Nickname: OperationFailed
Titolo: The little
prince
Fandom: Sherlock
BBC
Personaggi: John
Watson, Sherlock Holmes
Rating: Pg13
Avvertimenti:
Crossover
Conteggio parole:
2012 ( fiumidiparole )
Note:
questa fic partecipa allo Sherlockfest_it
ed è opera di una mente malata che trova associazioni
improbabili tra meraviglie letterarie che dovreste proibirle di leggere.
Prompt: John, Il
Piccolo Principe
Disclaimer: I
personaggi di John Watson, Sherlock Holmes e Mycroft Holmes non mi
appartengono, per loro fortuna, in quanto sono stati ideati da Sir.
Arthur Conan Doyle, senza il quale noi non saremmo qui a consumarci
cuore e cervello. Il Piccolo Principe appartiene ad Antoine de
Saint-Exupéry e io mi sono solo permessa di maltrattarne un
po' l'opera, con la speranza di non venire duramente punita in futuro.
Questa fanfiction non
è a scopo di lucro (anche perché ci guadagnerei
ben poco) e non intende offendere la sensibilità di nessuno.
Non aveva mai guardato
indietro, nonostante fosse tornato al principio di tutto. Era stato un
cerchio, un anello di guance timide rosso vestite, e incontri, e
strette al cuore tali che a volte diventava difficile impedire alla
vista di oscurarsi. Era curiosa la conclusione di quel viaggio, che
sarebbe finito lì dove ancora la sabbia cullava la conca
della sua caduta, come se non ci fosse stato vento o tempesta a
modellare le dune.
Ora John – come lo
hanno chiamato sulla Terra – aspetta che il vecchio giorno
raccolga le stelle e faccia fagotto, sfrattato dal tempo con uno
schiocco di dita impietose. E’ solo un bambino con una pecora
di carta e una museruola tra le mani, ma avrete davvero il cuore di
dire solo,
dopo quello che leggerete?
Ora il Piccolo Principe
– come lo chiamiamo noi – attende il serpente e il
suo morso, promessa di liberazione da un corpo troppo pesante, che gli
impedisce di tornare al suo asteroide.
Al suo piccolo mondo fatto di
tramonti, arbusti, vulcani.
Al suo fiore.
Un anno fa il Piccolo Principe
se n’è sceso dal cielo, dopo un lungo viaggio
appeso ad una migrazione di uccelli selvatici. Sulla Terra è
venuto dietro consiglio di un vecchio geografo, ignorante del mondo
eppure suo grande studioso. Aveva bisogno di una pecora, una bestiola
docile che si cibasse degli arbusti del suo piccolo pianeta. I baobab
crescevano in fretta e oramai il Piccolo Principe non riusciva
più ad estirparli al momento opportuno, prima che
crescessero e rischiassero di sbriciolare l’asteroide.
Così era andato in cerca di qualcuno che lo potesse aiutare,
prima sui pianeti a lui vicini, poi sulla Terra, dove aveva trovato un
pilota buonanima che gli aveva disegnato una cassetta di legno chiusa,
con dei buchi per far respirare la pecora che – non
dubitatene – lì dentro sonnecchiava in attesa di
raggiungere la nuova dimora.
La strada era stata lunga,
molteplici i visi che aveva incontrato, ogni paio d’occhi con
le sue storie incastrate dentro. C’era stato
l’ubriacone, che beveva per dimenticare la vergogna del bere,
intrappolato in un circolo vizioso che sarebbe finito solo con
l’ultimo tramonto del mondo. C’era stato il re, che
esisteva solo perché comandava – che non ci fosse
nulla su cui regnare non lo turbava affatto – e poi il
vanitoso che non aveva occhi che per sé. C’era
stato l’uomo d’affari che contava le stelle,
perché convinto che intrappolandole in un numero, quelle gli
sarebbero appartenute come monete in una tasca, e più ne
contava più poteva acquistarne. C’era stata la
Terra, alla fine, con i suoi serpenti benedetti, e i fiori
così terribili – quanto dolore può
provocare la vista di una rosa… - e poi le volpi che si
lasciavano addomesticare con una lacrima inginocchiata sugli occhi, e i
controllori di treni e i mercanti di pillole d’acqua,
risparmiatori di mezz’ore avanzate di cui si fa quel che si
vuole.
Se chiedeste al Piccolo
Principe il perché del suo lungo viaggio, vi risponderebbe
con una pennellata d’acquerello sulle guance, nessuna parola
arrotolata in bocca. Lui è così, alle domande
degli altri non risponde mai, ma osservandolo bene capireste che quel
rossore sulle gote ha il suono di sibilante affermazione. Sì, vi
direbbe, sì,
e basta, come se non ci fosse un motivo del suo navigare per
l’infinito senza meta, dettata di ora in ora dalla brezza
universale. Chi mai chiederebbe alle foglie perché cadono, o
al sole perché tramonta? Succede, e non importa che le
foglie non vogliano accartocciarsi al suolo o che il sole desideri
rimanere sveglio ancora un po’. Succede e basta,
perché certe cose devono succedere.
In realtà il
perché di quel lungo viaggio è lo stesso che ha
spinto tutti noi – voi indistintamente, e purtroppo anche me
– ad intraprendere una strada di cui tutt’ora non
vediamo la fine. Sogni in tasca e futuro come fumo negli occhi, arriva
l’età in cui il mondo ti sboccia di fronte
– che lo si voglia o meno – e tu non hai abbastanza
spazio per farlo entrare tutto. Così si prova a farcelo
stare, ma è un po’ come voler fare passare un
elefante per l’apertura di un imbuto, e si capisce a proprie
spese che tutto quel mucchio di mondo non potrà mai essere
chiuso in un barattolo, appoggiato sopra una mensola della cucina tra le spezie e
il sale grosso.
Il Piccolo Principe stava
crescendo, ed era tempo per lui di esplorare l’universo,
avanzando a tastoni, saggiando il terreno, guardando sotto i tappeti,
come fa chi non si aspetta nulla da nessuno eppure è pronto
a tutto.
Adesso è su quel
muro a secco che dondola le gambe, issato su un ammasso di pietre
ordinate ed irriverenti, che sbeffeggiano l’assenza smisurata
di ogni granello di deserto. Aspetta che la luna sussurri al serpente,
pregandolo di preparare il suo miglior veleno. Il Piccolo John ne ha
bisogno per uccidere la mancanza, per evaporare dal corpo e modellare
l’anima come plastilina, così da non avvertire
più il tunnel scavatogli dentro da una formica di nome malinconia.
Per il suo fiore.
Non ha grandi pensieri nella
mente, quel Principe bambino che ad ogni battito del cuore si sente
più sereno. E’ un respiro in meno alla
ricongiunzione, un secondo in più affogato nella sabbia. La
verità è che a sei anni sei troppo
preso a rincorrere le farfalle e i tramonti, e non ti accorgi che un
fiore vermiglio ha tanto bisogno di te. Poi, per un soffio di vento
– ma gli uomini lo chiamerebbero destino –
il filo rosso che tutti si srotolano appresso per non perdersi lungo la
via, si intreccia da qualche parte, e il petto viene strattonato,
continua la sua corsa per un istante ancora – come fanno i
passeggeri sulle macchine che inchiodano – indietreggia, poi
si cheta, inginocchiato sul proprio dolore. Bisognerebbe tornare
indietro e sciogliere il nodo, ma a volte non si ha cuore di farlo. A
volte si sente il bisogno di arrotolare la propria vita addosso a un
altro filo rosso, a un'altra esistenza incagliata, e lasciarla
lì per un po’, a leccarsi le ferite a vicenda.
Il Piccolo Principe era solito
curare con devozione ogni centimetro del suo pianeta. Spazzava i camini
dei suoi due vulcani in attività, sui quali ogni mattina
riscaldava la colazione. Non immaginate quanto sia comodo averne uno
per fornello! Dopo i camini venivano i germogli di baobab, che andavano
estirpati con cura, senza l’irruenza dei contadini che
strappano via le erbacce dal campo, ma piuttosto con la grazia di un
giardiniere che dà il buongiorno alle sue più
tenere piantine. Anche il giorno prima della partenza, il
Piccolo Principe aveva portato a termine i suoi incarichi, e se
possibile lo aveva fatto con ancora più attenzione del
solito, come se avesse voluto preparare il tutto per quando poi sarebbe
tornato.
La cosa più
dolorosa però era stata dare l’addio al fiore.
Dovete sapere che tra gli
arbusti che erano germogliati sull’asteroide, ce
n’era uno tutto sbagliato. Non era bitorzoluto, non aveva il
muso lungo e tantomeno dava segno di voler metter su corteccia. Ben
presto aveva smesso di crescere e aveva cacciato fuori un bocciolo
vermiglio, impettito in cima ad uno stelo ondeggiante, che lanciava
cenni a destra e a manca. Aveva continuato ad infoltire le corolle, a
scegliere con cura i colori, fino a che non gli era venuta fuori una
testa ricciuta di petali scarlatti. Si era schiuso insieme al sole
sotto agli occhi del Piccolo Principe, che da giorni non allontanava da
lui la fronte aggrottata, impegnato a capire se fosse un nuovo tipo di
baobab o piuttosto un innocuo fiorellino. Ma un fiore così,
sull’asteroide B612, mai nessuno lo aveva visto.
Dopo uno sbadiglio ancora
sonnacchioso, il fiore si era scusato per i suoi petali così
spettinati, appena schiusi in una maestosa corona. Come sei bello
aveva sussurrato il principe, sentendosi rispondere che era vero, e che
aveva bisogno di caffè e latte per iniziare la giornata.
Commosso da quel fiore per niente modesto, un confuso Piccolo Principe
aveva riempito l’annaffiatoio di acqua fresca e
l’aveva versata in testa al fiore, con la sgraziata
sbadataggine di chi ha appena fatto la scoperta più preziosa
del mondo ed ancora è frastornato. Gonfiati i petali di
sfacciato color collera, il fiore lo aveva scongiurato di non farlo
annegare nella colazione – per amor del cielo!
– e il Piccolo Principe si era incurvato di vergogna,
ammaliato da quella corona di velluto attorniata di spine
nient’affatto minacciose. Così era proseguita la
conoscenza tra il Piccolo Principe e la stramba pianta, così
bella e così distante, sempre in cerca di attenzioni,
esigente e tanto vanitosa, che faceva la voce grossa da dietro quelle
spine presuntuose. Non era raro che il fiore lo facesse indispettire,
ma poi con una parola dolce, o con un palpito di petali che inebriava
l’intero pianeta, la testa ricciuta si faceva sempre
perdonare, senza però mai chiedere scusa.
Come detto in precedenza,
separarsi dal fiore era stata la cosa peggiore. La corolla vermiglia lo
aveva salutato bruscamente, rifiutando la protezione della campana di
vetro –il principe gliela faceva indossare ogni notte per
salvaguardarlo dalle correnti d’aria – e pregandolo
di andarsene in fretta, addio,
vai,
perché la verità è che non voleva che
lo vedesse triste.
Voi lo avete capito quanto era
pazzo l’amore del fiore?
Il Piccolo Principe no, ed era
partito con il cuore sotto alle costole, ammosciato sul fondo come una
stella marina sulla battigia. Non concepiva come quel fiore maestoso
potesse essere diventato suo pensiero giornaliero e suo sogno
ricorrente, ogni attenzione che ruotava intorno a lui. Lo ha capito dai
gesti e non dalle parole, nei mesi a seguire, che il fiore ha un
disperato bisogno di lui. Gliel’aveva suggerito in sordina,
con il profumo vibrante dei petali e le richieste di attenzione. Ma il
Principe era ancora troppo piccolo per capire l’amore.
Ma il Principe era tranquillo,
pensava che le spine bastassero a proteggere un amore dalle grinfie del
mondo.
Era stato il geografo a dirgli
che i fiori non vengono annotati nelle carte geografiche, mica come i
vulcani e gli oceani e i grattacieli, un fiore è effimero,
dura il tempo di un soffio e poi se ne va! Rammaricato, il Piccolo
Principe aveva così scoperto l’orrore di aver
abbandonato il suo piccolo amico, indifeso – se non per
quelle quattro spine in cima allo stelo. La volpe invece gli aveva
fatto capire che il fiore lo aveva addomesticato, perché addomesticare significa creare
dei legami, e se tu mi addomestichi sarai per me l’unico al
mondo, e io sarò per te l’unica al mondo.
Ogni giorno di quello strano
viaggio, il Piccolo Principe rivolgeva al suo pianeta un malinconico
pensiero, ma doveva continuare a cercare una pecora, lui. Doveva
continuare a crescere. Terribile era stato il giorno in cui poi aveva
scoperto che le pecore non fanno distinzione tra baobab e fiori dalla
testa ricciuta. Era scoppiato in lacrime davanti al pilota buonanima,
che lo aveva messo a parte di quella terribile scoperta. Le spine non servono a niente,
sono solo cattiveria da parte dei fiori! aveva detto il
pilota. L’uomo poi, commosso dall’amore del bimbo
per il suo fiore, gli aveva disegnato una museruola per la pecora, da
farle indossare una volta svegliatasi, così che il tuo fiore
potrà continuare a brontolare come prima.
Quanto gli mancavano quei
brontolii, però.
Così ora, con una
pecora in una mano e una museruola nell’altra, il Piccolo
Principe sorride al serpente gentile, sgonfiandosi tra la sabbia come
un palloncino ormai stanco. Forse non ricorderà nulla del
suo viaggio, delle sue avventure, ma certamente non
dimenticherà il suo fiore. La prima cosa che farà
una volta tornato sarà scaldargli la colazione sul
più bel camino del pianeta, e ascoltarlo in silenzio mentre
elencherà i quattordici modi di spazzolarsi il vestito.
Stropicciato o meno, il Piccolo Principe sarà sempre
innamorato di quel fiore vanitoso, e lo asseconderà in ogni
capriccio di bimbo viziato. Lo ha capito tardi, ma come piace dire agli
umani, meglio tardi che
mai.
Domani quarantatrè
tramonti li coglieranno vicini, impegnati nella scoperta
dell’unico mondo di cui hanno bisogno.
Quello dell’altro.
_
Sono decisamente esausta,
questa storia mi ha succhiato l’anima e adesso tutto quel che
mi ritrovo è una pallida ombra di ciò che avevo
in mente, tanto odio per i tempi verbali, e una tristezza infinita per
il nostro Piccolo John. Cercherò di farla breve ora, ma
vorrei che per qualsiasi chiarimento vi rivolgeste direttamente a me.
E’ una storia a cui tengo molto, forse proprio per la
difficoltà di portare avanti un intreccio tra Sherlock BBC e
“Il Piccolo Principe”, che è riuscito
nell’insano intento di far accartocciare il cuore ad
un’acida diciottenne che non ha mai creduto alle fiabe. Ma
forse Exupéry ce l’ha fatta perché
questa è più di una fiaba. Infinitamente di
più.
1.
Non ho detto nulla di nuovo in questa fic. Tutti i personaggi
e gli incontri che il Piccolo Principe fa, sono narrati
nell’opera originale, in cui l’autore sussurra
all’orecchio la follia degli uomini con una dolcezza che fa
male. Perché quando le cose sono vere, fanno anche male.
2. Ora
John – come lo hanno chiamato sulla Terra…
– ma sì, autocitiamoci! Questa è
l’ombra di una riflessione che mi ha preso qualche tempo fa.
Se qualcosa non si chiamasse nel modo in cui si chiama, perderebbe
forse le sue proprietà? Io non credo proprio, e la mia
è una sorta di critica verso l’essere umano, che
ha sempre bisogno di catalogare, contare, accumulare maree di dati solo
per provare che qualcosa esiste e ha il tal nome. Per questo, una volta
arrivato sulla Terra, anche al Piccolo Principe hanno affibbiato un
nome. Io continuerò a non chiamarlo John – o
Giuseppe, Guglielmo o vattelappesca – perché so
che da qualche parte, su un asteroide galleggiante tra milioni di altri
asteroidi galleggianti, un Piccolo Principe riscalda la colazione per
il suo amore fiorito, senza che ci sia bisogno di sapere quanto
è grande il pianetino, quanti insetti popolano la superficie
o in che modo il sole ne illumina le vette.
3.
Non starò qui a citare i vari pezzi da cui ho
tratto spunto, perché spero che – se la storia vi
è piaciuta – abbiate voi la voglia di prendere un
paio d’ore di tempo per sognare leggendo l’opera
originale, alla quale chiedo scusa per il livello di maltrattamenti a
cui l’ho sottoposta.
4.
Tempi verbali, questi sconosciuti! E’ stato
tremendo scegliere il tempo verbale, a tal punto che arrivata alla fine
mi sono accorta di aver usato qualunque tempo esistente nella lingua
italiana. O quasi. Il fatto è che il principino è
nel deserto, aspetta il serpente, e questo è presente.
Nell’attesa, un narratore che non ci è dato sapere
chi sia – scegliete voi quello che più vi fa
comodo – ripercorre la vita del bambino, che coincide per la
maggior parte con il viaggio. E qua ho fatto tanto uso di imperfetto e
trapassato prossimo, che non è che sia proprio un tempo che
mi piace molto… Credo però che in questo contesto
sia più appropriato, che renda meglio lo scorrere delle
azioni, della routine che il Piccolo Principe quotidianamente
affrontava. E affronterà, una volta liberatosi
dall’ingombro del corpo e tornato all’asteroide.
5.
Voi lo sapete chi è il fiore, vero? VERO? Eh? In
caso non lo sapeste, mentite. Ditemi che avete capito e che non
è terribilmente OOC. Ditemelo, così
eviterò di buttarmi giù da un ponte con
l’intenzione di andare a trovare Principe e fiore per chieder
loro scusa.
6. Avrei voluto
trasmettervi la dolce tristezza che ha avvolto me nello scrivere questa
storia, nel constatare che siamo sempre incredibilmente lenti, che non
ci accorgiamo mai di nulla fino a quando non ce ne siamo allontanati, e
che spesso l'unico modo per capire qualcosa è non capire
affatto. Avrei voluto trasmettere queste e tante altre cose. Avrei
voluto, ma non ce l'ho fatta. E allora prendete questa
fanfiction per quello che è, un ammaso di parole che tentano
di seguire un ordine più o meno valido.
Quello che posso dire con certezza è che so di essere
peggiorata man mano che la storia prosegue. So che il finale non
è degno di questo nome, e che la buona metà della
narrazione non ha un senso. Lasciate allora che vi chieda scusa, e che
prometta di legarmi le mani e buttare la chiave, la prossima volta. E
lasciate che vi ringrazi, per la pazienza. E’ venuto fuori un
lavoraccio, ma è stato quasi un piacere.
Grazie.
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