a
"Forse
l’amore è il processo con il quale
ti riconduco dolcemente a te stesso.
Non a ciò che io voglio che tu sia,
ma a ciò che sei."
Leo Buscaglia, Vivere Amare capirsi
Una goccia cadde.
Poi un’altra. E un’altra ancora.
Non sapevo per quanto sarebbe durato quel silenzio, ne tantomeno
da quanto ci trovavamo fermi in quella stessa posizione, abbracciati l’uno
all’altra.
Potevo sentire il suo respiro, il ventre che si alzava ed
abbassava in continuazione, i suoi affanni, forse più simili a singhiozzi,
poiché probabilmente, come me, stava piangendo.
Stavo sperimentando una nuova sensazione, mai sentita prima, che
mi fece pensare al motivo per cui mi trovassi li, ora, sotto a quel
meraviglioso salice, le cui fronde fluivano come le onde radiose di una
cascata, accarezzato dal vento, insieme alla ragazza per cui provavo un
profondo sentimento.
Non volevo parlare, non volevo fare nulla, solo godermi
quell’attimo di silenzio sotto al cielo stellato, con la luna piena levata
alta, che grazie ai suoi raggi evanescenti sparsi nell’aria sembrava fosse in
grado di illuminare anche i sogni più oscuri.
Già, sogni.
Speravo di non essere incappato in uno di quelli.
Un’utopia che quando meno te lo aspetti, ti fa risvegliare di
soprassalto nel cuore della notte, facendoti realizzare di aver immaginato
tutto, ogni cosa, anche la più profonda sensazione che, fino al minuto prima,
sembrava essere inequivocabilmente vera.
E poi c’era lei.
Era una principessa, ma non solo perché lo confermasse il suo
status sociale o fosse la figlia di una ormai defunta regina. Era la mia
principessa.
Ogni volta guardavo il suo viso ed ogni volta la trovavo sempre
più bella.
Già, l’avevo ripetuto a molte ragazze e la mia fama di Dongiovanni
mi precedeva, ma sentivo che in qualche modo, con lei era diverso.
Provavo una sensazione indescrivibile, un misto di gioia e
rammarico, ma sembrava che tutto il mio corpo, fino alla più piccola fibra,
andasse in fiamme.
Guardandola di sottecchi riuscivo più che mai a scorgere le sue
labbra delicate, gli occhi scuri e profondi, espressivi come pochi e quei
capelli corvini, in completa contrapposizione rispetto ai miei.
Eppure ogni volta che eravamo assieme, provavo una fitta al cuore
indescrivibile: sapevo di non appartenere a questo mondo e sapevo perfettamente
ciò che in realtà ero.
Un Jenoma.
Un’altra goccia.
E come avrebbe potuto uno come me riuscire a far breccia nel cuore
di una principessa quando era accompagnata da due fedeli cavalieri e con a
disposizione interi eserciti?
Non volevo ferirla, non sarei mai più stato capace di guardarla in
viso, ma entrambi sapevamo di appartenere a due mondi completamente diversi.
Tuttavia poi sopraggiungevano quei momenti in cui eravamo soli, in
contemplazione delle stelle, della luna, o anche di un semplice paesaggio visto
e rivisto nella quotidianità.
Era allora che continuavo a chiedermi se tutto questo fosse reale,
se non mi fossi inventato ogni cosa, galoppando con la mia immaginazione e
sperando che un giorno lo sarebbe diventato.
Avevo paura. Paura di tornare alla vita quotidiana, in cui non
sapevo come sarebbe andato a finire il nostro viaggio. Paura di risvegliarmi
all’improvviso, accorgendomi che lei non era più al mio fianco.
Certo, in compagnia ero sempre io quello ottimista ed allegro,
tuttavia costantemente mi capitava di avere un attimo di debolezza, in cui ero
solito rattristarmi, pensando di non essere abbastanza per lei, ma solo un
inutile ragazzino.
Come sono stupido…
Me lo ripetevo ogni volta, ma non riuscivo mai a scacciare
definitivamente quella pessima sensazione che mi attanagliava le viscere.
Non stavo parlando, ne tantomeno mi stavo muovendo, evitando
qualsiasi tipo di contatto per evitarle inutili sofferenze, ma non so come,
riusciva sempre a capirmi.
Persino ora, che con le sue piccole mani stava accarezzando il mio
viso, senza guardarmi per non farsi scoprire nel pianto. Mi stringeva a se,
cercando di rassicurarmi, o forse cercando in me un tipo si sicurezza che non
avrebbe trovato, data la mia confusione.
Ero decisamente, completamente ed irrimediabilmente confuso.
Ci avevo pensato. No, ci avevo provato, ma non ero ancora riuscito
a trarre una conclusione sensata da tutti quei pensieri sconclusionati fluitimi
in mente fino a qualche secondo prima.
Perché ero li? A che scopo stavo vivendo?
Per combattere? Per sconfiggere un mago nero malvagio?
Quella non era la mia guerra e io lo sapevo.
Non ero un abitante di questo pianeta ed ero diverso da tutti
quelli che avevo incontrato finora, quindi perché avevo deciso di intraprendere
questo viaggio pieno di battaglie, sangue e morte?
Solo un nome mi era saltato alla mente. Più veloce del fulmine e
più bruciante delle fiamme infernali.
Garnet.
Quando l’avevo conosciuta, il giorno del suo sedicesimo
compleanno, non ero riuscito a dirle di no.
Nonostante la mia sorpresa alla richiesta di farsi rapire,
inizialmente mi era sembrata una nobile qualunque, con un vocabolario
decisamente inappropriato e decisa a scappare, tanto che aveva voluto spacciarsi
per una comune fanciulla di nome Daga, ma poi qualcosa tra noi era cambiato.
Eravamo entrati sempre più in sintonia, chiacchierando
allegramente assieme ad un pugno di compagni trovati chissà dove e quando
ciascuno di noi aveva bisogno di confidarsi, c’eravamo sempre stati. Non
eravamo mai stati diretti tra di noi, ma ci sentivamo comunque molto vicini.
Quando aveva intonato quella canzone melodiosa, quando eravamo
arrivati al suo villaggio natale in cui aveva scoperto di essere un’invocatrice
e persino quando sua madre adottiva era morta, eravamo sempre stati vicini e
nel mio piccolo, avevo sempre cercato di consolarla come meglio potevo,
cercando di dimostrarle ciò che provavo, nonostante a parole non glie l’avessi
mai detto.
Quindi forse ero riuscito ad arrivare a capo della situazione: non
mi importava sapere che provenivo da un altro pianeta e nemmeno combattere per
una causa non mia, ma sapevo per certo che se lei avesse avuto bisogno di me,
io ci sarei stato.
Sempre.
Non so bene cosa mi riservi il futuro, ne tantomeno cosa succederà
una volta terminata questa guerra, ma l’unica certezza che ho per il momento è
la consapevolezza che se lei mi sarebbe rimasta vicino anche in futuro, avrei
potuto fare qualsiasi cosa.
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