Please love me
Please, love me
Era
il mio migliore amico.
Ci
conoscevamo dall’asilo. Siamo sempre stati assieme. Io, lui e suo fratello.
Inseparabili.
Ma
io lo amavo.
Lui
non l’ha mai saputo. Nessuno l’ha mai saputo.
Nonostante
tutto, ero sempre stata al suo fianco respingendo quello che provavo. Nascondendolo
anche a me stessa. Ero sempre disposta ad ascoltarlo quando veniva da me e mi
raccontava della sua nuova tipa o di quella che gli piaceva. Consigliandolo su
quello che avrebbe dovuto fare per conquistare questa o quella ragazza.
O
lui era sempre pronto ad accogliermi quando ero io che sgattaiolavo di nascosto
da loro andando a rifugiarci nella nostra casetta sull’albero, quella costruita
sui rami della grande quercia che stava sul confine dei nostri giardini.
Lontani da orecchie indiscrete, ci raccontava della scopata che si era fatto
con la ragazza con cui stava in quel momento.
Ed
io ascoltavo impassibile. Sorridendo. Sforzandomi di sorridere. Fingendo un
sorriso il più vero possibile. Ridendo assieme a loro, scherzandoci e
commentando. E segretamente immaginavo me stessa al posto di quella ragazza che,
inevitabilmente, alla fine conoscevo e per forze maggiori finivo con l’odiarla.
Quante
ne ho passate in questi cinque anni.
Quante
lacrime ho versato per lui e comunque continuavo a stargli vicino.
Quanto
dolore ho provato per i suoi racconti e non riuscivo a non amarlo.
Anche
adesso, che siamo cresciuti ci piace ritrovarci ogni tanto nella nostra piccola
casetta di legno, per parlare liberamente di tutto. Di tutti i nostri problemi
e dei progetti per il futuro. Delle paure e delle litigate che facciamo con i
nostri genitori.
Quando
capita, ci raggiunge anche un loro amico. Il loro migliore amico, Andreas.
Una
volta mi avevano confidato che aveva una cotta per me. Ne ero più che
lusingata. Hanno insistito così tanto perché ci frequentassimo. Dicevano che
sarebbe stato super se ci fossimo messi assieme.
I
loro migliori amici fidanzati.
Li
faceva impazzire quest’idea. Ma io non potevo. Continuavo a rifiutare
inventandomi, cioè non proprio, di essere innamorata di un altro. Allora
iniziavano a riempirmi di domande sul mio presunto amore. Ed io mi defilavo
sempre con qualche patetica scusa.
Io
ancora oggi mi rifugio lì, in cerca di silenzio e tranquillità. Per pensare e
sentirmi libera. Quando credo di non resistere più e sento il mondo crollarmi
addosso. Quando ho bisogno di una risposta. O semplicemente quando voglio
sentirlo al mio fianco come da bambini.
Mi
ricordo di una volta, era primavera inoltrata, avevamo quattordici anni. Erano
le nove più o meno, sono certa fosse dopo cena. Stavo sola in casetta per
isolarmi dal resto del mondo. Avevo appena litigato coi miei genitori. Quando
all’improvviso sentii una porta sbattere e immediatamente dopo dei passi su per
la scaletta. Ero certa fosse Bill. Era lui che la usava sempre per salire,
almeno da quando era caduto mentre ci arrampicavamo sui rami per vedere chi
arrivava più in alto. E invece, quando mi sporsi per dargli una mano ad entrare
spuntò fuori una testa di scapigliati rasta biondi.
Era
ubriaco, visibilmente ubriaco. Anche se non gliela chiesi perché era sempre
quella la solfa, come spiegazione mi disse che era stato fuori con amici ed
avevano esagerato leggermente col bere al bar. Non era la prima volta. Era già
venuto un paio di volte da me sbronzo chiedendomi di ospitarlo per non farsi
vedere dalla madre in quelle condizioni.
Io,
stupida, ero sempre disponibile per lui. Qualsiasi cosa mi chiedesse.
Si
coricò appoggiando la testa sul mio ventre. Iniziò a raccontarmi della sua
nuova ragazza, dicendomi che credeva fosse quella giusta. Katia, si chiamava
così. Diceva che credeva d’amarla ma che tra loro non avrebbe mai funzionato e quindi,
pensava di lascarla nel giro di qualche giorno. Quando gli chiesi il perché non
disse nulla fece solo un veloce gesto con la mano.
Prese
a raccontare di come s’erano conosciuti e delle liti che puntualmente facevano almeno
un giorno sì ed uno no, alludendo a come si riappacificavano. Ed io, dentro, mi
sentivo morire sotto il peso dei suoi resoconti. Non potevo farcela, non quella volta. Così mi
portai le mani sul volto e, per la prima volta in tanti anni, vide le lacrime
che versavo per lui. Ma non glielo dissi esplicitamente che erano causa sua,
così interpretò che stessi male per la lite dei miei.
Delicatamente
mi spostò le mani e dolcemente posò le sue labbra sulle mie. Solo per pochi
istanti ma mi sembrarono anni, secoli. Bastarono quegli infiniti secondi per
far accelerare all’impazzata il mio cuore e farmi arrossire paurosamente.
Imbarazzata, salutandolo, mi sporsi dalla finestra saltando giù dal ramo.
L’avevo già fatto almeno un migliaio di volte, ma quella sera atterrai male e
mi ruppi un polso.
Il
giorno dopo, nel tardo pomeriggio, i gemelli vennero a farmi visita. Si
sedettero infondo al letto guardandomi preoccupati come se fossi in fin di
vita. Mentre io, ridendo, li rassicuravo che era tutto a posto e stavo bene.
Prima che se ne andassero Tom mi prese in disparte chiedendomi scusa per quello
che aveva fatto la sera prima. Gli sorrisi dolcemente facendo spallucce ma
dentro mi sentivo morire. Morire seriamente.
Gi
anni passarono e il sentimento che lentamente mi consumava non faceva altro che
accrescere di intensità. Cercai di vederli il meno possibile per tentare di
dimenticarlo. Mi misi anche con un mio compagno di classe, un paio di
settimane, ma il mio cuore voleva solamente lui e nessun’altro.
Ormai
non ci vedevamo da quasi più di un mese.
Quella
sera non potevo scappare ancora. M’ero decisa. M’aveva convinto. Quasi
obbligato, sarebbe meglio dire.
Sarebbe
stata quella la sera.
Prima
della festa andai a casa di Katia per prepararci insieme. Sì, esatto proprio
quella. Eravamo diventate grandi amiche. Pantacollant. Minigonna scura.
Maglietta nera con scollatura a dir poco provocante, prestatami da lei e, anche
se avevamo avuto da dire, scarpe con tacco vertiginoso ai piedi. Trucco nero e
capelli sciolti.
Anche
lei lo aveva capito, ma mai detto a nessuno.
Mi
aveva convinto lei a chiederglielo. A dirgli tutta la verità. Io non volevo. Mi
bastava seguirlo da distante, ma lei non era d’accordo.
Facemmo
il nostro grande ingresso verso le dieci di sera. La mia amica mi abbandonò
subito dandomi precise istruzioni su quello che avrei dovuto fare,
rassicurandomi che lei ci sarebbe stata qualsiasi cosa sarebbe successa. Bastava
fare un urlo.
Andai
subito a fare gli auguri al festeggiato e poi presi a girare per casa sempre
più inquieta, guardandomi attorno. Uno, due, tre giri. Tenendolo d’occhio.
Guardando con chi flirtava. Volendo solo scappare da quel mondo per rifugiarmi
nel mio. L’unico in cui mi sentissi libera da tutto.
Ero
ferma appoggiata alla porta che gli davo le spalle quando si avvicinò posandomi
un braccio attorno i fianchi, facendomi rotare su me stessa, così che il mio
cuore accelerò all’impazzata.
«Ma guardati, non sembri nemmeno te» rise
allontanandosi per guardarmi.
Arrossii
cercando di defilarmi. Non potevo farcela.
«E non c’è il tuo amore?» chiese ridendo.
Sì
sei te avrei voluto rispondergli, ma invece lo tenni per me. Chiusi gli occhi
stringendo più forte la sua mano.
«Stai bene?» chiese preoccupato.
«No − sussurrai – Tom, dovrei parlarti …»
dissi senza voce.
Sgranò
gli occhi. Mi trascinò dietro di lui su per le scale al piano di sopra, andando
a chiuderci nella stanza di Andreas. Si sedette sul letto mentre io giravo
agiata.
«Allora?» chiese sorridendomi dolcemente.
Inspirai
profondamente e poi lo feci.
Mi
ero preparata. Avevo imparato a memoria quello che avrei dovuto dirgli,
esattamente come se fosse un’interrogazione. Eppure in quel momento la mia
mente si svuotò completamente. Sentivo solo l’eco del mio cuore che batteva.
«Tom io, io non volevo. M’ha costretto lei.
Cioè ha detto che sarebbe stata la cosa migliore per me, perché non ce la
faceva più a vedermi piangere e star male per te …». Parlavo piano con voce
tremante senza guardarlo in volto.
«Io, io voglio che sia tu, che sia tu il
primo». Avevo il viso in fiamme per la vergogna e gli occhi bagnati per il
dolore.
«C-cosa intendi. Non capisco» balbettò con
gli occhi sgranati.
«Lo sai. Sai cosa intendo. Lo sai benissimo»
lo guardai cercando di cancellare le lacrime.
Mi
lasciai cadere lungo la parete rannicchiandomi, stringendo forte le braccia al
petto. Non dovevo piangere. Dio mio, ma chi me l’aveva fatto fare? Io non
volevo tutto quello.
«N-no questo è soltanto uno scherzo. Tu non
me lo stai chiedendo sul serio. Non è possibile!». Si alzò stupefatto
camminando come avevo fatto io fino a poco prima.
Si
avvicinò passandomi le mani dietro la schiena stringendomi a lui. Abbracciandomi
forte come non faceva mai con me.
«Sicura che è quello che vuoi?» sussurrò
scostandomi i capelli dall’orecchio.
Scossi
la testa con vigore mentre le lacrime scivolavano lungo le guance.
«No! Lascia perdere. Sono stata una stupida
a chiedertelo». Mi alzai spostandolo da me, andando verso la porta decisa ad
andarmene per sempre.
Mi
fermò afferrandomi per un braccio. Mi tenne ferma davanti a lui, guardandomi
negli occhi. Pensavo d’impazzire. Lo desideravo come non l’avevo mai
desiderato. Ma avevo paura di perderlo con qualsiasi movimento che avessi
compiuto. Avevo paura di vederlo sparire nel nulla davanti ai miei occhi.
Si
avvicinò sfiorando appena le mie labbra con le sue per poi avvicinare la sua
bocca al mio orecchio parlandomi dolcemente, fino a farmi venire i brividi.
«Va bene. Se è questo quello che veramente
vuoi, tutto per te piccolina mia. Spero solo di non deluderti troppo. Non sono
poi così bravo e mi tratterrò anche perché avrò paura di farti del male ed è
l’ultima cosa che voglio questa» sussurrò baciandomi la guancia.
Tenendomi
stretta la mano scendemmo di corsa le scale per andare dritti verso casa.
Percorremmo la via senza fermarci, senza dire nulla, non una parola.
Sgattaiolammo
in giardino cercando di non farci vedere da nessuno. Mi fece salire sulle
scalette fatte da noi ormai tutte rotte dal tempo e lui subito dopo. Mi misi in
un angolo stringendo forte le braccia al petto. Stavo per avere tutto quello
che avevo sempre desiderato eppure non riuscivo a provare alcuna felicità, forse
perché ero cosciente del fatto che per lui, quello che stavamo per fare, quello
che gli avrei donato da li a poco, non sarebbe valso nulla.
Il
piccolo pavimento d’assi chiare era rischiarato dalla luce luna.
Veloce
estrasse una coperta di lana scura dalla cassa vicino l’ingresso, sistemandola
accuratamente per terra e poi ne prese un’altra appoggiandola vicino ad un
angolo.
Gentilmente
si voltò verso di me allungando una mano sorridendomi cercando di rassicurarmi.
La presi e mi portò davanti a lui accarezzandomi i capelli. Poi dolcemente mi
fece coricare sopra la coperta e lui subito dopo mettendosi a cavalcioni su di
me.
«Da quanto?» chiese chinandosi a baciarmi.
«Sempre. Da sempre» sussurrai.
Le
sue mani calde si infilarono sotto la maglietta accarezzandomi la pelle.
Ero
percorsa dai brividi.
Lo
baciai sulla bocca. Rispose senza esitazione. Baciandomi come mai nessuno mi
baciò. Come mai nessuno mi bacerà più.
Lo
feci alzare, ed io con lui, iniziando a spogliarmi. Via la gonna e i
pantacollant rimanendo solo in mutande e reggiseno.
Prese
le mie mani nelle sue portandosele sotto la maglietta facendomi accarezzare il suo
petto scolpito. Togliendosela poi velocemente facendomi mancare il fiato. E poi
anche i pantaloni che scivolarono leggeri lungo le gambe spostati in un angolo da
un calcio.
Alla
fine, via anche l’intimo che finì accatastato assieme agli altri vestiti.
Di
nuovo coricati uno sopra l’altra.
Con
la mano scese accarezzandomi il ventre fino a farmi divaricare le gambe.
«E chi l’avrebbe mai pensato che un giorno
mi sarei ritrovato a fare l’amore con la mia migliore amica che ha una cotta
colossale o meglio, è innamorata persa di me da sempre, nella nostra casetta
sull’albero» sorrise dicendo tutto questo.
Cercai
di sorridergli il più sinceramente possibile. Già, chi l’avrebbe mai detto è?
«Ora rilassati. Sta calma. Non sentirai
quasi nulla se è questo che ti preoccupa» rise ed io con lui, anche se la mia
era più una risata isterica.
«Simpatico» sospirai perdendomi nei suoi
occhi.
Dolore.
No, non era proprio dolore quello che provi quando ti fai male ed urli per
scaricarlo. Era più un dolore piacevole, caldo e dolce. Una strana sensazione
di benessere e pace.
Ansimai
gemendo forte. Invocando il suo nome più e più volte.
L’unica
spettatrice di quella notte fu la luna che col suo chiarore illuminò la scena
per le timide stelle che si affacciavano in cielo.
Al
mattino mi svegliai abbracciata a lui. Stretta tra le sue braccia.
Perché?
Perché stavo piangendo? Non dovevo piangere e invece le lacrime correvano
veloci lungo il mio volto. Mi strinsi più forte a lui che mi coprì meglio le
spalle e posò le sue labbra sulle mie guance per asciugare quel fiume di dolore
che bagnava il mio volto.
Felicità,
non ne conoscevo il significato a quel risveglio. Però, da quel giorno imparai
il complicato significato della parola amore.
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