesta di Sirius. “Sei un vile, Prongs,
vergogna!”
Remus
ridacchia,
osservando brevemente l'amico che si allontana verso il loro casotto
per poi tornare subito a rimirare l'alba sul mare. Il sole si alza
pian piano, sempre incandescente, allargando l'onda dei suoi riflessi
rossastri e tremolanti in lontananza su tutta la superficie del mare,
fin dove arriva lo sguardo.
“Otto ore di veglia,”
mormora insonnolito.
“Ne valeva la pena,”
commenta Sirius, che invece sembra decisamente più sveglio
di
un'oretta fa. “Guarda come sale in fretta,”
aggiunge assorto,
osservando il sole.
“Già. Sembra quasi
giorno,” dice Remus annuendo.
Sirius
lo osserva per
un istante e poi aggrotta la fronte, mentre si volta di nuovo e
striscia indietro i gomiti con gesti impercettibili, fino ad andare a
sfiorare le sue tibie con la schiena con calcolata noncuranza.
“L'alba dura così
poco,” osserva a mezza voce.
Remus
aggrotta la
fronte, domandandosi se sia davvero malinconia quella che serpeggia
nella voce del Pureblood. Sirius non è un nostalgico e
nemmeno uno
che resti ancorato alle cose: è un'anima bella, un allegro
incosciente capace di cancellare tutto con un colpo di bacchetta.
Magari poi ci rimugina, ma senza darlo a vedere, e Remus lo conosce
abbastanza bene da sapere che il suo piccolo lato tormentato
è
accuratamente celato sotto strati e strati di autentica
sbruffonaggine e genuino ottimismo.
Eppure
sono diplomati
da due settimane e Sirius in questi giorni è stato uno
strano
miscuglio di entusiasmo e apatia, e ogni tanto si imbambola a
guardare il vuoto borbottando qualche frase come quella che ha appena
detto, di cui Remus non riesce a capire il vero significato. Finora
ha sempre lasciato correre ma adesso c'è quel sole ancora
neonato e
così splendido, e la sabbia sotto le dita.
“Cosa intendi?”
mormora.
La
schiena di Sirius
sobbalza contro la sua gamba, indicando uno sbuffo.
“L'alba finisce
subito. Come il resto, no?”
Vorrebbe
probabilmente
suonare scherzoso, ma non ci riesce completamente. Remus lo sa, che
Sirius sta patendo il distacco da Hogwarts e dalla loro spensierata e
temeraria adolescenza. Forse è persino preoccupato per
l'avvenire,
per quanto l'idea stessa in relazione a Sirius sembri assurda.
Però
lui non commenta
e sorride facendo scivolare distrattamente le dita in mezzo alle
punte dei suoi capelli.
“Ricordami quando sei
diventato filosofico,” lo invita con tono gentile.
Sirius
si scioglie in
una risata, questa sì spontanea.
“Lo sono sempre
stato, Moony,” risponde sornione. Poi scuote la testa e si
alza a
sedere. “Andiamo a fare il bagno!” dice con
decisione.
“Non ci penso
nemmeno. Andiamo a dormire,” ribatte Remus, che ha passato da
tempo
la soglia del sonno per precipitare nello sfinimento.
“Dai, Moony!”
insiste Sirius, alzandosi per poi strattonare il suo braccio.
Remus
lo guarda senza
emettere verbo, registra il suo sorriso invogliante, il naso spellato
dal sole e il brillio speranzoso dello sguardo.
“No,” risponde,
sentendosi spietato.
Sirius
si corruccia con
una smorfia infantile, poi le sue labbra si piegano in una smorfia
che lui riconosce come minacciosa. Non fa in tempo ad intuire nulla
che l'altro ficca le mani nella sabbia e prende a lanciargliela
addosso.
“Pad! No! Smettila,
cretin...” esclama lui, prima cercando di scansarsi e poi
ricambiando la pioggia sabbiosa. Sirius si mette immediatamente a
ridere, saltando indietro, senza smettere di scagliargli sabbia, e
Remus si alza e gliene lancia dell'altra e poi gli molla uno
spintone, Sirius gliene rifila uno a sua volta e poi sfrutta il
contraccolpo per prenderlo per il polso e strattonarlo verso il
bagnasciuga.
“No-o-ooo,”
scandisce Remus facendo resistenza.
“Ti lancio una
fattura,” ridacchia Sirius senza cedere, e e traballano sulla
spiaggia tirandosi a vicenda, ma Remus ha tutta quella sabbia addosso
che si sta infilando dappertutto e ne sputacchia un po', prima di
cedere di colpo, rassegnandosi. Per la sorpresa Sirius si sbilancia
indietro, fa una sorta di balletto sul posto e poi casca per terra,
seduto scompostamente.
Remus
si toglie lo
sfizio di guardarlo dall'alto in basso.
“Beh, ti muovi?”
dice con tutta calma, incamminandosi verso l'acqua.
Lo
sente ridere alle
proprie spalle, dopo qualche secondo avverte i tonfi attutiti dei
suoi passi di corsa e se lo sente rovinare addosso come fosse
l'Espresso di Hogwarts, lo slancio lo spinge in avanti ed entrambi
scivolano e sgambettano verso l'acqua, piedi a mollo, ginocchia e poi
giù di faccia perdendo l'equilibrio.
L'acqua
è fredda, ma
non troppo, appena quanto basta per dare una scossa lungo la schiena
e riempire nervi e muscoli di freschezza, fino al cervello.
Riemergono tutti e due boccheggiando allegramente. Il sole sta
emergendo interamente dall'orizzonte in quell'istante, rotondo e
infuocato, tutto è chiarissimo e luminoso.
Sirius
lancia un specie
di grido di euforia prima di sciaguattare in acqua e rimettere sotto
la testa. Rispunta fuori proprio di fronte a lui e Remus non fa in
tempo a spostarsi prima che le sue mani gli si stringano sulle spalle
spingendolo sotto. Non fa nemmeno in tempo a chiudere la bocca e
riemerge tossicchiando.
“...Demente,”
boccheggia, sul punto di fare qualche bracciata indietro. Invece
Sirius gli stringe l'avambraccio e si sporge in avanti a baciarlo, le
labbra bagnate, la pelle fredda e scivolosa e l'acqua incastrata in
goccioline brillanti sulle ciglia. Remus fa scivolare le braccia
intorno al suo collo e lo lascia fare.
Presente
I
graffiti ormai erano
perfettamente nitidi alla luce del giorno, l'insegna del pub si
leggeva immediatamente, la notte era sparita e insieme al sole
arrivava la realtà. Non poteva più ignorarla. Le
sensazioni
sgusciarono fuori dal suo stomaco e dai suoi polmoni e gli arrivarono
in mente come tanti Cruciatus cerebrali, spezzandogli il fiato. Penso
al modo in cui il corpo ragazzino di Harry era rimasto senza forze
nelle sue braccia mentre la sua voce continuava a invocare il nome
del padrino – il corpo capisce prima del cervello. Remus si
portò
lentamente le mani al viso mentre finalmente le due
estremità
andavano a combaciare e la consapevolezza gli arrivò dritta
in gola,
chiudendogli la trachea.
Sirius
era morto. Era
proprio morto, questa volta finiva tutto così. Le sue dita
gli
tremavano sulla faccia, le sue gambe erano molli – per
fortuna era
seduto per terra – e qualcosa gli si ruppe nell'intestino
mandandogli una fitta fino alla tempia. Gli scappò dalle
labbra un
singhiozzo asciutto e secco mentre si rendeva conto, finalmente, che
non avrebbe mai più visto il volto che conosceva meglio di
qualunque
altro. Undici anni ad Azkaban e finiva così. Finiva solo
così, da
un momento all'altro. Voleva piangere, ma non era possibile. Non era
più possibile niente.
Un
paio di persone
passarono parlottando nella via principale, ma lui ci fece caso. Non
riusciva più a pensare a nient'altro che quel corpo che
scivolava
oltre il Velo, adesso, ed era un pensiero che sanguinava come
un'emorragia. Rivedeva il leggero sorriso rimasto congelato su quelle
labbra e si ricordò di amare quel sorriso nello stesso modo
sotterraneo e inevitabile in cui le vene amano il sangue. Le sue dita
adesso erano piantate nella pelle della faccia, i polpastrelli
affondati nelle guance.
Pensò
che sarebbe
rimasto in eterno lì fuori dal Ministero, qualche piano
sopra il
posto in cui Sirius era sparito; forse non sarebbe mai più
riuscito
ad alzarsi, anche se l'alba era finita da un pezzo.
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