Come l'ombrello della zia Samantha

di Stray cat Eyes
(/viewuser.php?uid=14386)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Sorta di What if...? molto, mooolto angst (e con qualche traccia di nonsense) basato sulla ventiquattresima puntata. Lo shounen-ai c’è, nella mia testa, anche se qui non si vede. XD
Ah, e diciamolo, eh: se nell’ultimo episodio Tiger non si sveglia, io i produttori li picchio a sangue. Chi è con me? ♥










[Come l’ombrello della zia Samantha.]




Se Barnaby fosse stato qualcosa come un impermeabile, gli sarebbe scivolato tutto addosso senza dolore. Come quando aveva quattro anni e le cose del mondo erano piccole e lontane, in confronto all’amore cieco e totalizzante che gli brillava negli occhi per la mamma e il papà.

Avrebbe potuto essere come una di quelle passeggiate con la zia Samantha, quando li sorprendeva un acquazzone e lei tirava fuori un ombrellino minuscolo dalla borsa e salvava entrambi da una doccia gelata. L’ombrellino gracile gracile all’improvviso diventava grande, e allora la pioggia scendeva a fontane intorno a loro, giù per il cappello di quello che sembrava più un fungo a pois con il bordo di merletto.
L’acqua gli scivolava attorno, ed era una magia. Come avere una barriera invisibile tra sé e quelle lance ghiacciate di fine novembre.
Però erano anni che quell’ombrello aveva tre buchi nella tela e gli mandava la pioggia in testa. Barnaby l’aveva conservato in un angolino dell’armadio, ma non l’avrebbe più potuto usare. E la zia non poteva più arrivare a salvarlo con i miracoli di una borsa per signore.


Un impermeabile restava ancora l’ideale, alla fine.
E lui avrebbe voluto trasformarsi e restare di plastica per sempre, sordo e sterile, scivoloso come l’asfalto bagnato.
Avrebbe voluto lasciarsi cadere addosso quei bip bip assordanti senza sentirli.
Avrebbe voluto lasciarsi scivolare sulla pelle la monocromia mortificante di quella stanza d’ospedale.
Svegliati, dannazione.
E il freddo delle mani di Kotetsu.
Dimmi che non ti ho ucciso io per sbaglio.
Il silenzio scompagnato delle sue labbra.
Usa tutti i cliché del caso. Di’ che non è colpa mia. Che non posso liberarmi di te così facilmente.
Le facce oltre il vetro un po’ opaco, tutte uguali, tutte lì a parlargli di tristezza, di pena, di compassione.
Fai qualcosa, maledizione! Altrimenti...
L’unica cosa che scivolava via senza che lui potesse accorgersene, per il momento, erano solo le lacrime.
Altrimenti, sai... finiremo con l’annegare tutti e due, qua dentro...















Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=817489