Missing Moments of Xerxes and Reim
Fell from the sky
Reim Lunettes
era un giovane di nobile famiglia. Suo padre, un uomo austero ed esigente, era
un conte.
Il conte Lunettes si presentava
come un individuo alto, dai capelli brizzolati sempre, accuratamente, pettinati
con la riga da una parte. Chiunque lo conoscesse avrebbe potuto giurare di non
averlo mai visto ridere. Lo stesso Reim non riusciva
a ricordare una volta in cui aveva visto un sorriso marcare il volto serio di
suo padre. D’altra parte, il conte non era certo il tipo che aveva tempo da
perdere in cose banali come le risate. La sua carica, il ruolo che ricopriva
all’interno della società era la cosa più importante. Non c’era persona nella
sua città che non conoscesse il suo nome. Persino i figli dei più poveri
mercanti lo riconoscevano quando passava per le vie delle città, portandosi
dietro la moglie e i due figli.
La moglie del conte era la figlia di un barone. A differenza
del marito, si presentava come una donna dall’animo gentile e premuroso,
sebbene avesse una personalità molto debole e succube del consorte. Per di più,
la sua debolezza non era solo interiore. La moglie del conte aveva infatti una
salute cagionevole e si ammalava molto spesso, lasciando a Ruri,
la primogenita, il compito di badare al fratello minore.
Ma Ruri non era esattamente la
ragazza più portata a svolgere un simile compito. Il suo carattere duro e da
maschiaccio le impediva di essere un buon sostituto della madre, così finiva
sempre che Reim preferisse starsene da solo,
piuttosto che giocare con la sorella. Accadeva spesso che per scappare dalle
grinfie della dispettosa Ruri, Reim
girasse da solo per la città, incappando spesso in brutti incontri.
Sì, perché i bambini che non godevano di quella stessa
solidità economica detestavano i nobili figli di papà come lui. Li detestavano,
perché loro non facevano niente, eppure vivevano nel lusso, senza avere la
minima idea di cosa si provasse a soffrire per un pezzo di pane.
E cosa poteva fare il povero Reim
di fronte a un’orda di altri ragazzini che ce l’avevano con lui? Quello che
aveva sempre fatto, l’unica cosa in cui poteva dirsi bravo: scappare.
Era così, Reim: debole e
inerme, e non c’era nessuno che lo incoraggiasse ad essere più forte, perché
sua madre era affetta da una malattia, sua sorella non lo capiva e suo padre
era assente. E anche quando il conte tornava a casa, quando aveva un attimo di
tempo per guardarlo, la situazione
non migliorava: gli unici discorsi che uscivano dalla sua bocca, le uniche
parole che rivolgeva a quel figlio che nemmeno poteva affermare di conoscere
erano parole di sconforto, che colpivano dritte nel suo punto più debole.
“Ho un figlio incapace.”
Quella frase rimbombava spesso nella testa di Reim. Non aveva importanza dove si trovasse: se stesse
cercando di prendere sonno nel suo letto o se stesse scappando da un gruppo di
bambini invidiosi non faceva differenza. Quelle parole, quell’idea che suo padre
aveva di lui lo tormentava.
E fu così che, volendo evitare di macchiarsi la
reputazione per un figlio che non sapeva come fronteggiare il mondo, il conte
prese una decisione: all’età di nove anni, Reim venne
portato nella tenuta dei Rainsworth, dove la duchessa
Cheryl si era assunta il compito di educarlo,
assumendolo come servo personale della piccola nipotina, Sharon.
Al contrario di Ruri,
un’adolescente scorbutica e viziata, Sharon, una bambina di appena sei anni, si
era mostrata subito dolce e amichevole con lui. Immediatamente, dopo che la
nonna l’aveva presentata al nuovo arrivato, la piccola Rainsworth
lo aveva invitato a bere del thè con le sue bambole.
L’espressione di Reim era diventata subito colma di
gioia: così piena di felicità, che si mise a piangere. Sharon lo aveva guardato
preoccupata, domandandosi la causa di quelle lacrime.
“Onii-chan… ?”
Gli occhi color terra del piccolo Reim
continuavano a buttar giù lacrime nel sentirsi chiamare fratello.
“Se non ti
piacciono le bambole, possiamo cambiare gioco…”
Di fronte a quel bambino che piangeva, la piccola Rainsworth cominciò a sentire le lacrime premere anche nei
suoi occhi. Nella sua infantile visione del mondo, percepiva il pianto degli
altri come la sua più grande sofferenza.
“Whu… Hu… Whuueeeeeeeeeeee!”
Scoppiò a piangere con foga, liberando un dolore di cui
neanche lei capiva l’origine.
Quel giorno, continuarono a piangere così, calmandosi
solo dopo alcuni minuti, quando Shelly, la madre di Sharon,
apparve sulla scena, tranquillizzando la figlia con la sua sola presenza.
Da quel giorno, dal giorno in cui piansero insieme,
Sharon e Reim divennero grandi e inseparabili amici.
Trascorrevano il
tempo giocando nel giardino della grande magione, rincorrendosi per ore ed ore.
“Piano bambini, non
così forte!”
Shelly vigilava sempre su di
loro, accertandosi che non si facessero del male.
“Oh, e lasciali
divertire, Shelly!”
La nonna Cheryl invece, cercava
di tranquillizzare la figlia affinché non si allarmasse troppo. E infatti, non c’era
niente di cui preoccuparsi, perché né Sharon né Reim
erano mai stati più felici sapendo di avere al loro fianco un fratellino e una
sorellina con cui giocare.
I loro passatempi erano i più vari: a volte trascorrevano
del tempo all’interno della villa, giocando con le bambole della piccola Rainsworth o divertendosi a imitare i versi degli animali,
cosa che a Sharon piaceva moltissimo. Altre volte invece, correvano all’aperto,
fermandosi ogni tanto a raccogliere dei fiori o a sdraiarsi sul prato con lo
sguardo rivolto verso il cielo.
Nessuno dei due era mai stato più felice prima di quel momento…
Poi, due anni dopo, quando Reim
aveva undici anni, qualcosa cambiò per sempre la vita di entrambi.
Un giorno, mentre fuori pioveva e l’unico posto dove si
poteva stare era la villa, Sharon e Reim decisero di
giocare a nascondino, approfittando del gran numero di posti dove potersi
nascondere.
“Allora Reim, devi contare fino
a cento, va bene?”
Reim annuì, preparandosi a
contare.
“Allora uno, due, tre… Via!”
Il gioco cominciò e la piccola Rainsworth
s’allontanò il più possibile da colui che doveva cercarla, badando a trovare un
posto difficile dove nascondersi. Mentre correva alla ricerca di un luogo dove
rifugiarsi, si guardava intorno pensando che ci fossero un’infinità di posti
dove l’altro avrebbe potuto scovarla.
Improvvisamente, giunta di fronte a delle scale che
portavano al piano sotterraneo, Sharon si mise a pensare, ricordandosi di ciò
che sua madre aveva più volte aveva raccomandato sia a lei che a Reim.
“Mi raccomando,
bambini. Quando giocate potete andare ovunque all’interno dei confini della
villa, ma non nei sotterranei. Quella è una zona riservata ai membri di
Pandora.”
La piccola Rainsworth contemplò
i gradini che scendevano tuffandosi nel buio, tentata dall’esplorare quel luogo
misterioso che le era stato vietato di visitare. Pensò che sarebbe rimasta lì
sotto solo per pochi minuti, giusto il tempo che Reim
la venisse a cercare. Si guardò intorno, assicurandosi che nessuno la vedesse
violare quella raccomandazione. Lentamente e con un po’ di titubanza, cominciò
a scendere i gradini sempre più scuri, giungendo al piano inferiore.
Toccato il pavimento con i piccoli piedini, Sharon chiuse
gli occhi un po’ impaurita da quella zona sconosciuta. Dopo un po’ che se ne
stava ferma in quella posizione, riaprì le iridi rosa, scoprendo che quel posto
tanto temuto, non era in realtà altro che un normalissimo corridoio, identico
agli altri della casa.
Sorrise, cominciando ad addentrarsi sempre di più in quel
luogo ignoto.
“Reim non mi troverà mai qui!”
Diceva fra sé e sé, camminando compiaciuta lungo quel
pavimento che lentamente stava scoprendo.
Nel frattempo, Reim finiva di
contare, stanco e annoiato dal pronunciare quei numeri che gli sembravano
infiniti.
“Novantotto… Novantanove e… CENTO!”
Si girò di scatto, guardando l’area intorno a sé.
Sospirò, pensando che non sarebbe stato affatto facile
trovare la sua sorellina in un posto grande come quello. Cominciò ad esaminare
la cucina, ficcando il naso ovunque, anche negli sportelli dei pensili. Deluso
dal non averla trovata lì, s’apprestò a cercarla nell’ampio salotto e poi nelle
stanze, arrivando a stancarsi di quel gioco che diventava sempre più lungo e
meno divertente.
“D’accordo Sharon, hai vinto tu!”
Aveva cominciato a urlare, ormai esausto da tutto quel
cercare. Ma la bambina non gli rispondeva.
“Sharon?”
Reim cominciò a pensare che
quella fosse tutta una strategia, che la piccola Rainsworth
non rispondesse perché troppo impegnata ad arrivare in silenzio alla tana.
“Avanti Sharon, non c’è bisogno che vai a fare tana, mi
arrendo!”
Ma quelle parole non servirono a niente: sembrava davvero
che Sharon fosse sparita nel nulla.
Nel frattempo, nei sotterranei della magione, la piccola Rainsworth si guardava intorno, notando qualcosa
d’insolito.
“Che strano… Non ci sono mobili
qui.”
Se non aveva un mobile dietro il quale nascondersi, era
difficile che Reim, una volta giunto lì sotto, non riuscisse a trovarla: in un
luogo ampio e spazioso come quello, chiunque l’avrebbe vista.
Continuava a camminare, cercando il posto che le sembrava
più appartato possibile.
Mentre camminava, passò davanti a una grande arcata,
notando distrattamente qualcosa di strano. Mentre passava di lì, le sembrò
d’intravedere qualcosa al centro della stanza, come un oggetto o qualcosa che
comunque interferiva con lo spazio solitamente vuoto di quelle mura fredde.
Indietreggiò, portando lo sguardo su ciò che prima aveva
intravisto, ma che ora, vedeva chiaramente.
C’era del sangue per terra. Una pozza larga e ancora
fresca di liquido rosso.
Le sue iridi rosa si sgranarono in un’espressione di
terrore nel vedere quella scena: un uomo vestito di nero era steso a terra
morente, con il volto semicoperto di sangue. Sharon liberò un urlo di spavento,
portandosi le mani sulle guance.
“… AAAAAAAHHHHH!”
Rimase immobile non sapendo cosa fare, finché non riuscì
a controllare la propria paura. Prima di tutto, si portò le mani alla bocca,
trattenendosi da sola dall’urlare. Poi, quando ebbe recuperato più
tranquillità, realizzò che stare ferma in quel punto sarebbe stata solo una
perdita di tempo: quell’uomo stava morendo, e sarebbe sicuramente morto se lei
non avesse avvertito qualcuno il più presto possibile.
“A-aspetta qui!”
Urlò in lacrime, come per supplicare quell’uomo di
rimanere in vita almeno fino al suo ritorno.
Si voltò dall’altra parte, correndo il più rapidamente
possibile verso il piano superiore, dove Reim
continuava a cercarla.
“Sharon?”
Il bambino la chiamava ormai da diversi minuti,
cominciando a preoccuparsi. Dopo un po’, udì la voce della sua sorellina urlare
forte il suo nome.
“Reim! Reeeeim!”
Reim si guardò intorno, non
capendo da dove arrivasse quel suono. Dal tono che la piccola aveva, sembrava
che fosse accaduto qualcosa di grave.
“Sharon! Dove sei!?”
Dopo un po’, la giovane Ransworth
si palesò ai suoi occhi con un’espressione piangente nel viso.
“Sharon!”
Reim le afferrò le spalle,
cercando di capire cosa fosse accaduto.
“P-presto Reim!
Devi venire, seguimi!”
La bambina lo prese per mano, accompagnandolo giù nei
sotterranei. Reim fu un po’ spaventato all’idea di
scendere lì sotto, perché le raccomandazioni di Shelly
erano state chiare e lui non voleva violarle. Ma in quel momento, Sharon stava
piangendo e lo aveva supplicato di seguirla il più velocemente possibile.
Arrivarono nel lungo corridoio, correndo verso la stanza
dove si trovava l’uomo morente.
“E’ qui, presto!”
Urlava impaurita la bambina.
“E’ steso sul pavimento coperto di sangue, Reim!”
Continuava accelerando la corsa.
“Per favore, aspetta Sharon-chan!”
Reim sentiva il suo cuore
battere ad un ritmo impressionante. La paura e la foga della corsa gli pompavano
con violenza il sangue al cervello, disorientandolo come mai prima d’allora.
Dopo tanta fatica, giunsero insieme davanti all’uomo che
solo in quel momento sembrava riprendere i sensi. Li guardava dal basso con la
pupilla tremante. Respirava a fatica e l’odore acre del sangue impregnava l’area
circostante da cima a fondo.
Reim lo fissò, imprigionato
nello sguardo di quell’unico occhio vermiglio. Era rimasto immobile,
paralizzato alla visione di tanto liquido rosso. Sentiva qualcosa di strano, come
un brivido che lo percorreva lungo le braccia e le gambe, arrivando a bollire
sempre più forte nella sua testa.
Sudava. Sudava freddo, Reim. Ma
quello che la sua mente percepiva non era terrore. Per la prima volta, di
fronte alla visione di tanto sangue, ci fu qualcosa che prevalse sulle sue
debolezze: non c’era un minuto da perdere, doveva fare qualcosa. Reim non aveva paura, perché aveva capito che non c’era
tempo di averne.
Resosi conto di non poter soccorrere quell’uomo da solo,
prese la sua decisione, facendo in modo che la piccola Sharon s’allontanasse il
prima possibile da quella macabra visione.
“Presto Sharon! Resto io qui! Corri a chiamare aiuto!”
Ma la piccola non riusciva a distogliere lo sguardo dal
volto di colui che ansimava morente. Teneva le mani chiuse in due pugni davanti
alla bocca, fissandolo con occhi tremanti.
“Cosa aspetti, Sharon!”
La voce del suo fratellino la fece tornare alla realtà.
“S-sì!”
La piccola Rainsworth corse via
da quel luogo, andando a chiamare soccorsi.
Reim era in ginocchio accanto
all’uomo disteso e cercava di fare il possibile per aiutarlo. Notò che la
maggior parte del sangue gli usciva dall’orbita vuota dell’occhio sinistro che
aveva perduto, calando lungo il viso pallido e tuffandosi sul pavimento piastrellato
della sala.
“Poverino, chissà
quanto gli brucia…”
Per prima cosa, volle accertarsi che quella fosse la sua
unica ferita e cominciò a smuovergli i vestiti con le mani, cercando nel suo
corpo altri punti impregnati di sangue.
“Avete altre ferite?”
Domandò, sperando che l’altro fosse cosciente abbastanza
da dargli una risposta. Ma le uniche cose che uscivano dalla sua bocca erano
ansimi e gemiti repressi di dolore.
Reim non si perse d’animo e
continuò a controllare che non avesse lesioni più serie. Il suo cuore batteva sempre
più rapidamente, accrescendo l’ansia nel suo animo. Mentre tastava con le
giovani mani il tessuto scuro di cui l’altro era vestito, non poté fare a meno
di notare quanto quegli abiti fossero inusuali per la sua epoca. Lo stesso
mantello plumbeo dal collo ampio che gli copriva le spalle, era qualcosa che Reim aveva visto solo in certi dipinti, risalenti a decenni
prima della sua nascita.
“Il… Passato…”
Improvvisamente, il giovane udì delle parole giungere
deboli e affaticate alle sue orecchie.
“Come… ?”
Cercò di spronarlo a farsi capire meglio, invitandolo a
ripetere. Ma più che voler formulare una frase di senso compiuto, sembrava che
l’altro stesse delirando.
“Der… La…
De-vo…”
Balbettava qualcosa, sforzandosi di far uscire le parole
dalla sua bocca. Reim fissava il suo volto
impressionato: non aveva mai visto una persona in quello stato.
“Ci… Der…
La-devo… Aa-aah…!”
Dopo quelle frammentarie parole, l’uomo emise un gemito
più forte di dolore, strizzando sofferente l’unico occhio che gli rimaneva.
Lenire le sue sofferenze era ciò che in quel momento Reim avrebbe voluto fare più di ogni altra cosa. Tuttavia,
per quanto desiderasse aiutarlo, non aveva idea di come comportarsi. Di fronte
a quel sangue che sgorgava come un fiume dal suo viso, Reim
non aveva l’esperienza necessaria per intervenire sulla sua ferita, e temeva
che provando ugualmente a bloccarne il flusso rosso avrebbe peggiorato la
situazione.
Sentendosi scoraggiato e impotente di fronte a quella
situazione critica, ancora una volta, le parole di suo padre rimbombarono nella
sua testa, invadendo di brividi il suo corpo già tremante.
“Ho un figlio incapace.”
Era così. Dopotutto, il conte non si sbagliava. Aveva un
figlio incapace e codardo, che era sempre scappato di fronte alle situazioni
difficili per paura di affrontarle. In fondo, era comprensibile se aveva deciso
di liberarsene, affidandolo a qualcun altro, disposto ad occuparsi di tale
fardello al posto suo.
Reim si portò le mani ai
capelli, strizzando gli occhi disperato. Se l’era meritato. Se a un certo punto
suo padre lo aveva ripudiato, era perché ciò che aveva sempre affermato sul suo
conto era vero. E quella situazione che stava vivendo ne era la chiara dimostrazione.
“Aa-aaah!”
Un altro gemito acuto di dolore lo raggiunse, e Reim si voltò, puntando lo sguardo triste su quello morente
dell’uomo che aveva di fronte. Le sue iridi color terra vibravano concentrate
sulla palpebra debole dell’altro. Improvvisamente, il giovane si era reso conto
di una bruciante verità: se lui soffriva per qualcosa che lo attanagliava
nell’animo, l’altro soffriva per la mortale ferita del suo corpo,
allontanandosi sempre di più dalla vita. Dunque, che l’opinione che suo padre
avesse di lui rispecchiasse o meno la verità, il discorso non cambiava: Reim non era l’unico a soffrire, e c’era qualcuno di fronte
a lui in quel momento, che provava un dolore ancora più forte.
Strinse i pugni, raccogliendo tutta la forza che aveva in
corpo.
“No, io… Non scapperò.”
Prese fra le sue giovani mani quella più adulta
dell’altro, stringendola intensamente.
“Ascoltate, voi non morirete. Sharon manderà presto dei rinforzi,
cercate di resistere fino al loro arrivo!”
Era vero. Reim non aveva abbastanza
esperienza da soccorrere un uomo morente, ma era dotato di un animo buono e
altruista. Se da un lato la sua persona peccava nelle cose pratiche, dall’altro
lato il giovane poteva vantare uno spirito sensibile e a suo modo dotato di una
forza pari a pochi.
“Coraggio, fatevi forza…”
Coraggio e forza. Due parole uscite dalle stesse
labbra di chi, prima di quel momento, era convinto di non riuscire neanche a menzionarle.
Il respiro affannoso di colui che agonizzante lo guardava
dalla palpebra semichiusa cominciò a placarsi sempre di più. Reim sperò con tutto il suo cuore che quello sconosciuto
sopravvivesse. Era insolita la sensazione che provava: era come se una parte
del suo cuore fosse sospesa in bilico su un filo, come se la sopravvivenza di
quell’uomo simboleggiasse per lui qualcosa di significativo.
“Reim!”
Il giovane si girò, vedendo alcuni membri di Pandora
raggiungerlo nella sala. Insieme a loro, anche Shelly
Rainsworth era accorsa.
“Shelly-sama…”
Reim non ebbe il coraggio di
guardarla, attanagliato dal senso di colpa per aver ignorato un suo
avvertimento. La donna si avvicinò a lui, timorosa che potesse essere rimasto
shockato da quella situazione.
“Reim, guardami…
Ti senti bene?”
Shelly gli mise una mano sulla
guancia, portando il suo viso a guardarla negli occhi. La sua prima
preoccupazione non era stata di sgridarlo per quanto accaduto: il suo primo
pensiero era volto all’accertarsi che stesse bene.
“S… S-sì.”
Immediatamente, le lacrime cominciarono a riempire gli
occhi del giovane e a calargli successivamente lungo il viso. Non si era mai
sentito così amato in tutta la sua vita.
“Meno male…”
La donna lo avvolse in un abbraccio, mentre i suoi occhi
color terra continuavano a buttare giù lacrime al contempo colme di dolore e
felicità.
Nel frattempo, gli uomini in divisa che erano giunti
nella sala avevano sollevato da terra il moribondo, che aveva perso nuovamente
conoscenza.
Reim li guardò portarlo via con
una certa urgenza, e subito si preoccupò per la sua sorte.
“Shelly-sama… Lui starà bene,
non è vero?”
La donna portò anche lei lo sguardo verso coloro che si
dirigevano al piano superiore. I suoi occhi erano avvolti da un’inquietante
ombra d’indecifrabile natura.
“Spero di sì.”
Quella risposta così secca e neutrale scatenò un brivido
di timore nel cuore di Reim, che alzò lo sguardo
verso colei che ancora lo teneva avvolto fra le sue braccia, volgendo altrove
gli occhi malinconici.
***
Nei giorni che seguirono l’accaduto, nessun gioco era
riuscito a distrarre dalla preoccupazione Sharon e Reim.
Ogni tanto, Cheryl aveva provato a coinvolgerli in
qualche attività che potesse distrarli dal pensiero dell’uomo che non aveva
ancora ripreso conoscenza, ma non c’era stato niente da fare. Mentre la
duchessa cercava di parlare d’altro, nel bel mezzo del discorso o Sharon o Reim domandavano sempre la stessa cosa.
“Si sveglierà?”
Cheryl non sapeva quanto fosse
giusto dare ai bambini una risposta di cui non era certa, ma sentiva in fondo
al suo cuore qualcosa che le diceva che sarebbe andato tutto bene.
“Sì, bambini. Sono sicura che si sveglierà presto.”
E fortunatamente, la donna non si sbagliava. Pochi giorni
dopo, infatti, Shelly entrò sorridente nella camera
di sua figlia per rivelare la buona notizia a lei e al suo fratellino.
“Bambini… Si è svegliato.”
Inizialmente, Sharon e Reim non
si resero subito conto di quelle parole. Poi, quando entrambi realizzarono che
non si trattava di un sogno, ma della palpabile realtà, subito balzarono in
piedi prendendosi le mani a vicenda.
“Che bello! Che bello! E’ vivo, è vivo!”
Urlava di felicità la piccola Rainsworth,
incitando l’altro a saltare come lei aveva cominciato a fare.
“Quando possiamo vederlo?”
Domando la piccolina.
Shelly sorrise nel vedere sua
figlia così felice dopo tanti giorni di cupa tristezza.
“Anche adesso.”
Affermò la donna.
Felici come mai dopo tanti giorni, Sharon e Reim si fecero condurre nella stanza dove per più di una
settimana aveva riposato l’uomo che avevano trovato.
Entrambi colmi di ansia nel cuore, giunsero davanti alla
porta aperta della camera, osservandolo già da fuori. Era sdraiato sul letto
con la schiena poggiata alla testata e guardava fuori dalla finestra che si
trovava alla sua destra. Dalla loro prospettiva, i bambini potevano vedere bene
la benda che gli avvolgeva parte del viso, coprendo la buia cavità oculare
della sua palpebra vuota.
Sharon entrò lentamente nella stanza, seguita da un Reim che si sentiva stranamente agitato.
La piccola si avvicinò al letto e salì in ginocchio sulla
sedia che si trovava accanto a questo. Poggiò le mani sul materasso e guardò
sorridente il viso serio di quell’altro. Reim
cominciò a preoccuparsi per qualcosa di cui ancora non capiva l’origine: un
forte senso di disagio lo aveva colpito, mentre si limitava a rimanere in piedi
dietro alla sua sorellina che, nel frattempo, come ogni bambina ingenua e
curiosa, cominciò a porre le sue domande.
“Ciao! Io sono Sharon e lui è il mio fratellino, Reim!”
Gli occhi della bimba erano colmi di gioia e felicità:
erano giorni che desiderava parlare con lui.
“Tu come ti chiami?”
Domandò, ansiosa di sapere il suo nome.
Ma l’altro sembrava non ascoltarla nemmeno: il suo occhio
rosso guardava il paesaggio al di là della finestra, colmo di una profonda
malinconia.
Vedendo che l’uomo non le rispondeva, Sharon non si perse
d’animo e provò a chiedergli altre cose.
“Da dove vieni?”
Ancora silenzio.
Reim avvertì una brutta
sensazione, come se venire lì così presto non fosse stata una buona idea.
“Quanti anni hai?”
Al contrario, la bambina sembrava non volersi arrendere. Quell’espressione
curiosa non smetteva di marcarle il volto.
“Ti piacciono le bambol-“
“Sharon.”
Dopo quell’ultima domanda, la piccola venne prontamente
interrotta da Reim che, valutata accuratamente la
situazione, constatò che fosse il caso di tornare un altro giorno.
Sharon si girò verso il suo fratellino con sguardo
interrogativo. Il giovane cercò di spiegarle il motivo per cui l’aveva
interrotta.
“Non è il caso di fare tutte queste domande…
Insomma, si è svegliato da poco, non credo che abbia voglia di mettersi a
raccontare tutta la sua vita.”
La bambina lo guardò, stupita dalle sue parole.
Reim le tese una mano, per
aiutarla a scendere dalla sedia.
“Avanti, torniamo un altro giorno.”
Ma Sharon non sembrava volersene andare. Aveva aspettato
fin troppo quel momento, e ora che era arrivato non aveva intenzione di
rinunciarci. Si voltò di nuovo verso lo sconosciuto, volendo accertarsi che ciò
che il suo fratellino aveva detto non fosse vero.
“Fratellone, è vero che non vuoi parlare con me?”
Reim sgranò gli occhi di fronte
all’insistenza della sua sorellina, che non si era mai comportata così prima
d’allora.
“Basta Sharon, non essere insistente.”
Ma quando i suoi occhi color terra puntarono quelli rosei
di Sharon, il giovane notò qualcosa.
Adesso, l’uomo che fino a un attimo prima volgeva lo
sguardo da tutt’altra parte, aveva incontrato i suoi occhi, fissandolo con la
sua iride rosso sangue.
Nel vedere l’espressione basita di Reim,
anche Sharon tornò a guardare l’uomo alle sue spalle, lasciandosi imprigionare
dalla vista di quello stesso occhio.
Ci fu un attimo di silenzio, in cui l’atmosfera si fece
gelida e ansiogena. Poi, pian piano, le labbra dello sconosciuto si
dischiusero, pronunciando un’unica, semplice frase.
“Odio i bambini.”
Reim si sentì raggelare dalla
testa ai piedi. Quelle poche parole messe insieme avevano attraversato il suo
cuore, rompendolo in due parti e sbriciolando quel poco orgoglio che era
riuscito ad ottenere una volta saputo che l’uomo che aveva moralmente assistito
era vivo.
Deglutì, sentendo il suo cuore pulsare ad un ritmo
esagerato. Nel frattempo, l’altro tornò a guardare fuori dalla finestra, privandolo
della sua attenzione. Inspirò una grande quantità d’aria, liberando un attimo
dopo il pesante sospiro di chi si sente infastidito dalla presenza di qualcuno.
Reim aveva lo sguardo puntato
verso il basso. Le sue pupille vibravano incredule e colme di una tristezza di
cui neanche lui capiva pienamente il perché. Al contrario, Sharon non aveva mai
spostato la sua attenzione dallo sconosciuto: nel suo spirito ingenuo, era
convinta che nessuno al mondo potesse essere veramente capace di odiare un
bambino. Era così certa di quel suo pensiero, che non credé mai in quelle
parole, e lo dimostrò nei giorni successivi.
Sì, perché nelle mattine che seguirono, Sharon tornò a
fargli visita tutti i giorni. Ogni volta, portava con sé un piccolo vassoio con
del thè caldo e un po’ di biscottini.
“Buon giorno, fratellone!”
Esclamava sorridente, senza mai ricevere risposta.
“Ti ho portato la colazione anche oggi!”
Appoggiava il vassoio sul suo comodino, poi si sedeva
accanto a lui, cominciando ogni volta un monologo diverso.
“Stanotte ho fatto un sogno bellissimo, c’eri anche tu!”
Raccontò una volta, portandosi l’indice alle labbra con
un’espressione confusa.
“Però… Non mi ricordo cosa
facevi.”
E poi, successe qualcosa di inaspettato. L’uomo si girò
verso di lei, guardando prima i suoi occhi, poi il vassoio che le aveva
portato. Sharon si sentiva in bilico su un filo. Le sue iridi rosee puntavano
il viso di colui che aveva di fronte, nella trepidante attesa di una qualsiasi
parola.
“Grazie…”
Quell’affermazione così breve, eppure così piena di
significato le cambiò la giornata. I suoi occhi divennero lucidi dall’emozione
e le sue manine strinsero forte le lenzuola del letto.
“P-prego!”
Non volle aggiungere altro, per non rovinare la bellezza
di quel momento tanto agognato. Si limitò soltanto a guardarlo, mentre beveva
con calma il thè che gli aveva portato.
Fu solo dopo un po’ di tempo che, sorridendo felice, la
bambina disse qualcos’altro.
“Sembra che ti piaccia! Domani te ne porto dell’altro,
ora devo andare!”
Fece un balzo, saltando giù dalla sedia, e uscì dalla
stanza.
L’uomo la seguì con lo sguardo, rimanendo serio e silenzioso.
Il tempo trascorse, e nel corso di quelle giornate Reim non aveva mai fatto visita al nuovo arrivato. Dopo le
parole che aveva pronunciato l’ultima volta che si erano visti, non aveva più
avuto il coraggio di avvicinarsi a lui. Ancora una volta, si era sentito
rifiutato da qualcuno.
Tuttavia, un giorno, mentre era sdraiato sul prato
insieme a Sharon, Shelly venne incontro a loro,
salutandoli sorridente.
“Mamma!”
La piccola Sharon si era subito alzata in piedi con
l’intento di abbracciare la madre. Tuttavia, qualcosa bloccò le sue intenzioni.
Shelly non era sola. Accanto a lei c’era lui, l’uomo caduto dal cielo.
La piccola sorrise felice, mentre Reim
aveva alzato lo sguardo verso i nuovi arrivati, spostando successivamente gli
occhi da un’altra parte, intimidito dalla presenza di colui che non vedeva da
settimane.
“Passeggiavamo in giardino, e abbiamo pensato di farvi un
saluto.”
Disse la donna.
“Non è così, Xerxes?”
Proseguì poi, voltandosi verso l’uomo che aveva accanto.
Lui si limitò ad annuire, evitando d’incrociare il suo
sguardo.
Nel frattempo, Sharon si portò le mani alle guance,
guardandolo colma di gioia.
“Xerxes? E’ questo il tuo nome?”
Domandò, ricevendo in risposta solo un cenno di capo, che
confermava la veridicità di quell’affermazione.
Sharon sorrise felice, cercando di coinvolgere anche Reim, che aveva guardato la scena seduto sull’erba.
“Hai sentito, Reim? Adesso
sappiamo il suo nome! Non è più queltipostranocheodiaibambini come lo chiami tu!”
Dopo quelle parole, Reim sentì
i suoi arti paralizzati e divenne subito paonazzo, mentre Xerxes
lo guardava con aria interdetta.
Pian piano, da quel momento, le cose iniziarono
lentamente cambiare. Giorno dopo giorno, Sharon e Reim
cercavano di coinvolgere Xerxes nei loro giochi,
rendendolo parte di quello che ormai non era più un duo, ma un trio di fratelli
che si volevano bene e che sarebbero cresciuti insieme.