BIG MAN
A Clarence e a Bruce,
con riconoscenza, amore e rispetto.
Part
One SPIRIT IN THE
NIGHT
Asbury Park, New Jersey, First
Seventies
Lì
dentro non li
sentivi, la puzza del salmastro mischiato al fumo delle ciminiere e non
vedevi
il cielo senza luna, senza stelle e senza nuvole. Il ragazzo,
diciannove,
vent’anni, non di più, scappato via da un college
di provincia o, più
probabilmente, da una fabbrica, magari alla ricerca disperata di una
qualsiasi
scusa, fingersi matto, fingersi finocchio, per non essere arruolato in quella maledetta guerra
lontana*, incrociò
lo sguardo con il suo. Bassino, magro, jeans e tshirt bianca che
dovevano aver
conosciuto tempi migliori. Una selva arruffata di fulvi capelli
irlandesi. Un’
ossuta faccia italiana dal mento aguzzo sporco di barba, il naso
aquilino, gli
occhi scuri proprio
come i suoi. Occhi
piegati all’ingiù, vagamente tristi. E perfino un
po’ arrabbiati,
com’è giusto che siano quando hai
vent’anni.
Lo sorprese a carezzare con tenerezza
l’acustica ( era
scaramanzia o amore?), prima di salire su quel palco che regalava sogni
e
illusioni all’ingenuità di tanti come lui,
assestandosi sulle
spalle ossute il
supporto dell’armonica. Uno di quelli che
sognavano di diventare il nuovo Dylan, si ritrovò a pensare.
Proprio come lui
aveva sognato di diventare il nuovo John Coltrane. Prima che la vita lo
costringesse a svegliarsi. Perché ormai, a ventinove anni e
con una famiglia da
mantenere, l’avvenire se lo era dovuto lasciare alle spalle.
Cazzo. Se solo
quella
voce avesse potuto
dar vita ai sogni del piccolo
bastardo con la barba lunga e i jeans stracciati, invece di regalargli
le
solite illusioni. Se
ci fosse stato, lì
dentro, uno di quei signor sottutto che scrivevano sui giornali,
avrebbe potuto
dire di aver visto nascere una stella, sopra il palcoscenico
scalcagnato di un
locale di terz’ordine, in quel
New
Jersey fottuto che era soltanto fabbriche, e ciminiere, e inquinamento
e grandi
sbronze di birra il sabato sera; ma i critici musicali, lì,
non ci andavano
manco per sbaglio. Cazzo, però. Che
voce. E che carisma. Peccato che fosse nato nel posto sbagliato.
Anche lui era nato nel posto
sbagliato, ma
quelli del college avevano avuto l’occhio
lungo. Nero, grande e grosso. I numeri per diventare una stella del
football
c’erano tutti. Non fosse stato per quel maledetto ginocchio,
forse…Sfumato il
football, gli era rimasto il sassofono. Un vecchio sax tenore che aveva
comprato di tredicesima mano nemmeno lui ricordava dove, e che aveva
strofinato
disperatamente per tirarlo a lucido e dar fiato a quel che restava dei
suoi
sogni. Ammesso che non fosse indecente averne ancora,
con una moglie da mantenere e un figlio in
arrivo. Basta. Basta con le fantasticherie senza costrutto, in fin dei
conti
poteva reputarsi fortunato, l’impiego presso la scuola per
ragazzi disadattati
di Jamesbourg , Newark gli consentiva di tirare avanti con
dignità e
ascoltare i problemi degli altri lo
faceva sentire utile. E quell’altro, il
nuovo Dylan, come mandava avanti la baracca?
Suonando la sua chitarra e la sua armonica a un angolo di
strada?
Però…non gli sarebbe dispiaciuto improvvisare un
assolo sulle note di qualcuna
delle sue canzoni che parlavano di
vagabondi nati per correre e spiriti della notte.
Di solito chiudeva gli occhi come
farebbe un grosso gatto
sazio, quando cavava
la magia della
musica da quel vecchio arnese scuro di ossido acquistato
chissà dove per
quattro soldi. Ehi, amico, ho
una band
che cambia nome ogni settimana e…E la testa piena di sogni,
e una madre troppo
tenera, e un padre troppo severo che quando tornava dai colloqui con i
professori te l’avrebbe spaccata volentieri sulla testa,
quella maledetta
chitarra. E un vecchio televisore in bianco e nero dal quale Elvis
ancheggiava
ammiccando, e tu, bambino, a stringere una chitarra troppo grande per
le tue
manine, e a sognare che saresti diventato come lui, un giorno, e le
storie che
sapevi inventare le avresti messe in musica…Ehi, amico, ho
una band che cambia
nome ogni settimana, e avrei bisogno…Del tuo jazz, del tuo
blues, della tua
pelle, di quel tuo largo sorriso buono, delle manacce con le quali mi batterai
sulla
spalla per dirmi coraggio,
quando tutto quanto andrà a puttane e
mi
verrà voglia di buttare a mare la chitarra e tutto il resto. Dimmi di
sì, Big Man. Trova il
coraggio di lasciarti indietro le tue piccole certezze, molla tutto
quanto e
insieme…Insieme spaccheremo il culo al mondo.
La testa mi dice di mandarti al
diavolo, ragazzino, ma il
cuore…Il cuore galoppa e lo stomaco brucia, come se avessi
buttato giù una
bottiglia intera di bourbon cattivo. Perché ci credo, non
con la testa ma con
le budella. Come ci
credi tu.
-Viaggeremo. Ci sbatteremo come
dannati finché ci crederemo,
e alla fine…
-E alla fine avremo il mondo ai
piedi. E tu diventerai
bellissimo, ranocchio.
Lo guardò stringere gli
occhi e ridere di gusto, mostrando
grossi denti storti.
-Big
man.
Ma vaffanculo.
Part
two GLORY DAYS
Around in
the world,
1980-2009
Lo avevano spaccato per davvero, il
culo al vecchio mondo
fottuto, lui e i compagni di viaggio,
e
non l’avevano cambiato più, il nome alla band che
adesso tutti quanti
conoscevano, non solo nel New Jersey puzzolente di fumo, di birra e
d’inquinamento, ma dappertutto. Dappertutto.
Ci avevano creduto. Si erano sbattuti
come dannati, e alla
fine…Alla fine quel mondo tanto bello da sapere di finto, il
mondo tragico che
avevano inseguito e che a tanti era
costato la vita, Bruce l’aveva stretto forte tra
le mani. Non si sarebbe
lasciato sopraffare, come Jimi, Janis, Jim.Come Elvis, che era
diventato la pachidermica
e triste caricatura di se stesso, quando la morte lo aveva colto,
gonfio di
farmaci e di dolore, a poco più di quarant’anni.
Non si sarebbe lasciato sopraffare,
perché era fragile e forte, ormai aveva imparato a conoscere
bene ogni
dettaglio della sua anima. Una lamina indistruttibile
d’acciaio, il padrone di
un gioco dal quale non si sarebbe lasciato fagocitare, lo avrebbe
domato e
cavalcato nel vento senza lasciarsi disarcionare e calpestare. Lo
avrebbe
piegato alla sua volontà, senza permettere che gli bevesse
il sangue e gli
portasse via l’anima. Finché lui e i suoi compagni
di viaggio avessero avuto
abbastanza energia, abbastanza sudore, abbastanza entusiasmo,
abbastanza storie
da raccontare per far ridere, piangere, riflettere. E abbastanza
umanità da non
lasciarsi imbrogliare. Da niente e da nessuno.
Diventerai
bellissimo,
ranocchio.
Difficile crederci, eppure ci aveva
azzeccato, ancora una
volta. Il mondo non si era inchinato a un ragazzo gracile e sciatto, ma
a un
guerriero dalle braccia forti, il volto duro e plebeo
illuminato da sprazzi intensi di dolcezza, la
voce che graffiava l’anima. E che non era cambiata, quella
no, dai tempi delle
notti di fumo, illusioni e sogni, ad Asbury Park, New Jersey.
Un uomo che sembrava un uomo, in un
mondo di pagliacci
tristi, di feticci rutilanti e truccati. Un uomo che non aveva bisogno
di
maschere dietro le quali nascondersi, di paradisi fasulli dove
rifugiarsi, di ebbrezze chimiche e aveva imparato a
conviverci, con la
solitudine che, anche in mezzo a
migliaia di persone che sanno tutto di te e ti adorano come un dio,
sembra
voglia maledire chi ha troppo di tutto.
Quanto tempo era passato, quanti
amori, quante canzoni,
quante strade, quante rughe in più sulla faccia, scavate dal
dolore e dalla
gioia. Highways che portavano chissà dove e il fantasma
rabbioso e dolente di
Tom Joad, Cadillac rosa e sogni che svanivano all’alba, la
serenata a New York
e il lamento funebre urlato sulle
sue
rovine.
“Troppo vecchio per il rock
and roll, troppo giovane per
morire”. Chi aveva sparato quella cazzata? Jim Morrison, o
qualcun altro di
quegli idioti baciati dalla fortuna e ammazzati dalla droga a poco
più di
vent’anni? Big
Man ricacciò indietro con
una manata i lunghi dreadlock che gli ruscellavano giù per
la schiena, afferrò
il sassofono e si affacciò sul palco. Erano tanti, come al
solito. Li sentiva
urlare, immaginò di vederli ridere, piangere, applaudire da
spellarsi le mani. Applaudire
Bruce, che correva avanti e
indietro come un indemoniato, brandendo la vecchia Fender come
un’arma che
sparava vita e non morte, e parlava, e si sgolava, e cantava storie di
quotidianità banale e straordinaria con la sua voce che
graffiava l’anima e
lui, la Grande Ombra Nera di cui vedevano baluginare solo il bianco dei
denti e
delle cornee, il lampo dorato del sax e delle unghie laccate e
minacciose come
quelle di uno stregone vodoo. Parecchi di quei ragazzi avevano meno
d’un terzo
dei loro anni. Ma nessuno, ne era sicuro, avrebbe osato rinfacciargli,
con la
candida crudeltà che è dei giovani,
un’età che ormai ammetteva giochi con i
nipotini e passeggiate nel parco col cane
ma non bandane, capelli lunghi, orecchini, laceranti
assolo di chitarre
elettriche. Perché, grazie alla musica, Bruce, e lui, e Steven, e Patty, e
Nils,e Roy, e Max…e
Dannny avevano
spaccato il culo anche al
tempo che passava.
Part
Three NO SURRENDER
Palm Beach, June 18 -2011
Bruce socchiuse gli occhi, si
sfregò sul mento gli spuntoni
della barbetta brizzolata. Avevano visto tanto, si ritrovò a pensare, inalando
l’odore acido del
creosoto, ascoltando , nel silenzio, il debole ronzio delle macchine
che
consentivano all’amico di sempre un barlume di vita che non
era vita.
Avrebbe voluto piangere. Avrebbe
pianto ancora. Ma, mentre
lo guardava aldilà del vetro giacere incosciente, come una
grande balena
spiaggiata giunta all’ultimo approdo, fu sopraffatto da una
sensazione di vuoto.
Ancora una volta.
Il primo ad andarsene era stato
Danny, stroncato dal cancro.
Ne uccideva tanti, il maledetto , infischiandosene
dell’età di chi colpiva a
casaccio. Clarence, invece…Era stato un ictus a ridurlo in
quelle condizioni.
Un male da vecchi. Al tempo che passava non avevano spaccato un bel
niente,
lui, e Steven, e Patty…e Clarence, che se ne stava andando
in silenzio,
arrendendosi a un fottuto male da vecchi.
“Quando ero piccolo, mi
hanno insegnato che ci sei. Non lo
so, forse erano favole anche quelle, ma…In certe situazioni
ti aggrappi a
qualsiasi speranza, fosse pure la più irragionevole. Ho solo
sette anni in meno
di lui, ma per me
è stato più di un
amico. E’ stato un padre, ecco…Signore, se ci
sei…”
Se ci sei, già. Se ci sei
e puoi tutto, come mi hanno
insegnato…Sentì
le lacrime scorrergli
lungo le guance, perdersi tra gli spuntoni brizzolati della barba. Un
miracolo.
Avevano sentenziato i medici. Se ci credete, pregate. Era giocoforza,
crederci
e pregare. E piangere, anche se c’era il rischio che
qualcuno, un dottore, un
infermiere, un inserviente, uno di quei fottuti paparazzi che non
rispettano
niente e nessuno, lì dentro, potesse vederlo.
Già, perfino il grande Bruce
Springsteen piange.
Chissenefrega. E si
strofinò via le lacrime col dorso della
mano.
Il silenzio di vetro, ovatta e
creosoto era punteggiato dal
sibilo dei macchinari, quasi impercettibile. Un miracolo. Un miracolo
che non
avrebbe portato l’amico di sempre dall’altra parte
della strada, ma che avrebbe
potuto tenerlo inchiodato, lui che era stato un vulcano,
un’esplosione
inarrestabile di energia, a una vita che non era vita. Cieco, sordo,
paralizzato. Forse muto. Forse demente. Non era giusto implorare un
miracolo
che si sarebbe potuto trasformare come niente in una condanna. Anche se
era
dura, lasciarlo andare. Anche se era dura sapere che non ci sarebbero
stati più
giorni insieme, e risate, e fatica, e grandi strade da percorrere, e
musica, e
parole…
Non poteva che intuirla, la fame
d’aria che si spegneva in
un rantolo, attraverso lo spesso vetro che isolava l’amico di
sempre dalla
sporcizia e dai germi del mondo. Intanto, sul monitor, il tracciato
andava
appiattendosi lentamente in una retta infinita di luce al fosforo
verde.
Presto, le catene si sarebbero spezzate. E sarebbero
cadute, senza fare rumore.
“Rest in peace, Big
Man”
Blood brothers in the
stormy night with a vow to defend
No retreat, believe me, no surrender*
*Si allude alla guerra del Vietnam, che nei primi
anni ‘70 consumava i
suoi ultimi bagliori.
**”No
surrender” in
“Born in the USA (1984)
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