Il
ragazzo della città dei ponti
Uno
Utcái fiúk
- Ragazzi di strada
Debrecen,
Provincia di Hajdú-Bihar,
Ungheria Orientale
13
Dicembre 1847
Si diceva che mettesse
i brividi, il ragazzo della città dei ponti.
Era
un rivoluzionario, ma uno dei più selvaggi, di quelli che
sarebbero anche passati sul cadavere della propria madre, per quella
Forradalom
tanto
agognata.
Era un rivoluzionario
dei più spietati, ma i teppistelli di Duna Sugárút
non lo temevano affatto.
Nessuno sapeva dire
quanti anni avesse, il ragazzo della città dei ponti.
C'era chi lo credeva un
ragazzino, chi addirittura un giovane uomo.
Di anni avrebbe potuto
averne quindici o ventitré come centoquattordici, ma i
teppistelli di Duna Sugárút gli avrebbero insegnato a
stare al suo posto.
Non c'erano leggi
precise, nella periferia di Debrecen.
Forse,
solo una parola, Forradalom,
ripetuta ad ogni passo dalle suole bucate degli stivali della
stagione passata, nello scroscio costante e familiare del Danubio,
gridata contro il vento dai ragazzi di quel vicolo stretto stretto
ch'era un po' la leggenda, lo storico suolo dei rivoluzionari di
Debrecen.
A Duna Sugárút
non contava come ti chiamassi, se avevi il nome di un principe o di
tuo nonno erbivendolo o pescatore, se avevi il nome di tua madre o
della figlia dello zar di Russia.
La
cosa più importante, l'unica che veramente avesse valore, in
quel fazzoletto di città, in quell'angolo di periferia dove
non batteva il sole, era vivere in nome della Forradalom,
la Rivoluzione.
Dùnja Geréb,
per esempio, sapeva di non essersi sempre chiamata Dùnja.
Era quasi certa che
all'anagrafe, e forse addirittura anche tra le amiche di sua madre,
qualcuno la conoscesse ancora come Anasztázja, poiché
codesto era il nome di sua nonna, della sua bisnonna e di qualche
altra trisavola a caso, e suo padre non era mai stato famoso per la
fantasia, ma se a Duna Sugárút qualche povero illuso,
magari anche in buona fede, avesse chiesto di Anasztázja
Geréb, avrebbe certamente trovato chi non si sarebbe fatto
problemi a mandarlo al diavolo.
In Russia Dùnja
era il vezzeggiativo di Avdotja, e una volta uno sventurato dei
quartieri alti aveva pure provato a chiamarla così, ma oltre
ad uno sputo in un occhio non aveva ottenuto reazioni da parte della
ragazza.
Nonostante la Russia
fosse il suo sogno e suo padre vi lavorasse da più di dieci
anni, la piccola Geréb vi aveva messo piede solo tre o quattro
volte in tutta la sua vita.
I
teppistelli di Duna Sugárút l'avevano sempre chiamata
Dùnja per la Duna,
il nome ungherese del loro caro Danubio, il fiume ch'era la luce dei
suoi occhi, più ancora del meraviglioso Lago Balaton, il fiume
sulle cui rive aveva raccolto catini d'acqua da far bollire o per
lavare i piedi la sera, il fiume sulle cui generose e materne sponde
aveva riposato quando, ad affitto scaduto, il signor Leszik l'aveva
buttata fuori di casa con mamma, papà e fratelli.
A
Dùnja non era che importasse un granché, di questo
fantomatico ragazzo della città dei ponti -semmai le importava
di Budapest, la Capitale, di cui era innamorata fin da bambina-, ma
una cosa era certa: se aveva intenzione di arrivare al banco di
Nándor Dénes, giovane originario di Győr
con la passione per i dolci, a comprare la sua quotidiana stecca di
croccante -e guarda caso era proprio quello che voleva fare-, avrebbe
dovuto passare davanti a lui.
Nándor Dénes
le aveva già sorriso, avendola vista pensierosa sui gradini di
casa, e le stava facendo segno di avvicinarsi.
Il suo croccante era
rinomato, a Duna Sugárút, ma lei si alzava sempre
talmente presto che un bel pezzetto di quella prelibatezza alle
nocciole avvolto frettolosamente in un foglio di carta stagnola,
poiché a quell'ora del mattino, in genere, Nándor Dénes
aveva appena finito d'imbandire la sua bancarella, lo doveva per
forza trovare.
-Come fa di cognome?-
domandò con discrezione a Mitrej, il suo vicino di casa russo,
ch'era giusto giusto uscito sulla soglia di casa ad attendere il
padre di ritorno dalla miniera.
-Csónakos-
rispose a bassa voce Dmitrij Romanovič,
badando bene di non farsi notare dal diretto interessato.
Dùnja annuì
con estrema compostezza, guardando il giovane che si stagliava nella
penombra mattutina del cuore un po' tenero un po' rude della
periferia di Debrecen.
Era grande, Debrecen,
anche se non come Budapest.
Era
grande, la città, la città vera,
ma la periferia, il cui massimo, misero splendore era raggiunto a
Duna Sugárút, era un altro mondo.
Il
suo.
-Csónakos come?-
-Il suo nome non lo sa
nessuno- l'informò Mitja, con un'aria tanto cospiratoria che
Dùnja non seppe trattenersi dallo scoppiare a ridere.
Con molta cautela ruotò
la testa in direzione del ragazzo della città dei ponti,
guardandolo con sospetto.
-Dùnjetshka!- la
riprese Mitrej, spaventato da tanta sfacciataggine nei confronti del
nuovo, inquietante arrivato, usando il vezzeggiativo di quando era
alta quanto il tavolo della cucina.
-Cosa vuoi che pensi,
ad essere scrutato a quel modo?-
-Non lo so,
ma...possibile che nessuno ne conosca il nome?-
-Sai come sono Fëdor
e Aleksej- sospirò il ragazzo, facendo il saluto militare nel
pronunciare i nomi degli eroi indiscussi di Duna Sugárút.
-Non chiamano nessuno,
loro... Sono gli altri ad andarli a cercare, e mai a testa alta-
Dùnja alzò
gli occhi al cielo.
Fëdor
e Aleksej erano degli scapestrati fatti e finiti, ma per un' assurda
-e indubbiamente discutibile-
combinazione di stelle, erano anche due dei suoi più cari
amici. Li conosceva più dei riflessi del Danubio, ed erano
della stessa pasta di Ìmir e Baldr, i suoi fratelli maggiori.
Sospirando, fece per
fare un passo in direzione della bancarella di Nándor Dénes,
ma fu costretta a fermarsi: il ragazzo della città dei ponti
s'era avvicinato alla sua meta e pareva proprio essersi piantato lì,
davanti al regno del croccante, evidentemente senza la minima
intenzione di spostarsi.
-Ma guardalo! Se ne sta
lì immobile, come un cretino...- protestò, tormentando
una ciocca dei capelli biondi che non tagliava da una vita e che
costantemente sua madre le acconciava nella treccia che ogni giorno
si divertiva a sciogliere durante la strada per la Stamperia.
Erano il marchio di
fabbrica delle ragazze Geréb, quei capelli.
Di un biondo chiaro
ereditato tutto da suo padre -ma anche dalla mamma e dalla nonna,
originarie di Presburgo, l'antica capitale del Regno d'Ungheria-,
indecentemente lunghi e meravigliosamente spettinati.
Sua madre, che pure non
era da meno, era soggetta a vere e proprie crisi isteriche, quando
non li legava, e più di una volta le aveva gridato dietro:
"quando te li calpesterai sarai contenta, immagino!".
Ma di questo, se mai
fosse successo, avrebbe dovuto parlare con nonna Eireann, l'unica che
aveva davvero rischiato di calpestarseli, e che era tuttora la
quarantatreenne più affascinante e la "ragazza" più
ammirata di Debrecen.
-Secondo
me è
un cretino- commentò Dmitrij, serio serio -E la Rivoluzione la
vuole fare solo per dimostrare che non tutti i rivoluzionari sono
intelligenti-
Dùnja scompigliò
affettuosamente i capelli scuri dell'amico, sebbene quest'ultimo
avesse due anni più di lei.
-Parla per te, Mitja-
-Lascia stare Mitrej e
prendi un po' di croccante anche per noi, Dùnjetshka-
l'interruppe l'accento polacco e la voce fin troppo sicura di sé
di Fëdor Rájk.
Biondissimo,
malauguratamente diciassettenne -i ragazzi più grandi erano
sempre
insopportabili,
a detta della piccola Geréb- e originario di Cracovia, "il
ragazzo dalle vanaglorie di capo di Duna Sugárút",
come Dùnja era solita chiamare Fëdor, le aveva messo in
mano una manciata di fillér, più allegro che mai.
Accanto a lui, un po'
più scuro di capelli, diciannovenne -ma non si vedeva neanche
un po'- e nato a Brno, Aleksej Doroevskij le sorrideva, serafico.
-Ecco
Castore e Polluce-
sbuffò la ragazzina, ma era evidente che la presenza dei due
la preoccupasse non poco: se loro
erano già in piedi, allora anche i suoi terribili
fratelli
dovevano essere lì lì per svegliarsi!
E
i suoi terribili
fratelli,
si sapeva, erano ghiotti di croccante.
-Devo riuscire a
precedere Ìmir e Baldr!- fece presente ai tre baldi giovani presenti,
per poi correre verso la bancarella di Nándor Dénes.
-Sbrigati, però!-
le gridò dietro Fëdor, battendosi una mano sullo stomaco.
In quel momento Dùnja
aveva una voglia incredibile di lanciare i suoi fillér nel
Danubio, girarsi e fargli una linguaccia, ma c'era davvero il rischio
di non trovare più croccante, così si costrinse a
contenersi.
E, com'era prevedibile,
si trovò davanti il ragazzo della città dei ponti.
Inizialmente sussultò,
poiché il giovane di Budapest, pur non essendo particolarmente
imponente, le sbarrava completamente il cammino, ma poi l'orgoglio e
la fame vinsero su qualsiasi forma di soggezione.
Nonostante l'aria
apparentemente malinconica, l'altezza non esattamente degna di nota
ed il fisico esile e provato dalla povertà, il ragazzo aveva
il sorriso più apertamente sfacciato che Dùnja avesse
incontrato sui volti dei ragazzi di Duna Sugárút.
Nemmeno Fëdor -ed
era tutto un dire- era mai arrivato a tanto!
Sembrava proprio
incurante del mondo, il ragazzo della città dei ponti.
Sorrideva a chissà
chi, sorrideva al cielo, più che altro, con gli occhi persi e
perdutamente grigi, ebbe modo di notare Dùnja.
I capelli erano neri e
folti e, Dùnja ebbe un moto di simpatia verso il giovane,
nell'accorgersi di questo particolare, irrimediabilmente spettinati.
Stava giusto per
chiedergli di spostarsi, quando il ragazzo della città dei
ponti starnutì.
Fëdor scoppiò
a ridere di gusto, tenendosi le mani sul panciotto mal stirato, senza
alcun contegno.
Poco ma sicuro, quella
sera tutti i ragazzi di Duna Sugárút avrebbero saputo
che "Dùnjetshka aveva fatto starnutire il ragazzo della
città dei ponti".
-Conosci quel ragazzo?-
le domandò inaspettatamente il giovane, stiracchiando un mezzo
sorriso apparentemente amichevole.
-Oh, Fëdor? Certo
che lo conosco. Comanda lui, qui. Si chiama Fëdor Rájk, ed è
polacco. E' un mezzo delinquente, ma basta guardarlo, del resto. E'
simpaticissimo, ma insopportabile. So che può sembrare
incoerente, ma...credimi-
Senza che nessuno
glielo chiedesse -e soprattutto senza aspettare reazione alcuna da
parte del suo interlocutore-, Dùnja continuò il
discorso, come se stesse parlando da sola:
-Mi ha chiesto di
essere la sua fidanzata, quando avevo sette anni, ma poi lui mi ha
pestato un piede, io gli ho sputato un occhio, lui mi ha tirato i
capelli, e...-
-Non è finita
bene, insomma-
-Non esattamente. Ma
guardalo! Ti pare uno che può farle finire bene, le cose?-
Il ragazzo della città
dei ponti scosse la testa, divertito.
Scrutandolo con
crescente curiosità, Dùnja dedusse che doveva essere
stato un giovane di bell'aspetto, chiaramente prima di cadere nel
Danubio -poiché questa era l'impressione che dava-.
Non di una bellezza
irriverente come quella di Fëdor, ma un certo fascino doveva
averlo avuto, quantomeno nella sua città d'origine.
-Sembri il moro di
Venezia- pensò ad alta voce, guardandolo con più
attenzione.
Il ragazzo si accigliò.
-E' un complimento?-
-Non so. Poi ha
soffocato la moglie sotto un guanciale, Otello, ma a me stava
abbastanza simpatico. Me l'ha detto mio fratello Baldr: lui l'ha
letto-
"Il moro di
Budapest" pareva confuso.
-Cosa?-
-L'Otello-
-Gli ha letto la mano?-
-Il libro! E'...bello,
credo-
Il giovane annuì,
serio.
-Lo penso anch'io-
-Bene...- Dùnja
sorrise, pregustandosi il "potresti spostarti, adesso?" che
aveva sulla punta della lingua, ma lui la precedette.
-Mi chiamano Csónakos.
Ed io lo so, perché mi chiamano Csónakos. E' il cognome
di mio padre, quindi anche il mio-
-Già...- le
sembrava un ragionamento logico, ma preferì non offenderlo.
Perlomeno non era come
Fëdor, che la prima volta che l'aveva vista, sebbene fosse
pressoché in fasce, non aveva esitato a chiederle due forint e
cinque fillér per comprarsi un pezzo di focaccia al rosmarino.
Il giorno dopo le aveva
chiesto di sposarlo, ma doveva averlo detto per scherzare, perché
subito dopo le era scoppiato a ridere in faccia, e le aveva chiesto
altri quattro forint.
Lanciò
uno sguardo distratto all'oggetto dei suoi pensieri, che la stava
maledicendo in polacco per la sua dannata abilità nel perdere
tempo, per di più davanti
alla bancarella del croccante.
-Com'è
Budapest?- chiese d'un tratto, curiosa.
Sebbene il suo
interlocutore non le paresse particolarmente sveglio, era
maledettamente curiosa di sapere com'era cambiata la sua amata
Capitale.
Il ragazzo della città
dei ponti posò su di lei uno sguardo scintillante, quasi
febbricitante.
Dùnja dimenticò
il croccante, nel muto rancore e nella sfida che brillava negli occhi
di Csónakos.
-Troppo
bella per rimanere in mano agli Asburgo-
Note
Forint:
Fiorini ungheresi.
Fillér:
“Centesimi” di fiorini.
Presburgo:
Attuale Bratislava, capitale della Slovacchia. Fu la Capitale del
Regno d'Ungheria prima di Budapest.
Duna
Sugárút (ungherese): Letteralmente, “Viale
Danubio”, strada di mia invenzione.
Ho
sempre desiderato ambientare una storia in Ungheria, sempre.
Da
quando ho letto I ragazzi della via
Paal, innamorandomene follemente,
l'Ungheria è uno dei miei scenari preferiti.
Molti
dei cognomi dei personaggi (per adesso Geréb, Csónakos
e Leszik), infatti, sono citazioni
del sopracitato romanzo, la mia Bibbia di nomi e cognomi ungheresi ;)
Il
nome Dùnja Geréb, per esempio, nasce dall'Avdotja
“Dùnja” Romanovna Raskòlnikova del meraviglioso Delitto e
Castigo di
Dostoevskij (a cui ho “dedicato” il personaggio di Fëdor,
anche se in comune hanno solo il nome, e Aleksej, da Aleksej
Karamazov) e Dezsö Geréb
dei Ragazzi della via Paal.
La
città dei ponti è Budapest, la meravigliosa Budapest,
durante la Rivoluzione Ungherese del 1848.
Sperando
che questo capitolo vi sia piaciuto, lascio a voi la parola! ;)
A
presto, Marty
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