Caged - Ingabbiato
Successe in una fredda
sera d’Inverno di circa quindici anni fa. Dalle finestre
della mia camera potevo vedere la neve che vorticava caoticamente nel
cielo del medesimo colore, come a voler riprodurre, anche
all’estero di quella prigione, la stanza dove mi avevano
confinato.
Ero un elemento
pericoloso, un “maniaco omicida”, dicevano loro.
Così, credendomi pazzo, mi avevano messo in una cella di
confinamento interamente bianca. Le lenzuola, i mobili, i muri, il
soffitto, la luce, il pavimento, perfino gli stessi cibi che mi
portavano erano bianchi, come anche la camicia di forza che indossavo.
[Sokaro!centric - Sokaro + Tiedoll, Sokaro x Allen]
FanFiction classificata
2° e Vincitrice del premio Drago d'oro (per la storia
più originale) al "Mahjong
Contest" indetto da My Pride sul forum
di EFP
-Autore:
XShade-Shinra
-Titolo della storia:
Caged - Ingabbiato
-Fandom:
D.Gray-man
-Pacchetto:
Drago
- Tessera:
Bianco
- Coppia:
Froi/Winters
- Citazione: “Un
uomo vivo è meglio di
qualsiasi uomo morto, ma nessun uomo vivo o morto è molto
migliore di qualsiasi altro uomo vivo o morto” [William
Faulkner]
-Rating:
Giallo
-Genere:
Introspettivo, Malinconico
-Tipologia:
One-Shot
-Avvertimenti:
Shounen-ai, WI/MM
-Disclaimer:
Tutti i personaggi di questa storia sono maggiorenni e
comunque non esistono/non sono esistiti realmente, come
d’altronde i fatti in essa narrati. Inoltre questi personaggi
non mi appartengono (purtroppo…), ma sono
proprietà dei relativi autori; questa storia è
stata scritta senza alcuno scopo di lucro ma solo per puro divertimento.
-Note dell'autore:
Se mi viene dato il prompt
“bianco” e c’è di mezzo
Sokaro, come potevo trattenermi dal fare un (corposo) accenno a uno
degli sfiga!pair che più adoro del fandom, la Sokaren?
<3 Questa dovrebbe
essere la prima in circolazione, ma spero di sbagliarmi e che qualche
anima pia in qualche fandom straniero abbia già preso in
considerazione questo sfigatissimo pair!
- Sia chiaro, adoro Link e le Linkllen, quindi nella FF non
c’è ovviamente bashing su questo PG.
- Un piccolo pezzo è liberamente tratto dalla poesia
“Soldati”, di Ungaretti.
- Winters è messicano, nella scheda dei personaggi, ma i
fans pensano che abbia origini azteche, e questo lo si può
intuire da diverse cose, sia fisiche che caratteriali, come per
esempio: l’amore per le battaglie cruente, i capelli e gli
orecchini.
- La parte in mezzo dovrebbe essere tutta in corsivo, ma, sapendo bene
che ciò mi varrebbe almeno dieci anni di maledizioni, la
lascio normale. Si tratta comunque di un Flash Back con il P.o.V. di
Sokaro.
- Ho controllato, e il Messico risulta essere una zona dove accadono
terremoti anche di grossa entità.
Caged – Ingabbiato
Il respiro
composto e dolce dell’Esorcista Allen Walker
veniva quasi nascosto da quello profondo e rumoroso del Generale
Winters Sokaro, disteso al suo fianco sul morbido talamo di
quest’ultimo.
I due si riposavano e rifiatavano dopo la loro estenuante unione di
poco prima – un connubio dove piacere, rispetto e forza si
mischiavano tra loro per creare un qualcosa di unico, che strideva come
lamiera accartocciata e suonava armonioso come corde vocali di un
angelo.
I due si erano scoperti “grazie” al fantasma che
aveva causato il panico nella Home, possedendo tutti gli Esorcisti e
membri della sezione scientifica presenti. Il morso di Sokaro
– il quale si era presentato davanti a tutti con uno
striminzito asciugamano a coprirgli le vergogne, esattamente come gli
altri due Generali lì presenti –
aveva contagiato Allen, che, una volta tornato normale grazie al
“coraggioso” intervento di Bak Chan, aveva ricevuto
le scuse dal messicano.
Da lì era nato tutto.
Dapprima solo sguardi, poi piccole chiacchierate in presenza di Link,
per poi arrivare al culmine, quando il messicano aveva mandato a
chiamare Allen per parlargli in privato e aveva chiuso la porta in
faccia all’Ispettore, per poter così baciare
appassionatamente quel giovane Esorcista dall’esterno
delicato, ma dall’animo più resistente
dell’amianto.
Da quel momento, almeno due volte a settimana –
quando entrambi si trovavano alla Home –,
Allen riusciva a sfuggire
al controllo di Link per un paio d’ore con scuse sempre
più originali: allenamenti per diventare un ninja, diarree
incombenti, incontri appassionati con Lenalee – la quale,
appresa la notizia della strana relazione tra Allen e il Generale, era
svenuta –, andare a riprendere Timcanpy – complice
del misfatto – sparito chissà dove, e
quant’altro. Sokaro aveva spesso chiesto ad Allen se avesse
voluto liberarsi per sempre della nefasta presenza di quel
“pastore tedesco ringhiante”, ma
l’inglesino lo aveva scongiurato di non fagli del male, anche
perché avrebbero passato guai seri.
Quel giorno, Allen era particolarmente soddisfatto delle performance
del suo compagno – una montagna di muscoli che lo portava
ogni volta all’estasi – e gli accarezzava il ventre
pieno di cicatrici, soffermandosi a giocherellare con quelle causate da
tre fori di proiettile. Quei segni chiari rilucevano alla fioca luce
della lampada a gas che illuminava la piccola stanza del Generale, in
contrasto con il colore scuro della sua pelle.
Dopotutto, ad Allen erano sempre piaciuti i moretti dalla pelle
abbronzata.
«Win?», lo chiamò l’inglese,
abbracciandolo – per quanto le mastodontiche dimensioni della
cassa toracica di Sokaro gli permettevano. «Posso chiederti
una cosa?».
«Certo, Allen», rispose lui, sempre gentile e
garbato con il suo ragazzo. Solo
con il suo ragazzo.
«Ci siamo detti molte cose l’uno
dell’altro, ma c’è una cosa che volevo
domandarti…».
«Sentiamo».
«Come mai quando sei con me non usi la tua maschera
contenitiva?», chiese l’Esorcista, indicando
l’orrenda maschera che Sokaro, solitamente, portava indosso.
L’uomo si girò e guardò
l’oggetto della domanda di Allen, sospirando.
«La risposta non è così semplice e
scontata. Dovrei raccontarti di quando sono uscito di
prigione», spiegò, abbracciandolo di rimando,
stando attento a non schiacciarlo senza accorgersene.
«Ho detto a Link che andavo a fare il bagno e che ci avrei
messo un po’. Lo sai che è molto pudico, non
entrerà mai a controllare», gli disse in risposta.
«Quanto tempo abbiamo, prima che
s’insospettisca?», domandò il Generale,
baciando la fronte di Allen sul pentacolo.
«Mezz’ora».
«Mi basterà», affermò Sokaro,
tornando a stendersi supino, tenendo un braccio allacciato alla vita
del ragazzo. «Come ben sai sono un condannato a morte, ma
l’Ordine mi ha “salvato”, mandando uno
dei suoi membri a prendermi. Successe anni fa, quando eravamo entrambi
giovani».
«E chi è stato? Forse il Maestro?».
«No, no. Lui era da qualche parte in giro per il mondo come
suo solito, forse a spassarsela con qualche donzella. Fu Froi a tirarmi
fuori di lì».
«Il Generale Tiedoll?», domandò Allen,
non aspettandosi certo quel nome.
«Esatto», annuì il mostro, iniziando a
raccontare…
* * *
Successe in una fredda sera d’Inverno di circa quindici anni
fa. Dalle finestre della mia camera potevo vedere la neve che vorticava
caoticamente nel cielo del medesimo colore, come a voler riprodurre,
anche all’estero di quella prigione, la stanza dove mi
avevano confinato.
Ero un elemento pericoloso, un “maniaco omicida”,
dicevano loro. Così, credendomi pazzo, mi avevano messo in
una cella di confinamento interamente bianca. Le lenzuola, i mobili, i
muri, il soffitto, la luce, il pavimento, perfino gli stessi cibi che
mi portavano erano bianchi, come anche la camicia di forza che
indossavo.
Mi dicevano di essere pazzo, perché solo uno squilibrio
mentale avrebbe spiegato tutti gli uomini che erano caduti come foglie
d’Autunno al mio passaggio.
Il solo modo che avevano trovato per tenere a freno la mia voglia di
sangue era circondarmi di bianco.
Il bianco è il colore della pazzia.
La mente non riesce a concentrarsi sul colore bianco, e, in una stanza
interamente di quella tinta, il cervello non trova niente di
significativo, e ciò porta alla pazzia se, come me, non si
aveva nulla da fare tutto il giorno, a parte mangiare e dormire. E
pensare.
Nessuna visita, nessun colloquio con lo psicologo, lo psichiatra o
l’esperto di psicologia criminale, da quando avevo ucciso a
morsi uno del loro branco
di inetti.
Ero solo, immerso nel bianco – ad aspettare il giorno in cui
mi avrebbero portato fuori da quella stanza per sopprimermi in nome
della giustizia, non sapendo che in quell’occasione li avrei
uccisi tutti –, e solo così riuscivo a stare
“buono buono”, come volevano loro; ma, dentro di
me, covavo rabbia e rancore.
E voglia di rosso.
Di sangue.
Un dì, però, a poco meno di quarantotto ore da
quel
fatidico momento di vendetta che tanto aspettavo, la porta della mia
camera si aprì, ed entrò un mio coetaneo che non
avevo mai visto prima.
Vestiva un’uniforme nera, coperta da un grosso e pesante
mantello bianco, e sul petto teneva appuntata una Rose Cross
d’argento.
«Non mi serve alcuna compagnia spirituale, padre»,
gli dissi subito, sorridendo e mostrandogli i miei denti seghettati, da
squalo.
«Non sono un prete, Winters Sokaro», mi corresse
lui, camminando verso di me, mentre una guardia chiudeva la porta,
restando in allerta nel caso volessi mandare a miglior vita anche quel
ragazzo. «Mi chiamo Froi Tiedoll, e sono
un’Esorcista».
Lo ascoltai e sollevai un sopracciglio.
Avevo sentito parlare degli Esorcisti, ma non ne avevo mai visto uno di
persona, da quanto ricordavo.
Ero incuriosito e non capivo cosa volesse da me.
«Embeh?», chiesi sgarbato.
«Sono venuto qua perché il Quartier Generale di
cui faccio parte è molto interessato a te, Winters. Posso
chiamarti per nome, vero?».
Annuii, sogghignando e leccandomi le labbra con la lingua.
«Avrei bisogno di porti alcune domande»,
continuò lui. «Ma non ti preoccupare: non
è un interrogatorio, questo».
«E cos’è?».
«È la chiave per la tua
libertà».
Dopo quelle parole, Froi fece cenno al secondino che andava tutto bene,
e lui chiuse la feritoia del piccolo rettangolo di sbarre, in modo da
isolarci. La guardia non sembrava molto convinta, ma di sicuro aveva
ricevuto ordini dall’alto.
«Non hai paura di me?», chiesi
all’Esorcista.
«Perché dovrei? Stiamo solo chiacchierando, nulla
di più», mi rispose, togliendo delle foto
dall’interno della propria uniforme. «Vorrei che
dessi un’occhiata a queste», mi chiese, mentre me
le mostrava.
Le immagini ritraevano un luogo che ben conoscevo: la mia terra, il
Messico, ed esattamente la mia città, un luogo dove i
discendenti degli aztechi vivevano tutti insieme, trasmettendo di padre
in figlio l’antica cultura dei nostri avi, perché
non andasse dimenticata.
«Suppongo tu conosca questo posto», disse
l’Esorcista.
«Esatto», ridacchiai. «Casa
mia… Quanta nostalgia… Ho girato tanto per il
mondo, alla ricerca di nuove prede…».
«Questa località è stata a lungo nel
centro del mirino della Sede America, perché…
succedevano cose strane», continuò
l’uomo.
Solo in quel momento notai che il mantello di colore chiaro sembrava
messo apposta per coprirgli l’uniforme nera; probabilmente su
consiglio del Direttore del carcere, che non voleva far lavare
nuovamente il pavimento dal sangue.
«Sì, era una città divertente: nessuno
tranne me se ne accorgeva, ma le persone, dopo che c’era
stato quel tremendo terremoto, sei anni fa, pian piano, iniziavano a
impazzire».
«Puoi spiegarmi meglio cosa accadde?».
«Eheh! Sei strano. Nessuno si era mai interessato a me per
queste cose», ridacchiai. Quel giovane mi piaceva, era
simpatico. Non mi temeva ed era la calma personificata, dai modi
gentili e educati. «E va bene, Froi. Ti dirò
ciò che vuoi sapere, prendile come le ultime memorie di un
condannato a morte… che scapperà da qui lasciando
solo morte e distruzione», risi di nuovo, leccandomi le
labbra. Già pregustavo quel momento in cui avrei ridotto in
cenere e detriti quel posto. «Sei anni fa un violento
terremoto ha aperto una crepa nel terreno, nel punto dove si diceva
scorresse un antico fiume, ormai secco. Da allora tutti i miei
concittadini hanno cominciato a dare segni di squilibrio mentale sempre
più forti, al punto da ammazzarsi tra di loro. Rimasto solo,
semplicemente, lasciai la mia piccola città e mi diressi
altrove».
Froi ascoltò la storia, molto interessato, annuendo di tanto
in tanto.
Prese poi una sedia e si accomodò, segno che aveva ancora
qualcosa da sentire.
«Anche tu hai partecipato a quella carneficina?»,
mi domandò serio.
«Certamente», annuii. «Come avrei potuto
lasciarmi sfuggire quell’occasione, quel richiamo del sangue
che mi faceva salire la febbre dall’eccitazione?».
«Allora, anche tu sei impazzito? Non mi vorrai far credere
che i medici hanno ragione…».
«Tsk! Quella mandria di pecore non sa nemmeno il cinque
percento di tutto quello che mi passa per la mente, figuriamoci.
È stato Dio in persona a salvarmi».
A quell’affermazione, il ragazzo sorrise sotto i baffi. Un
sorriso calmo e gentile.
«Ti ha fatto trovare qualcosa, vero?
Un’arma…?».
«Esatto. Due acuminati semicerchi di acciaio»,
spiegai, girando la testa per guardarmi le spalle. «Li ho
trovati nel fondo della spaccatura nel terreno e, un giorno, quando il
mio migliore amico ha cercato di ammazzarmi, non so come, sono riuscito
a capire in che modo utilizzarle». Quei ricordi non li avrei
mai e poi mai dimenticati: la follia omicida nei miei occhi, quel
combattimento mortale tra amici per la pelle che fino al giorno prima
si allenavano insieme per diventare dei combattenti sempre migliori,
ela sete di sangue che avevo in corpo. «Così si
unirono e spuntarono due lame seghettate, capaci di trasformare quei
due semplici pezzi di corazza che tenevo sulle spalle in
un’arma unica, che mi permise di rimanere in vita. Uccisi il
mio migliore amico e tutti gli altri, rimanendo l’unico
sopravvissuto».
Froi annuì, e, dal suo sguardo stanco, capii che avevo
centrato in pieno la notizia che voleva sentire.
«Dove sono quei due pezzi, ora?»,
domandò.
«Non lo so, me li ha sequestrati la polizia, ma li
riprenderò prima di uscire da qui, dopo averli fatti tutti a
pezzi».
Ci furono un paio di secondi di silenzio, poi il ragazzo si
alzò in piedi, guardandomi con una strana luce negli occhi.
«Cosa c’è?», gli domandai.
«Tu non sai cosa sono quelle armi: si chiama Innocence, ma tu
nello specifico potrai darle il nome che più ti aggrada, ed
è un’arma anti-Akuma. Gli Akuma sono delle
macchine al servizio del Conte del Millennio, il nemico che noi del
Black Order abbiamo giurato di sconfiggere, e lo facciamo utilizzando
le nostre armi, che lui vuole distruggere. La maggior parte delle volte
che c’è un’Innocence nei paraggi,
accadono dei fenomeni strani, come, nello specifico, la pazzia degli
abitanti di quella città. Tutti sono diventati pazzi in
maniera irrecuperabile tranne te: l’unico capace di
sincronizzarsi con quel frammento e usarlo senza avvertirne le
conseguenze, se non in minima parte».
Lo ascoltai con un sopracciglio sollevato, decisamente perplesso.
«Puoi anche scordarti di avere le mie armi. Se te ne
approprierai, verrò fino in capo al mondo per prendere a
calci nel culo te e tutta la combriccola di pretini di cui fai
parte!». Non avrei mai permesso al primo arrivato di
togliermi di bocca il pane. Quell’arma, fortissima e dalla
potenza distruttiva pari solo a quella del terremoto al quale avevo
assistito, era mia.
E non l’avrei mai ceduta a nessuno.
«Infatti non voglio prendere la tua arma, Winters. Anzi,
voglio rendertela. Come ti ho già detto, ma forse non sono
stato chiaro – e di questo me ne scuso –, solo tu
puoi usarla».
Le sue parole mi sconvolsero al punto tale che spalancai occhi e bocca,
per poi ridere sguaiato e divertito.
«Ahah! Sei davvero divertente, Froi!».
«Tu sei uno di noi, Winters: sei un Esorcista».
Smisi immediatamente di ridere, guardandolo con un misto di
preoccupazione e incredulità.
Non poteva essere vero. Non potevo essere un Esorcista, coloro che
combattono il male. Io non potevo essere dalla parte dei buoni,
semplicemente perché non potevo vivere senza il sangue della
battaglia che mi grondava addosso, come una cascata.
«Winters Sokaro, tu hai trovato un frammento
dell’Innocence e ti sei dimostrato essere un compatibile. Sei
un Esorcista, senza dubbio. Quando la signorina Cloud era andata a
cercare quel frammento in Messico e ha trovato la città
completamente rossa e deserta, pensavamo che il Conte fosse arrivato
prima di noi, invece ci sbagliavamo. Non pensavamo certo che colui che
era riuscito a sincronizzarsi con l’Innocence potesse essere
capace dei crimini più efferati; ecco perché
abbiamo impiegato così tanto tempo per trovarti».
Froi parlò a lungo, spiegandomi la situazione: quello che
ero sempre stato e non sapevo di essere.
«E ora? Cosa farete?», domandai con aria spavalda.
«Appena mi libererete non farò altro che
ricominciare a uccidere. Se non lo facessi, impazzirei».
«Lo sappiamo», disse, stupendomi. «Il
nostro Black Order è molto professionale: abbiamo
già tutti i tuoi fascicoli e siamo a conoscenza del sangue
guerriero che scorre in te», mi spiegò.
«Ma per noi sei importantissimo: il Conte del Millennio sta
uccidendo i nostri compagni come mosche, e abbiamo bisogno di alleati.
Più saremo e meno di noi moriranno. Inoltre, date le tue
encomiabili doti di spadaccino e guerriero, siamo certi che non avrai
alcuna difficoltà nei combattimenti»,
spiegò, aprendo la grossa sacca beige da pittore che portava
a tracolla.
Lo vidi cercare qualcosa al suo interno, ma nel frattempo gli domandai:
«Sai che io posso uccidere i miei stessi alleati? Te
l’ho detto: ho ucciso il mio migliore amico e tutti quelli
che erano rimasti faticosamente in vita fino ad allora. Volete davvero
una bomba a orologeria come me in una squadra?».
Froi scosse il capo.
«Non ti permetteremo di farlo: i nostri della scientifica
hanno trovato un metodo per tenere a bada i tuoi istinti»,
disse, continuando a cercare quel qualcosa nella borsa.
«Non penso che funzioni», dissi scettico.
«E poi, chi ve lo fa fare? Magari scoprirete che non sono
capace di esservi utile».
«C’è la possibilità, e questo
lo sapevamo fin dall’inizio, ma c’è una
cosa che devo dirti: un uomo vivo è meglio di qualsiasi uomo
morto, ma nessun uomo vivo o morto è molto migliore di
qualsiasi altro uomo vivo o morto».
«E questo che vuol dire?», domandai, non capendo le
sue parole.
«Che noi ti salveremo dalla pena di morte, ma ciò
non perché sei migliore degli altri, ma perché ci
sarai più utile da vivo che da morto», rispose, un
po’ brusco – strano per i suoi modi
all’apparenza placidi.
Pian piano lo stupore iniziale stava svanendo, quindi ciò mi
permise di ragionare a mente più fresca. Non ero solito
perdermi in ragionamenti contorti – preferivo di gran lunga
utilizzare quella che avevo scoperto essere un’Innocence per
mettere K.O. ciò che mi dava grane –, ma non
volevo trattar male quell’uomo; in fondo sembrava essere
venuto a trovarmi con buone intenzioni. Voleva restituirmi
l’arma, e solo per questo non l’avrei ucciso.
Finalmente, Froi riuscì a trovare ciò che stava
cercando: una maschera di ferro e pelle.
«Dagli studi della scientifica si è scoperto che
l’unico modo per far sì che tu non abbia degli
istinti omicidi è che sia circondato dal colore bianco,
tinta che ti permette di restare nel tuo limbo di pazzia contenuta.
Questa maschera annulla i colori attorno a te, facendoti vedere tutto
in bianco e nero. Ora che ci penso, il tuo nome in inglese significa
“Inverni” e l’Inverno è la
stagione bianca per eccellenza. Che buffa coincidenza».
«Tsk», sputai, schifato. «Una museruola,
in pratica».
«Dovrai usarla solo quando starai con noi. In solitudine o
durante un combattimento, soprattutto in quest’ultima
situazione, potrai toglierla».
Guardai la maschera dalla smorfia veramente adorabile: un
ghigno
pauroso, da racconto dell’orrore.
Mi piaceva.
«Se accetterai di far parte del Black Order e di lavorare per
noi, avrai salva la vita, potrai continuare a combattere –
non contro gli umani, ma contro gli Akuma – e riavrai
indietro la tua arma», disse Froi, poggiando la maschera sul
tavolo. «C’è sempre il rischio di
morire, ma sarebbe un ottimo modo per recuperare diversi giorni, mesi o
anni di vita».
Lo guardai assorto, ghignando.
«Perché dovrei accettare? Dopotutto mi state solo
proponendo un trasferimento di gabbia. Cos’è?
Questa puzzava troppo di sangue?».
Froi ci rimase un po’ male a quella mia risposta. Scosse la
testa e fece per parlare, ma lo anticipai.
«E poi… come avete fatto a trovarmi?».
Il ragazzo guardò fuori dalla finestra, assorto, fissando
quei fiocchi di neve danzare nel vento.
«Durante la tua ultima carneficina, nel villaggio poco
lontano da qui, c’era anche una mia compagna Esorcista,
nonché mia fidanzata», disse a voce bassa,
aggrottando la fronte. «L’hai uccisa insieme a due
Finder che erano con lei al mercato», spiegò,
mentre una lacrima calda e solitaria scorreva lungo la sua guancia
prova di pelo. «Così, l’Ufficio Centrale
è risalito a te e a quel luogo in Messico, e mi ha mandato a
controllare».
Sentivo la sofferenza nella sua voce bassa e profonda. Una tristezza
priva di rabbia, ma colma di disperazione.
«Aspetta, fammi capire… Tu sei venuto fin qui per
chiedermi di entrare a far parte del Black Order, nonostante io abbia
ucciso la tua pollastrella?», chiesi, non capendo la follia
di quel gesto.
«La croce che porto sul petto non può fermarsi a
queste cose. Se sei un Esorcista, allora, è tuo preciso
compito entrare nell’Ordine, a prescindere che tu sia un
assassino o meno», sussurrò, asciugandosi la
guancia.
Lo vidi allontanarsi a passo veloce verso la porta e bussare
due volte.
«Hai tempo fino a domani per decidere, Winters», mi
disse, mentre il secondino riapriva la feritoia e iniziava a far
scattare le serrature, dopo aver controllato che fosse tutto a posto.
«E sappi che, se anche deciderai di non diventare un
Esorcista ora, da vivo, l’Ordine non si fermerà a
questo».
Lo guardai stupito.
«Che vuoi dire?».
«Spero che tu non lo sappia mai», disse grave,
uscendo. «A domani».
Dopo quell’arrivederci, e il forte boato della porta che si
richiudeva con vari rumori metallici al seguito, rimasi fermo, in
silenzio, a rimirare la maschera che giaceva sul tavolino, a colorare
quella camera bianca. Anche se non avessi voluto, la mia attenzione
sarebbe tornata sempre a soffermarsi là.
Non capivo il gesto di quell’uomo, né il suo
comportamento calmo e educato di fronte a me: il mostro che aveva
ucciso la sua ragazza solo perché era nel posto sbagliato al
momento sbagliato.
«Il Black Order… Gli Esorcisti… sono
tutta gente strana…», sussurrai, alzandomi e
camminando verso il tavolo fino a fermarmi di fronte ad esso, con gli
occhi puntati su quelli vuoti della maschera. «Sono tutti dei
pazzi, esattamente come me», aggiunsi, sorridendo e
leccandomi le labbra. «Madness.
Voglio che la mia Innocence
abbia questo nome, Esorcista…», sussurrai tra me e
me – come se Froi, ormai lontano, potesse sentirmi
–, capendo che la scelta più insana era proprio
quella di non evadere, ma di andare a “divertirmi”
con quella gente.
Esplosi in una risata. Pazza e incontenibile.
* * *
«Da allora divenni un Esorcista, e portai la maschera
sul viso per tenere a bada la mia sete di sangue, immergendomi nel
bianco e nero di quel mondo senza colori».
Il racconto di Sokaro era ormai terminato, e Allen lo guardava assorto
e commosso da tutto quello.
Sapeva bene del fatto che Sokaro fosse stato condannato a morte come
pluriomicida, ma, nonostante disprezzasse gli assassini, era riuscito a
perdonare il passato che non faceva più parte di lui, e,
così, riuscì ad amarlo.
Ormai la Rose Cross era diventata importante anche per Sokaro, ma mai
quanto uccidere gli Akuma per poter così sentire nelle vene
in sangue che scorreva veloce.
«Mi dispiace per il signor Tiedoll…»,
sussurrò Allen. «Deve aver sofferto
molto…»
«Non preoccuparti: dopo quella donna ha conosciuto meglio il
tuo amico giapponese», gli disse il messicano, tentando di
rincuorarlo.
«Amico giapponese?», chiese Allen, sollevando un
sopracciglio bianco.
«Sì, quello del Team di Fro—».
Sokaro non fece in tempo a terminare la frase che Allen cadde dal
letto, fortemente scosso.
«KANDAAA?!», esclamò con un urlo,
tirando giù il cuscino per coprirsi.
«Sì, stanno insieme, non lo sapevi?»,
gli domandò l’amante, con il sorriso di chi la
sapeva lunga.
Allen aprì e chiudette la bocca diverse volte, a scatti,
come se volesse dire qualcosa ma non sapesse da dove cominciare o come
se lo shock non glielo permettesse.
Fu un forte bussare alla porta della camera a interrompere la
loro conversazione, e dalla voce del nuovo arrivato si presagivano
guai.
«Walker! So che sei là dentro! Apri la
porta». Era Link.
«Gasp!», sussultò Allen, alzandosi come
una molla e riprendendo i propri vestiti da dove Sokaro li aveva fatti
volare poco prima. «Win, io devo
andare…», sospirò.
«Continuiamo un’altra volta a parlare di
Kan— No… non voglio sapere altro!»,
scosse il capo, vestendosi velocemente mentre andava verso la finestra,
da dove era arrivato.
«Ok», sorrise Sokaro, leccandosi le labbra,
raggiungendo il ragazzo per fermarlo un attimo. «A presto,
Allen», lo salutò, baciandolo con passione,
invadendogli la bocca con la lingua, così da prendere subito
la supremazia in quel bacio dalle tinte forti.
Link, intanto, continuava a bussare ferocemente alla porta, pronto a
buttarla giù, motivo per il quale i due interruppero presto
quell’effusione, solitamente molto più lunga,
poiché non sapevano mai – tra missioni e
l’Ispettore – quando avrebbero potuto rivedersi.
«A presto…», soffiò Allen,
sorridendogli, scavalcando quindi il balcone per fuggire via.
Così Sokaro attese solo che Allen si fosse calato al piano
inferiore, prima di andare ad affrontare l’Ispettore, in
tenuta adamitica, pronto a fargli capire una volta per tutte che non
doveva importunarlo cercando un fantomatico Allen Walker nascosto in
camera…
Mentre l’Esorcista maledetto tornava verso i bagni comuni
utilizzando i cornicioni e i doccioni come passerelle, aiutato da
Timcanpy, che, come sempre in quei casi, lo aspettava fuori,
ripensò a quanto Sokaro gli aveva detto poco prima,
sorridendo nonostante la situazione ben poco rosea nella quale si era
cacciato.
Il bianco era il colore della pazzia.
Il colore che gli permetteva di tenere a freno la bestia assetata di
sangue che era in lui.
E Allen, bianco nello spirito e nel corpo, gli permetteva di stare
calmo e di non uccidere.
Allen rappresentava dunque la pazzia, per Sokaro.
Come la rappresentava la sua Madness, l’arma anti-Akuma che
tanto amava.
«Sei forse
pazzo di me, Win?», bisbigliò
Allen, arricciando le labbra in un sorriso, guardando la finestra della
camera del suo amato, dalla quale iniziavano a provenire metallici
rumori di lotta.
Fine
XShade-Shinra
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