Arkadia_1
[
Prima classificata al contest «Il
libro che avete amato» indetto da Miss Dark ]
Titolo:
Arkadia: A story of blood and sorrow
Autore: My
Pride
Fandom: Originali
› Sovrannaturale › Vampiri
Tipologia:
One-shot
Genere: Generale, Drammatico, Introspettivo,
Sovrannaturale
Rating: Giallo
/ Arancione
Nota1: Spin
off della storia Under
a bloody sky,
facente parte della serie St.
Louis ~ Bloody Nights. Essa verrà stavolta
raccontata
da un altro dei protagonisti principali della long fiction, ovvero
Miguel
Rodríguez.
Nota2:
L’ultimo capitolo di questa
storia si ricollega direttamente agli avvenimenti accaduti nella
seconda parte
della doppia one-shot Si
Deus me relinquit.
Frase scelta: Armand
il vampiro › Quello
è l’unico Sole che tu vedrai in avvenire, ma un
millennio di notti sarà tuo per
vedere la luce come nessun mortale l’ha mai vista, per
rapirla dalle stelle
lontane come se fossi Prometeo, un’illuminazione senza fine
dalla quale
comprendere tutte le cose.
Avvertimenti: Vagamente
nonsense, Accenni
Slash
Introduzione:
In un modo tutto mio, esattamente come aveva promesso Alberto di
Domenico, ero
stato in grado di vedere più di quanto non avrei mai potuto
fare da mortale,
acquisendo una conoscenza tale che mai avrei sognato di poter un giorno
possedere, arricchendomi grazie a tutto ciò che avevo potuto
assaporare con gli
altri sensi che mi erano rimasti; avevo potuto così
comprendere che il sole di
cui Alberto mi aveva parlato altro non era che la consapevolezza dei
secoli che
mi erano passati dinanzi, tutto ciò che avevo imparato nel
vederli scorrere
come granelli di sabbia in una clessidra, e avrei fatto di tutto per
far sì di
tenere stretta fra le mie mani quella luce che avevo rubato.
Note
dell’autore: Note presenti alla fine della
fanfiction
DISCLAIMER:
All rights reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale.
This
work
is licensed under a Creative
Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.
«Quello
è l’unico Sole che tu vedrai in avvenire, ma
un millennio di notti sarà tuo per vedere la luce come
nessun mortale l’ha mai
vista, per rapirla dalle stelle lontane come se fossi Prometeo,
un’illuminazione
senza fine dalla quale comprendere tutte le cose».
Questa la promessa che mi era stata
fatta. Questa la promessa che era stata in seguito mantenuta. E, Madre
de Dios, quanto mi
sarebbe piaciuto che non fosse mai stato così.
SPAGNA › MARZO 1305
L’odore umido e
fragrante dell’erba bagnata dalle prime piogge primaverili
era un vero e
proprio toccasana, in quel periodo dell’anno. Sebbene non mi
fosse concesso di
vedere la moltitudine di fiori che coloravano timidamente il nostro
giardino,
ero più che certo che fosse uno spettacolo a dir poco
meraviglioso.
Erano trascorsi più di
vent’anni
dall’ultima volta in cui avevo potuto godere delle bellezze
del mondo, e spesso
mi ritrovavo a pensare a come sarebbe stata la mia vita se non avessi
contratto
quella malattia che mi aveva privato della vista. Come futuro
capostipite della
mia famiglia, la mia cecità rappresentava
un’incognita difficile da sorvolare:
i miei genitori avevano fatto ricorso a tutti i cerusici di Spagna per
far sì
che guarissi prima che fosse troppo tardi, ma a niente erano valsi i
loro sforzi
e le energie che avevano impiegato nel tentativo di riuscirci. Avevo
perso
completamente la vista a soli dieci anni, e da allora avevo vissuto nel
buio
più completo. Non avevo più potuto correre libero
e spensierato come gli altri
bambini, non avevo più potuto vedere tutto ciò
che mi circondava, né tanto meno
ero più stato in grado di fare con la stessa
facilità tutte quelle piccole cose
quotidiane. Con il passar del tempo mi ero naturalmente adattato a
quella mia
condizione, e probabilmente mi sarei sentito ancor più perso
se fossi stato
invece in grado di vedere. Era ironico, a ben pensarci.
«Miguel?» La voce di
mia madre mi
riscosse dai miei pensieri e mi voltai nella direzione da cui
proveniva,
sorridendo nonostante non fossi esattamente sicuro di dove lei si
trovasse. Ascoltai
attento, udendo i suoi morbidi passi sul marmo che componeva il
pavimento del
balcone.
«Avete bisogno,
madre?» le chiesi,
alzandomi piano dalla sedia sulla quale ero accomodato. Ero uscito solo
per
compiacermi della frescura di quel giorno, non avendo un
granché da fare
all’interno di quell’enorme casa. Non avrei potuto
neanche leggere, dunque a
che pro soffermarmi nelle sale di polverose librerie?
«Siamo stati invitati ad una
festa», mi
disse semplicemente, poggiandomi una mano su una spalla quando si
avvicinò
abbastanza a me per farlo. «Tuo padre ci terrebbe tanto a
parteciparvi, giacché
sembra che la
senõra Dominga sia stata una sua vecchia
amica». La sua voce tradì una lieve nota
tremula, però si affrettò presto a dissimularla
prima di ridacchiare. Ma non
ero stupido: quella risata suonava più falsa di quanto non
volesse farmi
credere. «E poi farebbe bene anche a te uscire un
po’ da questo posto».
Sorrisi, accondiscendente. «Ha
pienamente
ragione, Madre. Verrò anch’io», le
promisi, e sebbene non potessi vederla in
viso quasi mi immaginai che stesse sorridendo a sua volta. In quel
periodo mi
ero spesso rinchiuso nelle mie stanze per ore ed ore e avevo
partecipato ben
poco alla comune vita di famiglia, dunque mi sentivo quasi in dovere di
rasserenare mia madre in qualche modo. Lei in quei lunghi anni di oblio
mi era
stata molto più vicina di mio padre, e volevo quindi
sdebitarmi per quanto
concessomi.
In verità non avevo la
benché minima
voglia di lasciare quella casa, se dovevo essere sincero con me stesso.
Volevo
solo starmene al sicuro nel mio piccolo mondo, lontano da tutto
ciò che mi
aspettava là fuori; forse la mia era semplicemente paura,
non lo sapevo con esattezza,
ma la cosa di cui ero certo era che mi sentivo bene solo fra quelle
quattro
mura. Ed era dunque stato con una certa ansia che avevo atteso
l’arrivo della
sera, preparandomi poi per quella mia prima uscita dopo tanto.
Vicino alla carrozza, intento a
carezzare dolcemente il lungo muso di uno dei cavalli che
l’avrebbero trainata,
ripensavo a quanto ero stato stupido ad accettare con tutta quella
facilità.
Avrei potuto semplicemente rifiutare, e probabilmente mia madre non me
ne
avrebbe fatto una colpa per quella mia decisione; però, in
fondo, cosa mai
sarebbe potuto succedere?
«Andiamo, Miguel»,
mi
richiamò mia
madre, con un timbro nervoso nella voce sommessa. Mi voltai verso di
lei ma non
le chiesi niente, conscio che qualcosa, qualsiasi essa fosse, non
andava. E
ancor più me ne convinsi quando mio padre non ci raggiunse.
Sentii mia madre
trarre un sospiro e lasciarsi sfuggire un suono simile ad un singulto,
però
continuai a non domandare niente. Ma non perché non me ne
importasse, sia ben chiaro;
sapevo fin troppo bene che mia madre preferiva il silenzio a qualcuno
che
tentava in tutti i modi di intromettersi nella sua vita privata e di
compatirla. E io non avevo la benché minima intenzione di
mancarle di rispetto
in quel modo.
Il nostro viaggio si protrasse dunque
nel più completo silenzio, interrotto solo dallo scalpiccio
degli zoccoli dei
cavalli al traino. Fu il tragitto in carrozza più lungo
della mia vita; potendo
contare unicamente sul mio udito, non avevo potuto godere appieno i
dintorni e
tutto ciò che mi circondava, accontentandomi dei discorsi
frammentati che
riuscivo a sentire quando passavano dinanzi a chi, a differenza di noi,
si
trovava a piedi. Mi era sembrato persino di udire il suono indistinto
di una
diligenza in lontananza, ma mi ci ero soffermato ben poco; avevo invece
rivolto
la mia attenzione ai rumori che provenivano sulla sinistra della
strada, ove
sembrava essere in corso una grande festa. Eravamo forse arrivati? Ne
ebbi
conferma nel momento esatto in cui scendemmo, e fu mia madre stessa ad
aiutarmi
ad incamminarmi nella direzione giusta.
L’interno chiassoso di quello
che
presunsi essere un palazzo mi colpì come uno schiaffo in
pieno viso: non
essendo più abituato al chiacchiericcio dei commensali e
alla bassa musica da
salotto, mi sentii stranamente perso. Per me fu un sollievo accomodarmi
tranquillo e in disparte, anche se con forte disappunto della mia
genitrice;
non sarei riuscito a prendere quella festa con la sua stessa
disinvoltura,
dunque anziché rovinare la festa anche a lei avevo preferito
starmene da solo
con me stesso. Ero un vero e proprio sociopatico.
«Una gran bella festa,
vero?» mi chiese
d’un tratto qualcuno, interrompendo il flusso dei miei
più disparati pensieri.
Sbattei le palpebre, alzando lo sguardo nella sua direzione come se
fossi in
grado di vedere il volto del suo possessore. La sua voce aveva una vaga
cadenza
suadente, e il modo in cui pronunciò quella domanda mi fece
supporre che fosse
straniero. Era difficile capire da dove provenisse con
l’esattezza, ma ero più
che sicuro che avesse imparato lo spagnolo da oltre dieci anni. Lo
parlava
troppo bene. «La senõra
che l’ha organizzata ha fatto un lavoro ben curato. E anche
lei è
splendida».
Non avevo idea di chi parlasse
con esattezza, giacché la senõra
in questione non faceva neanche parte della cerchia di donne che
frequentava mia madre. La
sola cosa che sapevo era che sembrava essere una vecchia amica di mio
padre, ma
si vociferava che non fosse mai stata solo quello. E io non volevo
andare in fondo a quella storia se potevo evitarlo,
anche se gli atteggiamenti di mia madre -
anche quelli che aveva avuto prima ancora che arrivassero - parlavano
da
soli. Così decisi semplicemente di
rivolgere un sorriso di cortesia a quello sconosciuto, tornando a
guardare la
pista sebbene non la vedessi e mormorando soltanto, «Mi fido
della
sua parola, senõr».
Fui quasi certo che mi stesse
osservando, forse perché sentivo la sgradevole sensazione di
avere gli occhi
puntati su di me. Però mi sforzai di fare finta di nulla,
anche perché sapevo
che non sarebbe servito a niente aizzare questioni inutili. Non potevo
di certo
impedire alla gente di guardarmi. «Oh»,
disse d’un tratto quello sconosciuto, e lo sentii
accomodarsi piano accanto a me. «Mi perdoni. Non mi ero reso
conto della sua
condizione».
Non mi voltai verso di lui - anche
perché non avevo intenzione di fare in modo che incontrasse
nuovamente i miei
occhi -, bensì agitai distrattamente una mano in aria per
liquidare
semplicemente quella faccenda. «Non ho bisogno degli occhi
per vedere ciò che
ho intorno»,
esordii con un altro mezzo sorriso. «In questo
mondo ci sono cose che non sono visibili neanche alla luce del
sole».
Anche se non potei vederlo, dalla voce
con cui mi rispose sembrò che stesse sorridendo.
«Avete maledettamente ragione,
senõr.
Avete
maledettamente ragione». Sentii il suo respiro farsi
più vicino, ma non seppi
dire con esattezza se avesse chinato il viso verso il mio oppure fosse
soltanto
una mia impressione. «Ma, perdonate, dimenticavo di
presentarmi». Mi prese una
mano senza stringerla, carezzandola brevemente con la punta dei
polpastrelli. A
quel tocco rabbrividii ma non ritrassi il mio arto, provando
però a cercare il
suo volto come se cercassi di osservare in qualche modo la sua
espressione o il
riflesso della mia nei suoi occhi. Ero forse sconcertato? Dios, speravo
proprio di no. «Alberto Di Domenico, senõr.
Per servirla».
«Siete
italiano?» domandai di getto, ritraendo la mano non appena
lui tentò di
ghermirla nella sua. Speravo vivamente di sbagliarmi, ma quella sua
mano non
era forse diventata fredda e dura come il ghiaccio? Avevo forse delle
allucinazioni a causa di quell’aria soffocante che vigeva in
quella sala
divenuta ormai angusta?
Sentii distintamente il suono di una
risata soffocata e di uno sbuffo ilare, subito dopo, dovuta forse al
fatto che
avessi allontanato la mano con la stessa vergogna che avrebbe potuto
avere una
vergine la prima notte di nozze. «Da parte di mio
padre», mi spiegò
semplicemente, forse persino in tono divertito. «Mia madre
proveniva dalle
colonie». Si mosse un po’, facendosi più
vicino, tanto che potei sentire il suo
respiro solleticarmi un orecchio. «E il suo nome, senõr?»
Avrei anche trattenuto il fiato se non
mi fosse apparsa come una cosa stupida. Forse ero solo un po’
agitato perché
era la prima volta dopo mesi che lasciavo la nostra casa, e a causa
della mia
cecità non mi interessava neanche farlo. Mi sforzai dunque
di riacquistare
un’aria tranquilla e di sorridere, sebbene sentissi io stesso
che quel mio
sorriso era fasullo. «Miguel Rodríguez»,
risposi in tono circospetto, anche
senza volerlo.
«Miguel»,
ripeté lui con
devozione,
quasi stesse pregustando il mio nome sulla punta della lingua. E quella
fu una
cosa che mi lasciò basito e sconcertato. Chi era mai
quell’uomo? «Ha il nome di
un Arcangelo», continuò, «e anche il suo
aspetto è paradisiaco. Siete già
promesso?»
Scossi automaticamente il capo, forse
non comprendendo appieno le sue parole. Ero rimasto incantato dal suono
della
sua voce e dal modo in cui aveva pronunciato il mio nome, quasi fosse
stata la
prima volta che lo udivo a mia volta. «Se non fosse per la
mia condizione, lo
sarei».
«La vostra cecità,
intendete?» mi
domandò ancora, e sentii la sua vicinanza divenire
più pressante, quasi si
fosse trattato di un peso posto all’altezza del mio stomaco.
«E se fosse
possibile cambiare questo vostro stato? Se fosse possibile restituirvi
in
qualche modo la vista?»
Nonostante lo sconcerto iniziale, dovuto
sia a quelle parole sia alla sua vicinanza, risi; risi di gusto, quasi
sovrastando la musica che vigeva nel salone e le chiacchiere dei
presenti,
divertito probabilmente da quella bizzarria. Fu sorridendo che
ribattei, «Con
questa vostra offerta voi mi lusingare, senõr,
ma non credete che ciò che
dite sia quanto meno impossibile?»
Il suo rauco sussurro al mio orecchio
cancellò ogni traccia d’ilarità.
«Non sto scherzando», soffiò nel mio
padiglione auricolare, con voce densa e bassa come miele appena
prodotto. «Seguitemi
e ve ne accorgerete voi stesso».
La cosa che mi lasciò
interdetto non
furono quelle sue nuove parole, bensì il sentire le labbra
di quell’uomo
sfiorare le mie: dapprima sembrarono incerte e guardinghe, quasi si
stessero
ricredendo di ciò che il loro possessore aveva fatto; poi si
fecero sempre più
sicure e intraprendenti, tanto che sentii ben presto la sua lingua
carezzarmi
il labbro inferiore. Ciò che avvertivo in quel bacio era il
bisogno urgente di
non restare solo, un misto di passione e tristezza che non avrei saputo
associare
a nessuna delle sensazioni che avevo provato fino a quel momento. E in
quegli
ultimi dodici anni non ero di certo stato un santo.
Non appena mi resi realmente conto di
ciò che stava succedendo mi allontanai immediatamente da
quello sconosciuto,
sgranando gli occhi e indietreggiando. Deglutii e mi leccai persino le
labbra,
sentendo su di esse il vago sapore del sangue, e avrei dato qualsiasi
cosa,
persino la mia anima, per sapere che espressione avesse mai assunto il
mio
volto o quello dell’uomo che mi aveva appena baciato. Avevo
baciato tantissime
donne, in quegli ultimi anni, ma mai mi sarei sognato di baciare
qualcuno del
mio stesso sesso. Madre
de Dios, che intenzioni aveva quel forastero?
«Non si sorprenda per
così poco,
senõr
Miguel». La sua voce suonò come un
mormorio nella notte buia. «Lo leggo nei
suoi occhi ciechi. Non si capacita di ciò che sto facendo,
ma in cuor suo spera
che le mie parole non siano del tutto fasulle».
Mi poggiò entrambe le mani
sulle spalle,
portandomi poi lontano da lì con la facilità con
cui si trascinava via un
bambino. Stupito da quella sua forza, non mi resi neanche conto che la
musica
nel salone era diventata solo un basso mormorio di sottofondo, simbolo
che ci
trovavamo adesso altrove. Una lieve brezza si insinuava fra i miei
lunghi
capelli, e anche senza l’uso della vista capii che
quell’uomo, Alberto
di
Domenico, mi aveva portato sul balcone adiacente alla sala.
Stavo cominciando a spaventarmi, dovevo
ammetterlo. Impossibilitato a vedere, non avrei saputo come difendermi
se ne
fosse stata richiesta l’occasione. Avrei sì potuto
capire il momento in cui quell’uomo
si sarebbe mosso grazie allo spostamento d’aria prodotto, ma
poi cosa avrei mai
potuto fare? Assolutamente niente, purtroppo. Non avrei però
venduto la pelle a
basso prezzo, facendo tutto ciò che era in mio potere per
comprendere le
intenzioni di quell’uomo.
Quando finalmente mi lasciò
andare
indietreggiai, cercando di fronteggiarlo con l’aria
più risoluta e impettita
che riuscii a trovare. «Che cosa vuole, senõr?
Spera per caso di ottenere
del denaro?» gli domandai in tono aspro, ignorando la mezza
risata che si
lasciò sfuggire. Che ridesse pure quanto voleva.
«O preferisce forse prendere
un posto di maggior rilievo nella società eliminando
l’anello più debole?»
Smise di ridere con una
velocità
inaudita, quasi non avesse cominciato affatto. Mi stupiva ogni momento
di più. «Niente
di tutto questo», ribatté poi con una
semplicità disarmante. «Voglio darle
ciò
che vi ho promesso pocanzi, senõr
Miguel». L’aria intorno a noi
sembrò quasi farsi fredda e soffocante, tanto che mi
ritrovai a rabbrividire.
Cosa stava succedendo? «Dev’essere stata dura
vivere per tutti questi anni
senza poter godere delle bellezze del mondo, senza potersi perdere nel
rimirare
la sconvolgente purezza di montagne innevati e cieli azzurri, senza
poter
vedere quanto il suo stesso aspetto sia magnifico». Una sua
mano, fredda come
l’aria circostante, ravvivò i miei capelli
all’indietro, e sentii distintamente
le sue dita intrecciarsi fra di essi per lisciare le lunghe ciocche.
«Io posso
far sì che tutto questo accada. Posso mostrarle cose che non
avrebbe mai
sognato di poter vedere ancora una volta, paesaggi che resteranno
impressi
nella vostra memoria per tutti i secoli avvenire; comprendereste la
verità del
tempo e i segreti celati dietro di essa, e tutto ciò
diverrebbe nelle vostre
mani un piccolo sole pronto ad irradiare il mondo».
Era mai possibile che
quell’uomo avesse
bevuto troppo e stesse delirando? Dios
mío, mi sarebbe piaciuto moltissimo credere
che fosse realmente così, ma qualcosa mi dava la certezza
che fosse
estremamente serio. «Perché sta pronunciando tali
fandonie, senõr?»
«É
il tuo stesso nome a volere che questo destino si compia»,
sussurrò in risposta
con voce rauca e gutturale, quasi fosse stato simile ad una bestia
selvaggia.
Aveva anche abbandonato ogni minima formalità, come se in
quel momento non
servissero. «Miguel... potresti essere simile a Dio con una
sola parola [1]
».
Simile a Dio con una sola parola?
Cosa
stava farneticando quel forastero?
Non poteva sperare davvero che io
gli
credessi, e nemmeno l’avrei mai fatto. Soltanto un pazzo
avrebbe realmente dato
ascolto alle sue parole.
Per attimi che parvero interminabili
lasciammo che fosse solo la quiete ad investirci, ed ero convinto che
quel
tipo, Alberto, mi stesse osservando con una tale intensità
da farmi
rabbrividire da capo a piedi. Non potevo dire ciò con
certezza, ma mi parve
quasi di avvertire i miei occhi su tutto il mio corpo, come se stesse
cercando
in quel modo di sondare la mia anima o di penetrare nei miei pensieri.
Sentii
giusto un piccolo movimento, poi un sospiro e un ansito di
voluttà, simile a quello
di chi era ad un passo dall’orgasmo.
«Madre
de Dios!» La voce di mia
madre ruppe l’innaturale silenzio che si era creato fra noi,
aleggiando come una
lugubre nota nella notte. «Tu eres el Diablo!»
Non capii perché disse quelle
parole, ma
ebbi appena il tempo di voltarmi nella sua direzione prima che sentissi
un
dolore acuto al collo, venendo trafitto da qualcosa di così
appuntito che mi
parve simile ad un pugnale; spalancai la bocca in un grido senza voce,
al quale
però fece eco quello di mia madre.
La sensazione che provai in seguito fu
terrificante: mi sentii come risucchiato di tutta la mia essenza,
afflosciato
contro il corpo di quel mio assalitore; con le orecchie ormai colme
della nenia
che stava sussurrando avevo provato a mia volta a parlare, sentendo
solo il
sapore del sangue scendere prepotentemente nella mia gola. Tossire e
tentare di
sputarlo non era valso assolutamente a nulla, in seguito; avevo lottato
con
tutte le mie forze, scivolando negli abissi del terrore mentre mi
sentivo
sopraffatto da quel pungente odore ferruginoso e malsano che sembrava
sgorgare
da me stesso, da ogni mio poro; fu a quel punto che il dolore mi
colpì con
violenza, tanto che sentii il mio intestino attanagliarsi in violente
spire che
mi lasciarono senza fiato. Gridai, con il mio corpo che si contorceva
di
dolore, sentendo nelle orecchie il sinistro scricchiolio delle ossa
contro il
tessuto e lo spasmo violento che mi contrasse i muscoli, lasciandomi
paonazzo e
senza fiato. Inarcai la schiena e ansimai, aprendo e chiudendo la bocca
per
anelare ad un pugno d’aria; però ogni boccata mi
parve come fuoco vivo nei miei
polmoni, quasi sul punto di collassare.
Ma la cosa più spaventosa e angosciante
fu udire le stridenti grida di dolore di mia madre. Provare a chiamarla
fu
vano, poiché le parole che uscirono dalla mia bocca furono
solo suoni
inarticolati e senza il benché minimo senso.
«Simile a Dio con una sola
parola,
Miguel». Il sussurro di Alberto al mio orecchio fu come vetro
spezzato: aveva
perso tutta la bellezza e il mistero che aveva avuto fin dal principio,
quella
passione suadente con cui mi aveva conquistato e intrappolato,
divenendo per me
una semplice voce. E la cosa quasi mi spaventò.
«Ti basta pronunciarla per
salvare la vita a te stesso e alla tua cara madre».
Forse fu ciò che mi disse a
convincermi,
o forse la paura che potesse succedere qualcosa a mia madre, ma
pronunciai quel
sì con tutto il fiato che mi era rimasto in gola, urlandolo
al vento come se
ciò potesse aiutarmi a porre fine a quella sofferenza che
dilagava nel mio
animo e alle urla ormai sconnesse della mia genitrice.
Non mi occorse la vista per essere certo
che sul viso di quel forastero
si era dipinta un’espressione di
assoluto trionfo: mi bastò udire le parole che
sussurrò in seguito e quella
nenia nella sua lingua natale, il modo in cui s’interruppero
bruscamente le
grida di mia madre e l’abbraccio in cui mi strinse, poi
ancora l’odore del
sangue nelle narici, il suo disgustoso sapore sulla lingua e nella
gola.
Da quel momento in poi, fra le tenebre
della mia vita, comparve anche una macchia cremisi.
Passarono
esattamente dieci giorni dal momento in cui ero stato assalito.
Nonostante il mio stato di salute avevo
provato a stare vicino a mia madre per quanto concessomi, ma purtroppo
non era
più tornata la stessa di un tempo; quella notte aveva veduto
qualcosa che
l’aveva scossa e turbata a tal punto da farle perdere la
ragione, e provare a
chiedere il parere di qualche esperto non era servito assolutamente a
niente.
Si lamentava durante il sonno - almeno quelle rare volte in cui
riusciva a
chiudere occhio - e farneticava di creature simili al Demonio, con
denti aguzzi
e spaventose espressioni angoscianti, ma io, come altro unico
testimone, non
potevo confermare quella sua versione proprio a causa della mia
cecità. Avevo
solo raccontato che ero stato avvicinato da uno strano uomo e che
quest’ultimo
mi aveva aggredito, e tutto perché la mia versione dei fatti
era realmente
questa. Non sapevo cosa avesse visto o anche solo pensato di vedere mia
madre,
ma potevo comprendere che lo shock di vedermi assalito avesse potuto
giocarle
qualche brutto e fatale scherzo. Dios
mío, povera madre mia.
E quella sera non era diverso. Mio padre
aveva lasciato quella stanza da poco, ed io, seppur mi reggessi in
piedi a
malapena, ero rimasto a vegliare su mia madre, tenendole la mano nella
mia come
se volessi farle sentire la mia presenza. Sapevo che una serva le
detergeva di
tanto in tanto la fronte quando veniva a controllarla, ma non aveva
dato nessun
segno di miglioramento fino a quel momento. Mangiava poco o non
mangiava
affatto, il più delle volte, e forse in parte potevo
capirla. Anch’io avevo
stranamente perso l’appetito da quando ero stato aggredito;
il solo sentire
l’odore del cibo, che sembrava arrivare soffocante alle mie
narici, mi
disgustava. Nemmeno i cerusici sapevano spiegarsi il motivo di tale
appetenza.
«Miguel»,
sussurrò con un fil
di voce
mia madre, stringendo la mia mano nella sua talmente forte che quasi mi
sembrò
potesse spezzarmi le ossa delle dita. Non sapevo che espressione
avesse, ma
qualcosa mi dava la certezza che i suoi occhi fossero febbricitanti.
«Miguel, hijo
mío».
«Sono qui, madre»,
sussurrai, muovendo a
tentoni la mano libera per cercare di scostarle i capelli dal viso.
Erano umidi
e sudaticci, e la sua pelle scottava come se fosse stata un pezzo
incandescente
di carbone. Il panno bagnato che una delle serve aveva poggiato sulla
sua
fronte era quasi del tutto inutilizzabile, poiché
l’acqua di cui era impregnato
sembrava evaporare al solo contato con la sua cute. Madre de Dios.
«Oh, Miguel». Mi
toccò una
guancia con
una mano, e dalla sua voce seppi che stava sorridendo nonostante tutto.
La sua
forza d’animo era sempre stata incommensurabile.
«Avrei voluto darti una vita
migliore».
«Non dite così,
madre»,
tentai di
rassicurarla, sentendo un groppo in gola. Era come se mi si stesse
chiudendo,
impendendomi sia di parlare sia di respirare. «Voi e mio
padre avete fatto così
tanto per me. Non dovete pensare cose così
assurde».
Trasse un lunghissimo sospiro, quasi
cercasse di riprendere fiato. «Io... avrei voluto fare molto
di più, per te»,
mormorò ancora, stringendomi più strettamente la
mano come se volesse essere
sicura che io non scappassi o non scomparissi d’improvviso.
«Avrei voluto che
tu crescessi come tutti gli altri bambini, senza dover far
continuamente
ricorso a qualcuno che ti aiutasse». Dalla sua gola
uscì un suono gutturale che
lei tentò di sopprimere, tossendo.
«Però... oh, Dios
mío, sono così orgogliosa
dell’uomo che... sei diventato. Quanto mi piacerebbe... poter
vedere anche i miei
nipotini».
Abbozzai appena un sorriso, carezzandole
il volto. «Riposate, madre. Avrete tutto il tempo del mondo
per vederli».
«Già»,
ripeté in
un sussurro. «Tutto il
tempo del mondo».
Per minuti interminabili non sentii
più
una parola provenire dalle sue labbra, né tanto meno un suo
flebile respiro.
Tutto sembrava essere intrappolato in un attimo etereo dove tempo e
spazio
erano solo delle parole, dove il silenzio parve accoglierci in un
abbraccio
pietoso e gelido, lasciando che l’ansia cominciasse ad
impadronirsi del mio
animo e del mio cuore. «Madre?» la chiamai infine
sottovoce, scuotendola
delicatamente. Le carezzai il viso e le sfiorai le labbra, scendendo
piano
lungo un braccio per tastare il suo polso.
Quando mi resi conto che non
c’era
battito non fui capace di piangere. Sentivo il cuore colmo di dolore,
quasi
fosse pronto ad esplodere, ma non riuscivo ad esternare tali emozioni
mediante
le lacrime; sussurrai però qualche preghiera per la sua
anima, e poi, dopo
essermi portato la sua mano vicino alla bocca, ne baciai delicatamente
il
dorso, soffocando la mia sempre più crescente voglia di
urlare ed imprecare per
sfogarmi. Non sarebbe dovuta finire così, sarei dovuto
essere io colui che
avrebbe dovuto morire; mia madre aveva solo commesso lo sbaglio di
trovarsi nel
posto sbagliato al momento sbagliato, ma non per questo sarebbe dovuta
essere
punibile in quel modo. Dio ci amava veramente come lei aveva sempre
affermato?
E se era realmente così, perché aveva permesso
che una donna di gran cuore come
lei, una donna che aveva sempre sacrificato se stessa per gli altri e
non aveva
mai chiesto nulla per la sua persona, morisse? Perché aveva
chiamato proprio
lei fra le schiere dei beati, senza attendere che giungesse la sua ora?
«E così ci ha
lasciati».
Senza che me ne
accorgessi, né tanto meno lo sentissi arrivare,
l’uomo che mi aveva aggredito,
Alberto di Domenico, aveva fatto irruzione nella stanza di mia madre,
ma la
cosa che mi lasciò di sasso fu proprio la sua presenza. Come
aveva fatto ad
eludere la sorveglianza e ad arrivare fin lì? E, cosa
più importante, come
aveva scoperto dove abitavamo?
Avrei voluto chiamare le guardie e farlo
arrestare seduta stante, però le parole che uscirono dalla
mia bocca furono
guidate dal mio cuore addolorato anziché dalla mia mente.
«Tutto questo è solo
colpa tua», sussurrai con voce incrinata, accasciandomi su me
stesso per
stringere nel mio abbraccio mia madre. «Solo
colpa tua».
Il tonfo morbido dei suoi passi sul
pavimento fu simile ad uno stridio fastidioso, esattamente come il tono
della
sua voce. «Non incolpare me della sua precaria salute
mentale, Miguel», mi
disse in un mormorio secco e pacato. «La tua cara madre
sarebbe morta comunque».
«Ma non così, mierda!»
esclamai sull’orlo delle lacrime,
sentendo quel corpo immobile stretto a me acquistare pian piano
rigidità. Però
era ancora caldo, maledizione. Era ancora caldo e quel hijo de puta si
permetteva
di parlare così di lei. Forse fu quello stesso pensiero a
farmi alzare di
scatto e a guidarmi nella direzione di Alberto,
e quasi mi stupii di
essere
riuscito a capire perfettamente dove si trovasse. In un impeto di
rabbia e
sofferenza l’avevo raggiunto e afferrato per il colletto di
quella che doveva
essere di sicuro una camicia, avvertendo la sua incertezza strisciare
sulla mia
pelle come se fosse stata un serpente prima di scomparire
immediatamente così
com’era apparsa.
Sentii una sua fredda mano poggiarsi sul
mio polso, il suo fiato al mio orecchio, poi una bassa risata risalire
dal
fondo della sua gola, interrotta poi da un lungo sospiro ilare.
«La rabbia sul
tuo viso è qualcosa di strabiliante, Miguel»,
sussurrò divertito. «Quanto mi
piacerebbe che tu potessi vederla, esattamente come sto facendo io in
questo
istante».
Rinserrai la presa sul suo collo.
«Anch’io
desidero ardentemente poterlo fare», sibilai, infuriato come
non lo ero mai
stato, «e solo per essere in grado di vedere il tuo volto
sofferente mentre ti
ammazzo con le mie mani».
Ciò che accadde in seguito successe
così
rapidamente che faticai ad avvedermene: la mano salda a stringere il
colletto
di Alberto venne
letteralmente strappata dalla sua postazione, e a
causa della
violenza utilizzata mi lasciai sfuggire un grido addolorato, sentendo
in
seguito due braccia forti e fredde stringermi i fianchi, come per
impedirmi di
scappare. Tentai di liberarmi inutilmente di quella morsa,
graffiandogli gli
avambracci e scalciando furiosamente, imprecando a denti stretti con
parole che
non mi sarei mai sognato di utilizzare fino a quel momento.
«Shh... non
agitarti in questo modo, mio giovane amico»,
mormorò, ignorando gli epiteti che
gli lanciavo contro. Anzi, quasi ne sembrava divertito. «Ti
ho donato la luce
di Febo e tu mi ringrazi così? Sei crudele, ragazzo [2]».
«Lasciami andare, Diablo!»
esclamai furente,
cercando in tutti i modi di fargli
allentare la presa intorno ai miei fianchi, così da potermi
allontanare
finalmente da lui. Ogni tentativo, però, parve non portare
al risultato
sperato, poiché quelle braccia che mi stringevano sembravano
fatte di marmo.
Era come cercare di lottare contro il vento: inutile e infruttuoso.
Tenendomi ancora stretto con un
braccio, Alberto
fece risalire piano una mano e mi carezzò i capelli
con essa,
strofinandoci poi il viso. «É
esattamente
così, Miguel». Si scostò verso il
mio volto, seguendo con la lingua la linea della mascella.
«Io sono il Diavolo»,
sussurrò con voce roca e passionale, ansimandomi
all’orecchio quando risalì
piano verso di esso, «e tu sarai il santuario della mia
carne».
Strinsi gli occhi nel sentire la sua
mano scivolare lungo il mio petto, e mi morsi persino il labbro
inferiore al
sangue nell’udire le sue parole. No. Non avrei mai permesso
che divenissi il
giocattolo di quell’uomo, quel demone o qualunque altra cosa
egli fosse. Avrei
lottato con tutte le mie forze e, se davvero aveva condiviso con me
quell’essenza che lo animava, quella che lui stesso aveva
chiamato luce di
Febo, avrei fatto in modo che essa si ritorcesse contro di
lui con
l’impetuosità di una burrasca.
Fu senza riflettere che gli artigliai un
braccio con entrambe le mani, sbrindellandogli la carne ancora e ancora
fino a
sentire i muscoli e il tessuto sotto le mie dita, il rumore sordo e
viscido dei
legamenti che si spezzavano, il cozzare delle mie unghie contro le sue
ossa
mentre nelle mie orecchie risuonavano le sue strazianti grida di
dolore, che
divenivano sempre più alte mano a mano che continuavo la mia
opera di
lacerazione.
Non mi fermai neanche quando lui mi
afferrò la mano e mi spezzò le dita con un suono
secco, agendo come se fossi
manovrato da un’entità malvagia che compiva tale
opera al mio posto. Però io
ero cosciente, sapevo fin troppo bene cosa stavo facendo; e dentro di
me ne
gioivo terribilmente. Qualcosa, qualunque essa fosse, voleva che io
continuassi
a comportarmi come stavo facendo, incitandomi ad andare sempre
più a fondo per
non lasciare scampo a quell’uomo. Aprii di scatto la bocca e
mi avventai
voracemente contro il suo collo, guidato dal prepotente pulsare
dell’arteria che
udivo al di sotto della sua pelle. Lo morsi senza rendermi pienamente
conto di
ciò che facevo, sentendo il sangue sprizzare sulle mie
labbra e scendere nella
mia gola, sempre più giù, nel mio stomaco,
assestandosi in esso come se il suo
posto fosse sempre stato quello fin da tempi immemori. Mi fermai solo
quando il
corpo di Alberto
si accasciò inerme e leggero fra le mie
braccia, quasi fosse
stato una piuma anziché un cadavere. Riacquistato un lieve
barlume di lucidità
lo adagiai piano sul pavimento, restando fermo in ginocchio a fissarlo
senza
vederlo davvero, in un misto di stupore e profonda contemplazione.
Non potei vedere ciò che
avevo appena
fatto, però di una cosa fui più che certo:
mai come in quel momento mi
ero sentito in grado di poter fare qualunque cosa io volessi o provassi
anche
solo ad immaginare, e nel sentire ancora il calore e il sapore del
sangue e la
sua consistenza vischiosa sulle mie mani, sul mio viso, nella mia
stessa bocca,
non potei evitare di ridere; risi e risi finché il fiato non
cominciò a venir
meno, tenendomi un braccio sullo stomaco e avvertendo le lacrime
sgorgare dagli
angoli dei miei occhi ciechi per scivolare con lentezza lungo le
guance.
Forse, alla fin fine, la
verità era che
uccidere mi era piaciuto.
Lo
squillo improvviso del telefono mi ridestò dai miei pensieri
e allungai a
tentoni una mano per afferrare la cornetta, sorridendo quasi
compiaciuto. Visti
i tempi che correvano e gli avvenimenti che si stavano susseguendo in
quell’ultimo periodo, non era difficile capire chi ci fosse
dall’altro capo
dell’apparecchio. «Buenas noches, chica
[3]»,
risposi divertito, e mi godetti lo sconcerto che sentii chiaramente
nella sua
voce.
«Come sapevi che ero
io?» mi
domandò, e io risi sonoramente. Come detto, chi altri
sarebbe mai potuto essere
se non lei? Lewis, la mia chica,
mi
stava dando un bel da fare da parecchi giorni.
«Chiamala pure... intuición»,
ribattei
sarcastico, ma lei non
sembrò cogliere l’ironia.
«Non sei affatto
divertente».
«Lo
siento, chica, yo no querìa
[4]».
«Piantala di parlare in
spagnolo e
stammi a sentire», sbottò.
Risi sonoramente ancora una volta,
genuinamente divertito. L’irritazione che avevo sentito era
qualcosa che,
nonostante tutto, mi metteva quasi allegria. Eravamo stati amanti per
un lungo
periodo, e ogni qual volta parlavo la mia lingua madre lei sembrava
ricordare
quei momenti passati insieme. Per quanto la snervasse, io trovavo
divertente il
ribadirlo. Riacquistai pian piano la serietà,
però, intuendo che quella
chiamata, conoscendo Lewis, non era stata fatta per puro diletto.
«Sei per caso
nei guai, chica?»
Ci mise un po’ a rispondere,
ma
alla fine snocciolò tutto ciò che aveva da dire.
«Non voglio mentirti, Miguel,
quindi... aye, sono nei guai», replicò in tono
secco e aspro. «Ho bisogno di
andare a parlare con Dante».
«Dante?» ripetei,
zittendomi
all’istante. Perché mai aveva bisogno di
incontrare proprio lui? Mi sembrava di
essere stato abbastanza chiaro quando le avevo detto di non
immischiarsi in
quella storia più grande di lei. E avere a che fare con
Dante, beh... non era
la mossa più saggia che mi sarei aspettato da una del suo
calibro. Dunque
sospirai e schioccai
le labbra. «Por
favor,
chica, segui il consiglio che ti ho dato e lascia perdere.
L’ultima persona
di cui hai bisogno è proprio quel hijo de puta di
Dante».
«Miguel... che cosa sai che io
non
so? Cosa mi stai nascondendo?»
«Te ne parlerò se
mai riuscirai a
restare viva, chica»,
replicai, interrompendo alla svelta la
comunicazione prima che potesse chiedermi qualsiasi altra cosa. Non
avevo la
minima intenzione di ascoltarla, giacché potevo benissimo
immaginare cosa
avrebbe potuto domandarmi. Già una volta mi aveva chiesto di
dirle tutto ciò
che sapevo riguardo la storia in cui si era immischiata, ma mi ero
tagliato
fuori immediatamente. Quel poco che conoscevo era abbastanza per
mandare al Diavolo
mi vida una
volta per tutte, e tutto
perché conoscevo fin troppo bene i modi di fare di Dante e
della sua antichissima
famiglia. Non avevo la benché minima intenzione di buttare
al viento
settecento anni e più, non dopo tutto
ciò che avevo
passato per ottenere quella fittizia tranquillità in quella
città chiamata St.
Louis.
Avevo ambito così
ardentemente al
sole e al poterlo finalmente vedere, e, anche se quella trasformazione
non mi
aveva donato nuovamente l’uso della vista, avevo potuto
continuare a vivere per
lungo tempo solo grazie a quella mia nuova condizione, sebbene avessi
dovuto
sacrificare la mia anima per ottenerla. In un modo tutto mio,
esattamente come
aveva promesso Alberto di Domenico, ero stato in grado di vedere
più di quanto
non avrei mai potuto fare da mortale, acquisendo una conoscenza tale
che mai
avrei sognato di poter un giorno possedere, arricchendomi grazie a
tutto ciò
che avevo potuto assaporare con gli altri sensi che mi erano rimasti;
avevo
potuto così comprendere che il sole di cui Alberto mi aveva
parlato altro non
era che la consapevolezza dei secoli che mi erano passati dinanzi,
tutto ciò
che avevo imparato nel sentirli scorrere come granelli di sabbia tra le
mie
dita, e avrei fatto di tutto per far sì di tenere stretta
fra le mie mani
quella luce che avevo rubato il giorno stesso in cui mia madre era
morta.
La mia vita sarebbe stata per
sempre immersa in un mondo di tenebre, quella era una realtà
che purtroppo non
avevo il potere di cambiare; ma quell’unico e fittizio sole
che mi era stato
donato avrebbe continuato a splendere nei recessi di esso, fino alla
fine dei
secoli che mi sarebbero rimasti.
ARKADIA: A STORY OF BLOOD AND
SORROW
FINE
[1] Il
significato di questa frase
sta nel nome stesso del protagonista. Miguel è lo spagnolo
del nome Michele, e
come già accennato dal co-protagonista di questa storia,
è anche il nome di un
Arcangelo di Dio. Quel nome, tra l’altro, deriva
dall’espressione Mi-ka-El, che
significa “Chi è come Dio”. Si vuole
dunque intendere che, agli occhi di
Alberto, Miguel meriti il potere derivante dalla trasformazione in
vampiro
anche solo per quello. E’ inoltre un vago riferimento alla
frase “Il male è un
punto di vista. Dio uccide indiscriminatamente e così faremo
noi, perché
nessuna creatura di Dio è come noi; nessuno è
simile a lui quanto noi”
pronunciata da Lestat in “Intervista col vampiro”.
[2] Questa
parola, che all’apparenza
sembra non avere niente di strano, è stata segnata per due
semplici motivi. Il
primo è che Miguel, avendo trent’anni, potrebbe
essere considerato un giovane
uomo e non un ragazzo, ma agli occhi di Alberto
lo è a causa
della differenza
esagitata di età; il secondo, invece, è
perché la parola in questione è
pronunciata in italiano anziché in spagnolo, la lingua che
parlano i
protagonisti della storia. L’uso di parole spagnole nelle
frasi è solo un
rafforzativo, come se fossero delle intercalari.
[3] La
traduzione sarebbe “Buona sera, ragazza” ed
è
ovviamente spagnolo.
[4] La
traduzione sarebbe “Scusa, ragazza, non volevo”
ed
è ovviamente spagnolo.
_Note
conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia è stata scritta per il contest Il
libro che avete amato
indetto
da miss dark, e si
è
classificata Prima con
mio stupore. Che dire, comunque.
Finalmente sono riuscita a
scrivere qualcosa anche da parte di Miguel e sono felice di averlo
fatto. Come già accennato nello
specchietto introduttivo, questa storia è uno spin off della
long fiction Under
a
bloody sky, facente parte della serie St.
Louis ~ Bloody Nights.
Partiamo
subito con il dire una cosa che mi sta molto a cuore, prima che questa
cosa
possa danneggiare la storia, giacché purtroppo mi
è già capitato una volta
quindi non voglio rischiare: a causa della condizione di Miguel ho
dovuto
purtroppo sacrificare la descrizione paesaggistica per dar maggior
rilievo
all’introspezione del protagonista e dei personaggi
secondari, però, nonostante
questo handicap - difatti adoro da morire descrivere i luoghi in cui le
mie
storie si svolgono -, scrivere questa storia per me è stato
un piacere.
Era
da troppo tempo che volevo farne una sul punto di vista di Miguel, e
questo
contest mi ha dato un pretesto per mettere in atto la mia idea.
Spero che la storia sia
piaciuta, vi lascio al commento della giudice. ♥
ARKADIA: A STORY OF BLOOD AND
SORROW
PRIMA
CLASSIFICATA
GIUDIZIO
Grammatica: 9/10
Originalità della trama: 8/10
Caratterizzazione dei personaggi: 9/10
Stile e Lessico: 10/10
Totale: 36/40
Io non amo particolarmente le storie di vampiri e, in generale, le
storie soprannaturali. Preferisco storie in un certo senso
più reali e più vicine alla mia
quotidianità, ma, ti dirò, questa storia mi
è piaciuta moltissimo. Prima di tutto perché
è scritta davvero davvero bene e per questo hai guadagnato
il massimo dello stile. Non ti ho dato il massimo del voto nella
grammatica perché ci sono alcune ripetizioni e alcune frasi
poco chiare, ma nulla di grave, nel complesso è una storia
scritta molto bene. La parte in cui Miguel viene morso da Alberto
è di una bellezza sublime, quasi unica. Non credo di aver
mai letto un passaggio così ben scritto e così
realistico. Ed ecco il secondo complimento che ti voglio fare,
benché fosse una storia di vampiri, hai dato molto spazio
alla condizione umana e all’umanità stessa del
personaggio, caratterizzato quasi alla perfezione. Dico quasi (e non ti
ho messo il punteggio pieno) perché hai accennato nel primo
capitolo ed anche nell’epilogo ad un aspetto del carattere di
Miguel, l’amore passionale per le donne, che nel resto della
storia è stato quasi eclissato o, addirittura, contrastato
dalla situazione di cecità del protagonista, che lo
rendevano timido e in qualche modo impacciato. Probabilmente hai
sviluppato meglio questa caratteristica nelle altre storie della serie,
ma, come ti dissi, io mi sento di giudicare solo questo episodio, e non
la storia nel complesso.
Perché solo 8 nell’originalità della
trama. Principalmente perché credo che di storie sui vampiri
ne siano state scritte troppe, veramente troppe. Non sono assolutamente
a conoscenza del genere di storie che vaghi in quella categoria,
proprio perché ho visto il loro numero crescere
esponenzialmente e ho preferito evitare di leggerle, per paura che
fossero delle idiozie totali. Proprio per questa mia ignoranza a
riguardo, quell’8 non è un 7, perché
credo che questa tua storia sia più originale di molte
altre. Ma, ripeto, questa è una mia impressione e forse
crederai che questo parametro di giudizio, nel tuo caso, sia campato
per aria, ma, te lo assicuro, ho riflettuto molto a riguardo e credo,
comunque, che sia un buon voto.
Infine parliamo della citazione. E’ una bellissima frase, sia
letta in chiave metaforica sia in chiave più pratica.
E’, diciamo, una frase a senso doppio, che può
andare sia in una direzione sia in un’altra e la tua bravura
è stata proprio quella di lasciare aperte le strade per
entrambe le interpretazioni.
Concludo dicendo che sono molto incuriosita di leggere le altre storie
della serie e credo proprio che lo farò!
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
|