Note:
a)Danimarca/Norvegia quasi pwp,
nata quasi per caso e che sinceramente m’inquieta un po’. Non sono per niente
sicura di come si possa caratterizzare Norvegia in certi frangenti e spero sinceramente
che possa risultarvi gradito… critiche e commenti sono graditi <3
b) Per adrienne riordan, visto che ho un certo problema con le ametiste e
sono in attesa di aggiornarmi al prossimo tour per l’edicola XD Nell’attesa,
spero che ti possa piacere <3
c) Il titolo viene da due strofe della canzone “For Altid” (“Per sempre”) di Medina.
Letteralmente significa “Dentro di me nel profondo – Hai il mio cuore proprio
qui”. All’incirca, insomma XD
d) Mathias è il nome umano
attribuito a Danimarca nel fandom estero che ho
deciso anch’io di mantenere. Jǿrgen invece è il
nome che ho scelto io per Norvegia.
Dybt inde
i mig - du har mit hjerte
lige her
Inizia sempre con un errore di
valutazione. Qualcosa che Norvegia non ha messo in conto, un
gesto,
una parola, un movimento, qualcosa che lo coglie impreparato perché,
semplicemente non l’aveva calcolato. Per quanto strano suoni, accade ogni
volta, c’è sempre qualcosa che Danimarca riesce a fare senza che Norvegia
riesca a prevederlo.
Così, cade il primo mattone.
Magari Mathias
lì per lì non se ne accorge nemmeno. Le cose diventano più palesi dopo qualche
minuto, quando al movimento successivo Norvegia reagisce in modo imperfetto. Si
vede chiaramente che la sua parete di ghiaccio s’è incrinata per un decimo di
millimetro e che attualmente si sta tormentando per non darlo a vedere.
Danimarca se ne accorge, con quella faccia da tonno che gli spunta quando capisce
che, accidenti! aveva la soluzione sotto il naso e non
l’ha saputa cogliere al volo; e poi ride, cosa che se possibile innervosisce
ancora di più Jǿrgen, che tenta di fare
retromarcia e arroccarsi in territori più famigliari.
Stavolta, i mattoni sono tre,
tutti assieme.
Solo che poi, appena Norvegia
cerca di tornare a rintanarsi dietro le sue impenetrabili difese di
indifferenza e silenzio, Danimarca decide che ha pazientato anche troppo e
così, magari gli afferra un braccio, oppure la mano, oppure la spalla, o
comunque una parte del corpo, quella che riesce a raggiungere appena prima che
Norvegia abbandoni la stanza con una scusa qualsiasi. Lo trattiene con presa
ferma e sicura, anche se Jǿrgen si oppone e si
dibatte, e poi se lo tira contro il petto, irruente come sempre, avvolgendolo
in un abbraccio goffo, ma passionale, mormorando una
serie di frasi smozzicate che a volte hanno senso, a volte invece no.
Crollano una decina di mattoni,
facendo un gran fracasso.
Norvegia cerca di protestare. Resta
rigido, all’erta come un animale che sa di essersi spinto fin troppo vicino al
predatore, pronto a reagire a qualunque altro movimento con stizza e
nervosismo. La sua mente è un campo crivellato di dubbi e ansie.
Danimarca avverte i brividi quasi
impercettibili che gli scuotono le membra, e allora fa la cosa più semplice di questo mondo, contro la quale per quanto lotti e tenti Jǿrgen difese non riesce ad erigerne: gli prende
delicatamente il mento tra le mani, costringendolo a sollevare il viso per
guardarlo. Dritto negli occhi, sì, dritto nelle sue iridi blu come il mare, e
aspetta. Aspetta finché Norvegia non inizia ad affogare, in quella distesa d’acqua
larga meno di in unghia, e la tensione del suo corpo
si scioglie, aspetta finché non capisce che è pronto a fidarsi, e poi così,
lentamente, socchiude le palpebre e posa le labbra sulle sue, con una lentezza
che ha dell’esacerbante e, assurdamente, dell’inevitabile. Non che Norvegia
voglia più scappare, ormai.
Un centinaio di mattoni
precipitano al suolo, lasciando aperto un gran varco nel muro.
Prima che possa pensarci
coerentemente, schiude appena le labbra, l’embrione di un gemito che si forma
lentamente nel fondo della gola. Danimarca ne approfitta senza alcuna malizia, lasciando
scivolare la lingua oltre i denti ad accarezzargli morbida il palato e poi l’intera
bocca, e Jǿrgen smette definitivamente di
respingerlo; le dita, prima distese a fare forza per allontanarlo, si
arricciano sui vestiti, stringendo la stoffa in un turbine di pieghe, si
avvolgono nel tessuto per trattenere contro di sé le membra calde che coprono e
nascondono. L’intero corpo di Norvegia inizia a protendersi spontaneamente
verso quello del compagno, un tremito di desiderio che lo scuote in ogni sua
parte, e non c’è più ritrosia né rifiuto né supponenza, nel suo cuore. Solo
quell’anelito inconfessabile, covato e nascosto, una spira torbida e soffocante
che si ciba con lentezza della sua anima fino a farlo sprofondare in un letto di lascivia.
Altri mattoni, centinaia,
milioni, s’incrinano, si scheggiano, finiscono in mille frammenti, e il muro
crolla, inesorabile, spazzato via dal fiume di sensazioni e percezioni che
dirompono oltre le trincee erette a contenerle.
Il bacio si fa intenso fino a
diventare insostenibile, e quando Mathias allontana
il viso, un filo di saliva che gli cola sul mento, Norvegia non riesce a
trattenere ancora quell’ansito di piacere che gli sgorga spontaneo dalle labbra
gonfie. Danimarca sbatte le palpebre sugli occhi non più così chiari, ammorbati
dalla passione e scende a baciargli il collo, succhiando la pelle gelida che
piano piano si scalda diventando rovente e arrossata
sotto il suo tocco. Jǿrgen inarca la schiena,
piccole schegge di luce che esplodono sotto gli occhi come piccole aurore
boreali nel cielo oscuro della sua mente e i pensieri si fanno densi, pensanti,
mentre una fiamma lentamente li divora, scendendo lungo la colonna vertebrale,
fino al bacino, fino all’inguine, fino al membro teso.
Danimarca geme a sua volta, le
dita che scivolano senza più pudore sotto i vestiti, e il cuore gli batte
talmente forte che a Norvegia pare quasi di poterlo stringere tra le mani, e l’ultimo,
distinto, pensiero, è impresso nel desiderio, quasi infantile, di poterlo
davvero afferrare, quel maledetto battito, e poterlo possedere, che sia per un
solo istante o per l’eternità intera, e riuscire a ricolmarlo completamente. Suo,
nell’immensità di quel sentimento a cui non sa dare nome.
E del muro non resta nessuna
traccia, se non un cumulo di polvere e detriti.
Quando poi tutto termina, il
respiro spezzato di Mathias che gli artiglia l’udito
mentre avverte ogni singola stilla dello sperma caldo che gli cola tra le
cosce, mentre l’esplosione pura e assoluta che ha annebbiato la sua mente, trascinandola
nel bianco accecante di un orgasmo così acuto da far male, inizia piano a
dissiparsi, mentre un tremito di stanchezza s’impossessa delle membra esauste e
affaticate dall’amplesso, mentre il corpo di Danimarca, ancora ansante, ancora accaldato,
si stringe al suo cercando il tepore di un qualcosa che già ha smesso di
esistere, allora Jǿrgen ritorna a immergere le
mani in quelle macerie, in quelle briciole. Si concede solo qualche istante, l’ultimo
brivido che muore nelle ultime carezze sonnacchiose che il danese gli concede
prima di scivolare nel sonno, giusto qualche secondo per crogiolarsi in quello
stato transitorio di debolezza che l’ha fatto precipitare di nuovo, e poi si
alza, in silenzio, senza fare il minimo rumore, e si dirige verso il bagno.
Come la porta si chiude alle sue
spalle, le fondamenta del nuovo muro sono già state stese. Prima che abbia
terminato la doccia, avrà già innalzato un nuovo strato di difese e quando
metterà piede fuori da quella stanza, lavato da ogni traccia che possa anche
solo provare ad affermare che quella notte è accaduto qualcosa, quando
Danimarca si sarà svegliato e l’avrà cercato confuso, atterrito, ma già
consapevole, e quindi rassegnato, dalle macerie sarà sorto un nuovo scudo d’indifferenza
e rifiuto.
Intatto, e impenetrabile. Tranne
che per quell’errore di valutazione.