dylan
LA SFILATA DELLE ZINGARE DIMENTICATE
Non sarò certo io a presentarvi il mio capo.
Voi tutti lo conoscete certamente già, ma anche se ciò
non fosse accaduto, non sperate di potermi estorcere informazioni sul
suo conto.
Vi dirò solo il suo nome, Dylan.
Vi dirò solo il suo indirizzo, Craven Road numero 7.
Vi dirò solo le sue credenziali, indagatore dell’incubo.
Sì, i mostri sono il nostro mestiere. Sembra uno stupido slogan
aziendale e forse lo è, ma è la pura e semplice
verità. O almeno, i mostri sono il suo mestiere, io mi occupo
delle battute.
Se non vi sembro molto comico al momento non fatemene un cruccio, anche
io posso rimanere serio qualche volta; certo, poco tempo, ovviamente, e
qualche battutina puntigliosa ed irritante potrà scappare dalle
mie labbra. Ma non oggi, non oggi.
Che dovrò parlare di Dylan, che dovrò parlare per Dylan, che dovrò parlare, Cristo, Dylan...
Perché sto aggiornando il suo diario? Per adempire ad un mio
dovere, prendere nota degli ultimi avvenimenti, siano questi
deliziosamente leziosi o cupi, tragici.
Dylan non è più.
Alla fine il buio ha inghiottito anche l’ultimo faro rimasto, lasciando a tutti un po’ l’amaro in bocca.
Ho smesso di fumare, sono tre giorni ormai che la notte si anima di
grida, il campanello non sta zitto un attimo, lasciandomi invaso dalle
chiromanti, chiromanti arrabbiate per giunta, il peggio del peggio.
Vengono qui nel cuore della notte, agitando carte, mettendomi sotto il
naso file di sfere di cristallo fumose, tazzine di caffè
sbeccate e macchiate dai fondi ammuffiti e si mettono a gridare “È vivo!”
Dovei credere loro, ma quando alzo lo sguardo vedo solo una pistola
inutilizzata e inutile che stazionerà nel cassetto dei calzini
per molto tempo, sola e fredda, nera e fredda, fredda e basta.
Le streghe non mi fanno dormire, non mi fanno fumare, non mi fanno
bere, non mi lasciano fare nulla per cercare di dissolvermi il
più velocemente possibile. Stanno lì, fisse, a guardarmi
con occhi appannati dalla compassione e dalla pena, mentre camminano
per casa, non facendo caso alle cose che rompono appena le loro lunghe
e pesanti gonne colorate sfiorano uno dei tanti cimeli che riempiono
l’appartamento. Rimangono lì, nel turbinio di scialli
colorati, nel calore della loro pelle olivastra, nei bagliori nerastri
dei loro lunghi capelli (quelle che, fortunate, ne hanno ancora da
vendere intendo).
“È vivo, è vivo”
Dopo tutto questo tempo, non ci credo più. Quell’uomo...
sparisce, ricompare, sparisce di nuovo, mi torna tra i piedi
minacciando un licenziamento che mai avverrà e tenendo tra le
braccia una nuova fiamma, possibilmente svenuta o posseduta dal demonio.
Bionda, bruna, rossa, alta, bassa, non c’è differenza, Dylan le ama tutte.
L’espressione più estrema di poligamia, beato lui,
invidiato perfino da quei strani sceicchi che viaggiano sui cammelli
con quaranta mogli al seguito vestite Chanel. burqa compreso,
s’intende, della collezione inverno-inverno.
Se lo invidio (invidiavo, Groucho, invidiavo) mi chiedete? No. La mia vita in mezza solitudine mi va benissimo così, senza donne tra i piedi si vive meglio, lo dico (dicevo) sempre a Dylan che mi rispondeva con un laconico “Dai, Groucho, fai questa battuta e vattene”
“È vivo, è vivo!”
Basta vecchie cornacchie, Dylan è morto e non tornerà,
l’ho visto accasciarsi a terra, con la grazia dell’ubriaco
che fu, scivolato su un gradino (l'immortale, pfui). Caduto dalle
scale, salutando la vita con un gesto così distratto e
così poco da lui. Scivolare... ancora non ci credo.
“È vivo, è vivo!”
Ma se ne ho portato il feretro, a spalla, fin sulla collina, per poi
deporre la bara nella tomba, lanciandogli sopra un pungo di terra che
fiorirà un giorno.
“È vivo, è vivo!”
Silenzio, silenzio. Vi voglio fuori di qui, vi voglio subito fuori, non m'interessa, non m'interessa.
“Devi aspettarlo”
Una vecchia, ma che dico, vecchissima zingara mi si avvicina appoggiata
ad una bambina come i vecchi nel parco si aggrappano al bastone. Il
viso coperto di rughe nasconde gli occhi a chi li cerca, lasciando solo
le sopracciglia rade e il naso adunco, affossato anch'esso nella faccia
cannibale.
Mi mostra la carta della morte, uno scheletro... falce, martello, il solito insomma. La guardo ma non la vedo.
“Guarda” mi esorta, spingendomela fin sotto il naso.
Al braccio destro la morte tiene appeso un cartello.
“ASPETTAMI”
Maledetto, me l'ha fatta un'altra volta!
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