E
poi, d'un tratto, esplode.
Era
successo dopo il primo incontro con Jim Moriarty.
Quell'esplosione
sembrava aver cambiato radicalmente la loro vita, il loro rapporto
–
sì, perché l'esplosione c'era stata: la piscina
pubblica era
davvero saltata in aria, loro erano davvero saltati in aria e ancora
si chiedeva come fossero riusciti a sopravvivere – forse
l'acqua,
sì, per via dell'acqua: John l'aveva afferrato con un impeto
e una
forza incredibili e si era lanciato nella vasca pochi secondi prima
che l'edificio venisse inghiottito dalle fiamme e crollasse come un
castello fatto di carte; ricordava i colori, vividi e brillanti sotto
l'esigua distesa di acqua che non sarebbe bastata a salvarli, il
respiro corto uscire dalle loro bocche a increspare l'azzurro scuro
che li avvolgeva, pressante, in una scia grumosa di bolle; dei pezzi
di cemento erano caduti e affondati a neanche un metro da dove si
trovavano (forse doveva ricredersi sull'esistenza di una qualche
entità superiore); ricordava ancora, e soprattutto,
l'abbraccio
spasmodico e la stretta delle mani di John attorno alle sue braccia,
forse bruciante quanto il fuoco che si cibava dei resti
dell'edificio.
Si
erano salvati e non se ne capacitava ancora.
Non
capiva come, non rammentava quando; sapeva solo che ne erano usciti
salvi ma non del tutto sani. Lui stesso aveva riportato delle ustioni
sulle braccia e una ferita non ancora risanatasi appena sopra
l'ombelico. Era stato John a tamponargliela alla bell'e meglio e ad
applicare una fasciatura rozza, improvvisata con ciò che
restava
della sua camicia, prima che arrivassero l'ambulanza e un corteo di
poliziotti a circondarli. John che, non sapeva in che modo, era
riuscito a prestargli soccorso persino con un braccio rotto –
il
sinistro, fra l'altro.
L'ospedale
era stato la loro casa per quasi un mese. O, per meglio dire, la sua
casa per circa un mese. John e il suo braccio ingessato avevano
lasciato l'ospedale dopo la prima settimana; lui invece era stato
costretto su un lettino scomodo, in una stanza asettica e
così
orribilmente vuota, per altre due settimane, sorbendosi visite poco
gradite da parte di Molly, un paio di Lestrade e persino una capatina
di suo fratello, che gli aveva portato delle gelatine alla frutta ben
consapevole che lui non le avrebbe nemmeno sfiorate (e, a dispetto
della sua presunta dieta, Mycroft ne aveva ingollate ben cinque).
John era passato a salutarlo il giorno stesso della sua dimissione e
solo una volta nell'ultima settimana di degenza. Ah, Mrs Hudson si
era fatta viva i due lunedì: gli aveva portato una fetta
consistente
di quella sua splendida torta al tè. Ovviamente non aveva
chiesto
informazioni su John né sui suoi spostamenti, e Mrs Hudson
aveva
dato per scontato che il dottore gli facesse regolarmente visita
tutti i giorni o quasi – lei e il suo strambo pallino per le
coppie
di fatto.
Poi
Sherlock era stato dimesso, all'insaputa di tutti. C'era da precisare
che la sua dimissione era stata grandemente influenzata
dall'impossibilità degli infermieri di gestire la sua umile
persona,
a causa del continuo muso lungo e delle risposte acide e poco
delicate sul quoziente intellettivo di metà reparto.
Quando
aveva aperto la porta dell'appartamento al 221B di Baker Street,
aveva trovato Sarah seduta sulla sua poltrona, col suo cuscino
preferito dietro la schiena, a guardare il suo programma preferito
mentre sorseggiava del tè caldo da una tazza fortunatamente
non sua,
o avrebbe dato di matto strappandole tazza e cuscino e spegnendo il
televisore.
«Sherlock!»
aveva esclamato John, evidentemente trattenuto in cucina dalla
preparazione di un qualche tipo di biscotti (cookies, avrebbe detto
dall'odore). L'espressione sul suo viso era un misto fra stupore,
spavento e un piacere che, in un batter di ciglia, si era dissipato
dallo sguardo caldo che lo aveva puntato. Per sua parte, lui aveva
sollevato un sopracciglio articolando un saluto con tono apatico.
Inutile dire che Sarah, sebbene l'insistenza di John fosse stata
decisamente pesante e quasi convincente, a un'occhiata stanca e per
nulla nascosta di Sherlock, si era dileguata in una manciata di
secondi.
Era
quel giorno che aveva intuito, mentre sgranocchiava davanti alla TV
uno dei biscotti preparati da John, che qualcosa – non capiva
esattamente cosa – si era incrinata, nel
loro rapporto.
---
«Sei
stato fuori un bel po'.»
John
si tolse il giubbotto con la faccia aggrottata di chi aveva appena
notato qualcosa fuori posto, lo sistemò sull'appendiabiti
vicino
alla porta e rimase a scrutarlo per una breve manciata di secondi,
prima di spostarsi dall'ingresso con passo affrettato.
Era
uscito quella mattina silenziosamente, evitando il minimo rumore
nella speranza di non farsi notare, senza lasciare sul tavolo un
biglietto né nel frigo un piatto freddo per il pranzo. Si
era
dileguato per l'intera giornata ed era tornato solo ora, a sera
già
inoltrata e dopo l'ora di cena.
«Non
credo di dover rendere conto a te di quel che faccio e del tempo che
impiego facendolo.»
«No,
certo che no» ribatté Sherlock, seguendo con gli
occhi ogni suo
movimento, prima di sospirare teatralmente e con stizza, tornando a
scrivere al notebook.
John
era diventato strano. Inavvicinabile, addirittura impossibile da
trattenere. Sherlock avrebbe davvero voluto conoscere non tanto la
ragione, bensì il luogo in cui, da una
decina (e anche più)
di giorni a quella parte, John trascorresse le sue giornate.
Oh.
Stupido,
stupido, stupido.
Era
ovvio, era così palese che il perché e il dove
combaciassero alla
perfezione.
«Come
sta Sarah?»
«Bene,
grazie» tagliò corto John.
Quel
'grazie' continuò ad aleggiare nell'aria con la stessa
pesantezza
con cui scavava nel petto di Sherlock; questi ne rimase stupito, ma
non lo diede a vedere. Preferì portare il discorso da
un'altra
parte.
«Lestrade
mi ha mandato un sms. È stato trovato un cadavere.»
«Mh,
e tu sei ancora qui?»
«Ti
stavo aspettando.»
Lo
sbuffo ironico di John proveniva dalla cucina. Era di sicuro alla
ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Quando tornò
nel
piccolo salotto, aveva infatti un pacchetto di cracker in mano e ne
stava già masticando uno; l'espressione sul viso rotondo e
marcato
era scettica.
«Credi
che sia stupido.»
Sherlock
staccò gli occhi dal pc per puntarglieli dritto nei suoi; le
sopracciglia arcuate gli conferivano un'aria innocente. Sembrava un
folletto. «Per nulla, John. Sei forse la persona con un QI
nella
norma più acuta che conosca.»
John
sghignazzò con gusto. «Non è stato
ritrovato alcun corpo» affermò
poi duramente, quasi volesse avvalorare quanto Sherlock aveva appena
detto. Lo sguardo adesso era grave e per nulla caldo. «Hai
una
ferita non del tutto guarita e la polizia se la sta egregiamente
cavando senza il tuo aiuto. Lestrade mi avrebbe avvertito prima che
tu avessi potuto compiere una qualsiasi colossale stronzata,
gettandoti nella mischia per rincorrere un morto di fame da quattro
soldi.»
«Che
parole taglienti, John.»
«Credi
davvero di potermi prendere così sfacciatamente per il culo,
Sherlock? Pensi sul serio che possa essere idiota a tal
punto?»
Sherlock
lo scrutò con occhi freddi e fermi.
«Sì»
disse, e quel monosillabo schietto e feroce tolse di bocca le parole
a John, che rimase a boccheggiare stupidamente per qualche istante.
Fece una smorfia rigida, pizzicandosi le labbra sottili coi denti e
le umettò velocemente con la lingua, annuendo d'improvviso.
Sherlock
lo guardava ancora da sopra le dita incrociate, interessato, quasi
stesse assistendo a un evento particolare che richiedeva la massima
attenzione.
«Sai,
forse sono davvero un idiota» sbottò John.
«Tu
dici?»
«Per
quasi un anno mi sono fatto coinvolgere in cose decisamente
più
grandi di me, rischiando la mia vita.»
«Hai
dimenticato di citare il tuo passato in Afghanistan. Quella
sì che è
stata una cosa decisamente più grande di
te, tant'è che
abbiamo visto com'è andata a finire.»
John
sbiancò. Rimase ritto, immobile davanti alla poltrona vuota
su cui
solitamente prendeva posto per chiacchierare con Sherlock, teso come
un tronco. Aveva la mascella evidentemente contratta; i cracker si
erano ridotti a un mucchio di polvere dorata in un crepitio di
plastica sottile, nel pacchetto che tremava impercettibilmente nella
mano di John. Gli voleva tirare un pugno, un bel gancio destro
dritto sulla sua faccia apatica, cinica, bastarda; magari voleva
spaccargli le labbra bianche e morbide contro i denti, voleva vederle
gonfiarsi, tingersi di sangue e scurirsi, diventando livide. Sherlock
glielo leggeva negli occhi: voleva picchiarlo, pestarlo a sangue, ma
John era dotato di un autocontrollo strabiliante. Serrò
maggiormente
la mascella e cominciò a passeggiare lentamente avanti e
indietro,
entrando e uscendo dalla cucina.
«Io
non ti ho costretto, John. Hai scelto tu di seguirmi e di farmi da
spalla; io ho soltanto chiesto. Tu hai scelto, non ho fatto io le
decisioni per entrambi e, nel caso mi stia sfuggendo il ricordo di un
qualche momento in cui ho agito nell'esatto contrario di quanto sto
affermando, avresti potuto comportarti diversamente. Non te l'avrei
impedito, non sono tua madre.»
«Sei
un ingrato.»
«E
tu uno sciocco. Pensa prima di aprir bocca, stai facendo la figura
del perfetto imbecille.»
John
si fermò mentre percorreva la distanza che l'avrebbe
condotto in
cucina e si girò di scatto. Aveva il viso contratto dalla
rabbia,
rosso, le sopracciglia tanto vicine da sembrare un rilievo chiaro
sopra gli occhi lucenti. C'era del dolore, anche, nella miscela
turbolenta che lo faceva ansimare e tremare.
«Stavo
per dare la mia vita per te, Sherlock! La mia fottuta
vita!
E tu mi sbatti in faccia simili parole?»
«Hai
cominciato tu. Non volevo arrivare a questo, mi ci stai
costringendo.»
«Io?
Stai scherzando? Adesso è tutto causa mia?»
John scosse la
testa sorridendo ironicamente in direzione del soffitto.
«Certo,
naturale. Qui il folle, psicopatico e malato di turno sono io. Sono
io che non vedo l'ora di fiondarmi in un crimine
astruso
mettendo a repentaglio la mia vita e quella di chi mi sta attorno.
Sono io che non apprezzo gli sforzi degli altri,
che tentano
di capirmi e di starmi accanto. Sono io l'ingrato
che non
prova un accidente nei confronti di chi mi--» S'interruppe e
a
Sherlock parve che stesse deglutendo a forza un boccone troppo
grosso. «Sono io, giusto, Sherlock?»
Non
gli diede alcuna risposta e John neanche la stava aspettando. Il
notebook era rimasto in equilibrio perfetto sulle sue gambe ferme.
Sherlock non sembrava nemmeno minimamente sconvolto o adirato. Era
semplicemente incuriosito; lo fissava come se con gli occhi volesse
trapanargli una tempia per entrargli nella testa e leggere il motivo
di tanta rabbia. Era certo che John si fosse trattenuto per tutto
quel tempo: aveva tentato di soffocare il turbamento nella forte
speranza di digerirlo, di dimenticarlo o almeno di etichettarlo come
una sciocchezza insignificante. E Sherlock non voleva. Era
necessario che scoprisse quello che stava succedendo, che lo
analizzasse e lo scomponesse, perché il loro rapporto stava
letteralmente andando a puttane e non voleva.
Si chiese se la ragione di tutto fossero davvero i rischi cui lo
esponeva – ma era John, per l'amor del cielo, John
Watson, e con
lui più il
rischio era maggiore, più era certa la sua presenza. Non
poteva
essere quello il motivo, non--
«Sarah
e io stiamo ufficialmente insieme.»
Sherlock
non riuscì a reprimere lo stupore. Spalancò gli
occhi e tornò a
guardarlo, ma John fissava insistentemente il pavimento.
«Ci
siamo fidanzati tre giorni dopo che mi hanno dimesso dall'ospedale.
Ieri mi ha proposto di andare a vivere da lei e credo che sia una
fantastica idea.»
«È
una magnifica idea.»
«Ho
bisogno di cambiare aria, di avere più
serenità.»
«Non
c'è bisogno di fornire spiegazioni.»
«Non
lo sto facendo.»
«È
un'ottima idea.»
«Sì.
Lo è. Questo finesettimana impaccherò la mia
roba.» John esitò un
momento. «Pensi di riuscire a pagare l'affitto da
solo?»
«Mi
è rimasto ancora qualcosa degli ultimi casi che abbiamo
risolto e
Mrs Hudson sarà clemente almeno fino a quando non
sarò totalmente
guarito.»
«Bene.
Perfetto.»
John
si leccò nervosamente le labbra e deglutì.
Sherlock posò gli occhi
sullo schermo del notebook.
«Con
una menzogna ti ho spinto a dirmi la verità. Divertente,
vero,
John?»
John
sbuffò dal naso. «Tu già sapevi. Hai
visto l'anello sul suo
anulare sinistro, la sera in cui sei tornato.»
Affermazione
esatta.
Lo
aveva visto brillare alla luce del televisore prima ancora di notare
il cuscino sotto alla schiena di Sarah, la poltrona sulla quale stava
seduta e la tazza di tè fumante fra le sue mani affusolate.
Un
brillante piccolissimo, quasi microscopico. Tutto quello che John
poteva permettersi – John aveva speso i suoi risparmi per
quell'anello, per quell'avventatezza, per stare con Sarah –
John li
usava per fare la spesa, per comprare il latte, alle volte anche per
un biglietto della lotteria, quando si sentiva in vena di tentare la
fortuna; li usava per loro – per
John e
Sherlock, non per John e
Sarah.
«L'hai
conquistata con una miseria» affermò malignamente,
mentre batteva
alla tastiera.
Dal
silenzio che proveniva dal punto in cui stava John, avrebbe detto che
si era fermato per guardarlo con astio.
«Vaffanculo,
Sherlock.»
Gli
diede le spalle e stava per uscire dalla stanza, quando Sherlock
attirò la sua attenzione sussurrando il suo nome.
«Dimmi.»
«Vorrei
che fossi tu a controllare la mia ferita finché non
sarà guarita.
Non mi piacciono gli ospedali e non mi fido di altri medici. Te lo
chiedo come cortesia, come – se vuoi chiamarlo
così – ultimo
favore per un amico.»
Finì
di parlare senza nemmeno staccare lo sguardo dal computer. Negli
occhi asciutti, grandi, brillava la fioca luce dello schermo. John
restò un momento a osservargli il volto, soppesando le sue
parole.
«Certo»
disse infine. «Non c'è problema.» Poi
uscì dal salotto e salì le
scale per andare in camera.
Alla
fine, anche il dottor Watson si era stancato di lui.
---
N/A.
Prima parte di una shot che ho preferito dividere in due (l'altra parte
dovrei ancora concluderla xD). È, come ovviamente avrete
notato, una post prima stagione e siccome mi piace farmi del male
scrivendo robetta angst, ho deciso di lanciarmi in questo piccolo
progetto nel bel mezzo della mia sessione d'esami (e poi diamo
dell'idiota a John; almeno lui s'è laureato). In questi
giorni dovrebbe arrivare la seconda e ultima parte, magari anche
domani, visto che se mi fisso con una cosa, è meglio
togliermela subito di torno o non concluderò nulla xD
Il titolo è preso da "Oceano mare" di A. Baricco.
|