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Prologo
Cinquantaquattro
giorni esatti. Cinquantaquattro giorni in cui si era sentita
progressivamente invecchiare, decadere, morire.
Non
pensava sarebbe stato tutto così
difficile. Così cupo. Così terribile. Non pensava
che
seppellire suo padre, barbaramente ucciso e mutilato, sarebbe stato
come tornare in quell'orfanotrofio. Bambina abbandonata, dimenticata,
triste e solitaria, messa all'angolo a ogni domanda, punita.
Solo
quel giovane prete l'ascoltava, e aveva finito per portarla via con se,
dopo nove anni di solitudine.
Finalmente
non si chiamava più solo
Vittoria, poteva avere anche un cognome. Vetra, come padre Leonardo.
Suo padre. L'uomo che aveva vissuto per tre cose soltanto: Dio, lei e
la scienza. Ma ora era morto. Sepolto sotto quella terra gelida, in un
anonimo cimitero di Ginevra.
Quel
corpo, martoriato, su quel fax
stropicciato. Quel marchio. ILLUMINATI. L'occhio gettato accanto alla
porta del loro laboratorio. Il sangue.
Ebbe
una fitta allo stomaco, l'ennesima in quegli ultimi giorni.
Da
allora non era riuscita più a
mangiare, se non qualche minuscola porzione per evitare di perdere
conoscenza. Si era abbandonata a se stessa, rifiutandosi di tornare in
quei laboratori e convincendosi di essere tornata alla routine, solo
perché aveva continuato a lavorare con lo staff e a
nascondere
il dolore sotto un sorriso. Una maschera che non era la sua.
-
Coraggio… tuo padre non vorrebbe vederti così.
Le
aveva detto un sacerdote, dopo il funerale.
-
Mio padre è morto. Non può vedermi, padre.
Gli
aveva risposto, asciugandosi le lacrime
davanti a quella lapide. Dieci giorni prima era morto, dieci giorni di
accertamenti, l'autopsia, sentirsi dare spiegazione assurde. La
verità, lei, già la sapeva, ma non poteva dirla.
"Se
solo almeno tu fossi qui…"
Vittoria
strinse i pugni, per evitare di
piangere ancora. Era sola. Sola con il suo dolore, sola con i suoi
ricordi, sola con quel fardello. Un fardello troppo pesante.
Cinquantaquattro
giorni prima era a Roma.
Cinquantaquattro giorni prima era rimasta per la seconda volta orfana,
era stata rapita, era stata salvata, era stata la causa di quella
tremenda annichilazione in cielo.
Cinquantaquattro
giorni prima era sotto
quell'uomo che dal primo momento le aveva trasmesso la voglia di andata
avanti, di non piangere, di non soffrire. Lo stringeva, lo baciava,
sperando che quel momento non finisse mai. Ma sapeva che c'era un nuovo
dolore ad attenderla.
Poche
ore di benessere. Poche ore in cui era
riuscita ad accantonare i brutti pensieri e il dolore. Aveva fatto
l'amore con lui, Robert Langdon, sperando di morire nel momento stesso
in cui lui si fosse accasciato sul suo corpo. Sperando di non
ricordarsi l'ennesimo addio.
Rievocò
quegli attimi: le carezze, i baci, i sussurri, gli ansiti, i gemiti.
Poi
di nuovo dolore, ancor più intenso.
L'aeroporto affollato, lui che era ormai sparito, pronto a prendere il
volo. Troppo lontano da lei.
Aveva
chiuso gli occhi e fatto un respiro
profondo. Era rimasta sola per la terza volta, l'avrebbe sopportato
come sempre. Ma avrebbe venduto l'anima al diavolo per averlo
lì
quando si era trovata di fronte al cadavere di suo padre, stavolta in
carne ed ossa. Quanto avrebbe pagato per avere la sua spalla, il suo
calore. Quanto aveva desiderato scappare via, correre da lui.
Ma
si era rialzata, di nuovo.
Ma
la vita, evidentemente, aveva ancora molte sorprese per lei. Sorprese
che nemmeno lontanamente si sarebbe aspettata.
Non
sarebbe stata più sola, anche se con enormi sacrifici.
Cinquantaquattro
giorni prima, quell'uomo le aveva fatto il regalo più bello
del mondo.
Un'altra
occhiata a quel bastoncino di plastica che aveva in mano.
Cinquantaquattro
giorni prima, dalla morte era germogliata la vita.
Stava
per avere un figlio.
E
per la prima volta riuscì a sorridere senza dolore.
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