Nemo
“This is me for forever
One of the lost one
The one without a name
Without an honest heart”
Nightwish, Nemo
Dolore.
Pesantezza.
Stanchezza. Tanta stanchezza.
Lame di luce abbagliante gli ferirono gli occhi appena schiusi e,
ormai, orfani del buio: una nuova giornata stava per cominciare.
Peccato che non vedesse l’ora che fosse già finita.
Sbatté un paio di volte le palpebre, mentre fissava il soffitto
trapunto di sprazzi luminosi, che filtravano dalle persiane. Un cielo
finto, artificiale e terribilmente sbagliato. Infatti, avrebbe dovuto
essere blu scuro, non grigio pallido, e le stelle sarebbero dovute
essere riunite in costellazioni, in ordine, in armonia.
Ma così non era.
Man mano che prendeva coscienza, avvertì distintamente arrivare
un’ondata di nausea, pronta a schiacciarlo e deglutì,
mentre le fitte alla testa esplodevano ripetutamente, moltiplicandosi
repentine.
Altro dolore.
Ogni giorno si risvegliava così e oramai aveva imparato a
convivere con quella sofferenza; d’altra parte, la vita che
conduceva richiedeva uno scotto da pagare, era inevitabile. Quanto
più la nottata si fosse rivelata piacevole e soddisfacente -
Sì, soddisfacente -, tanto maggiore sarebbe stato il malessere
della mattina dopo.
Una regola fredda, ferrea, scritta da nessuno, ma che odiava comunque
con tutto se stesso, come gran parte delle cose che facevano parte
della sua vita.
Quando, a quindici anni, si intraprende una strada con la tiepida
inconsapevolezza dell’adolescenza, non si ha ben presente che
quella scelta influenzerà il resto della propria esistenza,
molto più di quanto si possa anche lontanamente immaginare.
Infatti, non si era chiesto, all’epoca, dove l’avrebbe
portato quella decisione e l’aveva fatto soltanto anni dopo,
senza, tra l’altro, senza osare darsi una risposta.
Ci penseremo dopo, ci penseremo domani.
Certo, domani.
Peccato che quel domani non era mai arrivato.
Anzi, l’altezza fango nel quale si era impantanato era aumentata
sempre di più, finché la luce del sole era diventata un
ricordo del quale vedeva solo il cupo riflesso.
Aveva cercato di placare la sua insaziabile sete di vita, attingendo da
quella coppa che gli era sembrata piena di dolce ambrosia, ma, ormai, a
quel punto si era reso conto che non aveva bevuto altro che fiele
velenoso.
Aveva creduto di ribellarsi agli schemi, di fare quello che solo pochi
avrebbero potuto permettersi, di vivere in libertà, secondo le
proprie scelte, invece, si era ridotto ad essere confinato in una
prigione nella quale i carcerieri erano se stesso e le sue decisioni.
Purtroppo, aveva fatto la scelta sbagliata e, poiché non se ne
era accorto subito, ne stava ancora pagando le conseguenze.
E dire che avrebbe potuto ancora cambiare, che era ancora in tempo: in
fondo, tutti a quindici anni sono un po’ sprovveduti, chi
più, chi meno e l’importante è non perseverare
nell’errore.
Non è mai troppo tardi!
Ma io non lo so fare.
Gianni si tirò su, e non senza fatica. A soli ventitré
anni, compiuti da poco più di un mese, sapeva di star sprecando
le sue giornate e gran parte delle ore e dei preziosi minuti che il
Tempo, che passa e non ritorna, gli aveva concesso.
Il Tempo è avido, sottrae e non rende nulla.
Subito, si accorse delle due ragazze che, come il solito, giacevano
accanto a lui, una bionda e una mora, assidue frequentatrici dei
simposi che organizzava Massimo.
Già, Massimo. L’ultimo nitido ricordo che aveva vedeva
proprio il ragazzo alquanto impegnato in un intreccio confuso di
ballerine ridenti, fumare generosamente l’ultimo regalo che si
era fatto: qualcosa di terribilmente sofisticato, derivato direttamente
dalle foglie più pregiate di Erythroxylum Coca.
«Robetta di primissima qualità» aveva garantito.
Gianni, però, aveva inarcato un sopracciglio.
«Robetta di primissima qualità» aveva garantito.
Gianni, però, aveva inarcato un sopracciglio.
«Avanti, ne vuoi anche tu?»
«Per questa sera no, passo la mano».
«Non dirmi che hai paura, Gianni! È solo un po’
più forte del tabacco, ma, credimi, dà molta, molta
più soddisfazione. Questa non fa male, perché la
somministra anche Simone ai pazienti in corsia. Anzi, sono proprio loro
che lo pregano affinché lo faccia» aveva detto ghignante
il giovane bruno, mentre strattonava una ragazza dai capelli rosso
fuoco, costringendola a buttarsi addosso a lui.
«No, Massimo, meglio di no».
«No? Non sai cosa ti perdi. Dovresti rilassarti di più,
sai? Non come quella pischella isterica di tua cugina, che ha davvero
creduto che con me potesse avere l’esclusiva!»
Poi, si era fermato all’improvviso e con lui le ragazze. Il
biondo avrebbe quasi giurato di aver visto un lampo di smarrimento
negli occhi dell’amico. Tuttavia, Massimo si era ben presto
riappropriato del suo sorriso sardonico.
«Ed ora guarda chi si è presa adesso: un noiosissimo
damerino d’oltralpe» aveva concluso con una smorfia di
dubbia interpretazione, tracannando tutto d’un fiato un
generoso bicchiere contenente un liquido trasparente e pastosamente
denso.
«Non è un damerino e tu avresti dovuto avere più
tatto. Claudia è pur sempre una ragazza di buona famiglia, non
avresti dovuto farle certe proposte».
«Infatti, devi ringraziare che è tua cugina, altrimenti
non le avrei chiesto proprio niente. Sarà pure un bel bocconcino
succulento, ma non sa divertirsi. E poi, non è l’unica, ci
sono tante altre bellezze che si lasciano scopare senza
problemi… Prendi quella moretta laggiù, ad esempio: non
ha smesso un attimo di toglierti gli occhi di dosso! Se io fossi al
posto tuo, ci farei un pensierino, prima che arrivi Cassio: a te la
decisone se salvare o no quella prelibatezza dalla sua
brutalità!»
Gianni, però, non aveva sentito il resto, perché si era
soffermato a guardare il liquore oscillare nel suo calice di cristallo,
osservando le onde ambrate scendere lungo il bordo.
“Divertimento” era una parola che nascondeva innumerevoli significati.
Nel pensare a ciò, una smorfia amara gli era affiorata sul viso
e perciò aveva bevuto un generoso sorso, lasciando che il
liquido aromatico lo intontisse e lo riscaldasse.
«Sei sicuro, allora? Non vuoi fare nemmeno un tiro? Su, prima che
quei due avidi avvoltoi di Cassio e Valerio riappaiano da dove sono
spariti con le bionde!» aveva ridacchiato l’altro.
«Se non ti dai una mossa, stasera resterai a bocca asciutta di
tutto».
«No, ho detto di no.»
Allora Massimo, con un’alzata di spalle, era tornato ad occuparsi
alle sue fiammeggianti danzatrici, dimenticandosi di lui.
In realtà, Gianni aveva rifiutato perché quello sarebbe
stato troppo, giacché, se aveva conservato un po’ di
dignità, era proprio perché aveva sempre rifiutato di
drogarsi, non volendo cadere così in basso.
Per questo, non se l’era sentita di andare completamente contro
le regole che aveva cercato di impartirgli suo padre, seppur non
desiderasse altro che annichilirsi e smettere di pensare. Cosa aveva
detto che gli mancava? Ah, sì, i valori morali.
Con Marcello non aveva un buon rapporto, ma ciò non lo
autorizzava ad ignorarlo completamente, visto che rimaneva pur sempre
il suo genitore.
Inoltre, non lo aveva ancora cacciato da casa, sebbene fosse pienamente
consapevole di cosa combinasse il figlio ogni notte e non approvasse
praticamente nulla del suo modo di vivere.
Tuttavia, c’era anche un altro motivo per il quale aveva detto di
no agli stupefacenti e lo doveva al suo adorato nonno e alla sua
memoria.
Un sorriso tirato si affacciò sulle sue labbra e il giovane
trovò finalmente la forza necessaria per alzarsi. Scivolò
via dalle lenzuola, si rivestì rapidamente e fece per uscire
dalla stanza, ma prima lanciò un’ultima occhiata alle due
ragazze che, inconsapevoli, continuavano a riposare.
Anche loro erano finte, esattamente come il cielo di muratura. Belle,
ma di una bellezza che aveva del peccaminoso, del terribile, del
deleterio. Giovani anagraficamente, ma vecchie in esperienza, floride
nell’aspetto, ma putride dentro.
I loro volti, poi, erano assolutamente inespressivi con sorrisi falsi, sottili e taglienti che non confortavano, inquietavano.
Era tutto così… innaturale.
Eppure, non riusciva a smettere di rimanere attaccato alle ragnatele
che gli tessevano intorno quei mostri così belli, lasciandosi
ogni volta cadere nella loro trappola ogni volta, ignorando la frase
che suo padre gli rivolgeva periodicamente: Si può cambiare, se
lo si vuole.
Pensò che, in effetti, sarebbe stato bello svegliarsi ogni
giorno accanto alla stessa persona, costruire un po’ per volta,
mattone dopo mattone, un qualcosa di duraturo.
Non ne sono capace.
Peccato.
“This is me for forever
One without a name
These lines the last endeavor
To find the missing lifeline”
Chiuse la porta e si avviò verso l’ingresso
dell’attico che Massimo usava per quelle occasioni speciali, quei
convivi ai quali partecipavano solo pochi fortunati, scelti fra i
ricchi rampolli delle famiglie più in vista della Capitale.
Già, questa è proprio fortuna
Quei ritrovi, degni di Cesare Borgia, erano mostruosamente simili a
quelli che avevano avuto luogo secoli prima negli ambienti dei nobili e
degli ecclesiastici, quando la corruzione e gli scandali imperversavano
per le strade della città, offuscando e sbiadendo quella che era
stata la gloria di Roma e riducendola ad un cupo riflesso di ciò
che era stata: da Caput Mundi a martire lapidata da un lento e
agonizzante declino.
Gianni varcò il portone, senza nemmeno prendersi la briga di
andare a svegliare l’amico, giacché era certo che si
sarebbero sentiti nel corso della giornata. Anche se, a dire il vero,
per il proprio bene, invece di chiamarlo, avrebbe dovuto prendere le
distanze da lui molto tempo prima. Gli si era anche presentata
l’occasione propizia, ma non aveva saputo coglierla.
Infatti, Massimo aveva fatto credere a Claudia di essere interessato a
lei, per poi farsi cogliere tranquillamente sul fatto con ancora i
corpi del reato stesi sul suo letto e la ragazza, sentendosi presa in
giro, era stata male per mesi, iniziando a riprendersi solo quando
Gianni aveva cominciato a starle vicino. Una volta, per esempio,
sfruttando il fatto che lei fosse un sommelier piuttosto stimato a
livello internazionale, l’aveva portata alla competizione indetta
per eleggere il migliore chef dell’anno alla quale stava
partecipando il suo amico Olivier e lì la bionda italiana aveva
trovato la sua bella distrazione.
Perciò allontanarsi da Massimo per via dell’offesa recata
ad una sua parente sarebbe stata l’occasione giusta perfetta per
uscirsene con la faccia lavata, ma, purtroppo, a causa della sua
inettitudine, se l’era fatta scappare.
Claudia era pur sempre sua cugina, ma non era riuscito a prendere le
distanze da tutta quella bolgia. In fondo, Massimo non aveva promesso
niente alla ragazza, mostrandosi vagamente interessato ed era stata
Claudia ad illudersi, vedendo ciò che non c’era, sperando
di poter ottenere qualcosa di più. Qualunque ragazza che
conoscesse il giovane Colonna, invece, sapeva che non era fatto per le
relazioni durature, che non avrebbe mai potuto proporre a nessuna nulla
di più di uno o più incontri galanti e piacevoli,
figuriamoci di diventare la sua fidanzata. Sì, concluse fra
sé e sé, Claudia non avrebbe dovuto lasciarsi andare a
fantasie infantilmente romantiche.
Sto solo tentando di sminuire vigliaccamente le mie colpe.
Quando scese in strada, tra i vecchi vicoli del centro cittadino,
l’aria fresca di quella mattinata di fine estate lo
investì con violenza, provocandogli un’altra fitta
tremenda.
Scosse la testa per schiarirsela e riprendersi, quindi decise di
incamminarsi verso casa, anche se sapeva che era presto, troppo presto
per rincasare, giacché l’ultima cosa che voleva fare era
incontrare suo padre mentre usciva per andare al lavoro.
Ne sarebbe sicuramente venuto fuori un pandemonio!
Si figurava perfettamente l’espressione schifata che gli avrebbe
indirizzato Marcello nel vederlo comparire con quei vestiti gualciti e
quell’aria di puro patimento, pertanto sarebbe stato preferibile
evitare un efferato alterco di prima mattina, come, invece, era
successo quando gli aveva annunciato l’abbandono
dell’università. Era stato terribile e le urla di suo
padre dovevano essere arrivate anche negli angoli più remoti del
globo terrestre.
Almeno vuoi spiegarmi perché?
Perché... non sono capace di andare avanti.
Giancarlo, i problemi non si aggirano, si risolvono.
Ed io ti ripeto che non ne sono capace!
Allora sei un fallito. Non perché tu non ci sia riuscito, ma perché non hai nemmeno provato.
Dannazione, perché non aveva fatto come gli altri padri a cui
non importava niente della vita dei figli? Cosa gli importava se avesse
voluto rovinarsi completamente?
Evidentemente, qualcosa gli importa.
D’altra parte, rincasare più tardi lo avrebbe aiutato ad
evitare un’altra penosa circostanza, poiché non desiderava
che nemmeno sua madre lo vedesse in quello stato. Avrebbe sospirato
più di una volta, affranta, soffrendo in silenzio con lui.
Gianni aveva sempre avuto il terribile sospetto che Beatrice piangesse
lacrime amare, ogni volta che incrociava il figlio ridotto ai minimi
termini della decenza e a lui dispiaceva, sebbene non facesse nulla per
migliorare la situazione.
Sarebbe davvero valsa la pena pagare quel prezzo così alto, per
ottenere in cambio qualcosa di così negativamente piacevole?
Il piacere assoluto, ecco cosa cercava di soddisfare in tutti i modi.
Eppure, ciò non accadeva: più si illudeva di aver
appagato i suoi istinti, infatti, più sentiva il bisogno
crescente di appagarne altri, più crudelmente insaziabili.
Perché non cercare di finirla, allora?
Non ci riesco.
Cosa mai avrebbe fatto della sua vita? La stava sciupando, regalandola
alle fauci del Tempo. Non stava vivendo come avrebbe dovuto, anzi, non
stava vivendo per niente, perché quello non era vivere: era
aspettare che il Tempo passasse, nel frattempo, cercando di non
annoiarsi troppo.
Ed è differente.
Senza rendersene conto, arrivò sul Lungotevere. Le due file di
ippocastani che presidiavano le due rive del fiume cominciavano
già a mostrare qualche foglia ingiallita: la bella stagione
stava ormai per giungere al termine e l’autunno era alle porte.
Osservò l’orologio e si rese conto che aveva ancora un
sacco di tempo da gettare via. Erano appena le otto e a quell’ora
Emiliano doveva essere in procinto di dirigersi in facoltà,
sicuramente con la mente rivolta a qualcuno degli ultimi esami che gli
restavano da preparare. Doveva aver già fatto la sua corsetta
abituale a Villa Borghese, per poi tornare a casa per cambiarsi, fare
colazione e prendere i libri. Era incredibile come quel ragazzo
riuscisse a fare sport anche la mattina dell’esame, ottenendo
comunque brillanti risultati!
Il biondo si rese conto che non avrebbe dovuto pensare a lui; non lo
faceva quasi mai da quando avevano litigato e aveva deciso di eliminare
dalla memoria il ricordo del suo migliore amico. Ciononostante, quella
mattina non poté ignorarlo.
Emiliano Corsini non avrebbe potuto essere più diverso da Gianni
Tornatore, caratterialmente e fisicamente: erano agli antipodi. Tanto
giudizioso e moderato il primo, tanto esuberante e vivace il secondo;
quanto più l’uno era moro e semplice nel vestire, tanto
l’altro era biondo e ostentatamente vezzoso. Eppure, erano sempre
stati ottimi amici, amici veri e privi di interessi l’uno nei
confronti dell’altro, rispettando vicendevolmente i loro
differenti modi di essere.
Ma, ad un certo punto, qualcosa si era incrinato anche tra di loro.
Per mesi Emiliano era stato strano: aveva lanciato a Gianni occhiate
dubbiose, aveva lasciato intendere che non gli piacesse quel Colonna,
gli aveva caldamente suggerito di allontanarsene.
Finché, in un pomeriggio di giugno di due anni prima, non era successo l’irrimediabile.
Dai, Emilia’, sembri mio padre.
Avrà notato anche lui che quel Massimo non la racconta giusta.
Si tratta solo di una festa...
No, Gianca’. Non è così. Secondo me dovresti
lasciar perdere anche tu. Ti ricordo che sei stato già respinto
una volta, in statistica. Se fossi in te, comincerei a studiare
seriamente.
Adesso ti metti anche a dirmi cosa devo fare?
Non prenderla male, sono solo consigli di un amico che ti conosce da tanto.
Ed è per questo che mi tratti in questo modo?
No, è per questo che sono sincero. Lo sai che sei come un fratello, per me.
Un fratello? Ma se non fai altro che rimproverarmi! Non credevo sarebbe finita così, sai?
Nemmeno io. In fondo, abbiamo solo fatto scelte diverse.
Scommetto che la tua è quella più giusta.
Non esiste il giusto in assoluto. Ognuno costruisce la propria strada
come vuole, perché ha esigenze diverse e le mie non sono uguali
alle tue.
Emilia’, stai parlando come uno di ottant’anni!
Mi sono solo rassegnato al fatto che tu non sia più quello di una volta.
Ecco dunque come era finita la storica amicizia tra i due giovani.
Gianni sapeva di essersi comportato da stupido ragazzino, ma non voleva
ammetterlo, perché sarebbe stato come confessare quanto avesse
sbagliato e quanto, invece, Emiliano avesse visto giusto. Era stato
molto più facile fuggire via, offeso, che supplicare il perdono
dell’amico.
Poi, successivamente, aveva pensato tante volte di andare a chiedergli
scusa, anche se, di fatto, non aveva mai trovato il coraggio,
perché non voleva umiliarsi, ma, soprattutto, perché non
voleva riconoscere di essere nel torto. Così, aveva perseverato
nella presunzione e nell’arroganza.
E cosa ne aveva ottenuto? Niente. Se non che Emiliano gli mancasse da morire.
Non sono forte come credo.
“Oh how I wish
For soothing rain
All I wish is to dream again
My loving heart
Lost in the dark
For hope I’d give my eveything”
Si fermò sul ponte che guardava all’Isola Tiberina e si
sbracò sulla balaustra, accendendosi una sigaretta.
Osservò per un istante il fumo che si alzava piano verso il
cielo lontano ed indifferente, poi spostò lo sguardo in basso,
intrattenendosi ad ammirare l’acqua che scorreva impetuosa sotto
di lui: rivoli convulsi, rigagnoli turbinosi, piccoli mulinelli stavano
rappresentando la furia della natura.
Quel vorticare frenetico, però, gli fece girare maggiormente la testa, aumentando a dismisura il senso di nausea.
Eppure… eppure quelle onde così scomposte e selvagge avevano un qualcosa di attraente, erano onde... tentatrici.
“Un salto, solo un salto!”
Iniziarono a chiamarlo.
“Vieni, solo un salto… Vieni, vieni da noi! Chi vuoi che sentirà la tua mancanza?”
Volevano proprio lui.
“Forse i tuoi ex-compagni di squadra?”
No. Ralf, Andrew ed Olivier avevano le loro sistemazioni, le loro vite
perfette, le loro famiglie felici alle spalle, le loro fidanzate
impeccabili e il futuro già scritto. Invece, lui non aveva nulla
in comune con loro - Proprio nulla -, soprattutto non la loro freddezza
e imperscrutabilità: lui si infiammava facilmente e diventava
aggressivo con poco, facendosi spesso comandare dai suoi istinti.
Infatti, era bastato che quel ragazzo giapponese venuto da
chissà dove lo insultasse, per fargli saltare i nervi e ancor
meno per convincerlo a dargli la rivincita. Tuttavia, alla fine, si era
fatto battere dalla sua stessa arroganza, diventando vittima di una
strategia terribilmente banale. Erano passati anni, ma ricordava ancor
tutto alla perfezione: aveva vacillato e si era lasciato influenzare,
mentre i suoi compagni avevano avuto i nervi più saldi. Certo,
infine si erano ricreduti anche loro, è vero, ma al momento
giusto e, per di più, in maniera dignitosa.
“Forse Emiliano?”
No. Era stato capace anche di litigare con lui, il migliore amico che
avesse mai avuto, quello che lo conosceva fin dall’infanzia e che
lo aveva sempre trattato con gentilezza, cercando di fagli capire con
le giuste parole che stava sbagliando. E cosa aveva fatto invece lui,
in risposta a tanta amicizia? Gli aveva voltato le spalle, preferendo
la compagnia di Massimo.
“Forse i tuoi genitori?”
No, nemmeno loro. Certamente, suo padre avrebbe smesso di adirarsi e
sua madre avrebbe cessato di piangere per lui, ma comunque, avrebbero
finito di patire per il figlio che non era come avrebbero desiderato.
Perché lui non era all’altezza di suo padre - E chi mai
potrebbe arrivarci -, non sarebbe mai stato rispettato allo stesso
modo, perché non aveva la stessa stoffa e, soprattutto, non era
l’erede che si aspettavano tutti che fosse.
“Visto che starebbero tutti meglio senza di te?”
Quella era la verità. Lapidaria, asciutta, tagliente e terribile verità.
“Coraggio, Nemo, non sarà doloroso! Un attimo e finirà tutto!”
Il suo nome. Nemo.
Ecco qual era il suo nome: Nemo.
Non aveva un’identità precisa, né aveva una
personalità definita, ma viveva nel solco della consuetudine,
scavato per lui da altri.
Aveva fatto del “Si dice, si fa” la sua linea
d’azione, passando le sue giornate nell’anonimato
più assoluto ed evitava di presentasi con il suo vero nome
perché non se ne sentiva degno. Con quale coraggio, infatti,
avrebbe potuto affermare di chiamarsi come il suo amatissimo nonno, una
persona così rispettabile e così diversa da lui?
Non lo meritava.
Nemo. Sì, è vero.
Intanto, sotto di lui le onde si schiantavano, le une contro le altre,
come se volessero proprio lui per quietarsi, mentre le vertigini ed il
senso di attrazione verso il vuoto in rivolta si impossessavano delle
sue sensazioni: era solo una sua impressione o la struttura del ponte
stava davvero tremando? Possibile che dopo secoli fosse sul punto di
cedere?
Si guardò intorno e si accorse che era stata la sua
immaginazione, così tornò a concentrarsi sull’acqua
in tumulto.
In quel momento, annegare nell’oblio gli sembrò più
rapido ed indolore di quanto avesse mai immaginato e la presa sul marmo
si fece più salda.
Solo una piccola spinta per, finalmente, abbandonarsi all’acqua.
Buffo, che fosse proprio quello l’elemento di Anfisbena.
Proprio per questo motivo, subito dopo si cavò di tasca il bey e
lo poggiò sulla balaustra, deglutendo. Non meritava di fare una
fine simile, giacché lo aveva maltrattato abbastanza, senza
riuscire a scusarsi prima che l’animale sacro cadesse nel suo
sonno di riposo e si congedasse da lui: quanto aveva sofferto in quei
pochi istanti a lui concessi per dirgli addio!
Ma, soprattutto, non era nemmeno riuscito ad adempiere a quella promessa: “Tratta bene lo Spirito…”
Sì, come no! Erano soltanto parole al vento, perché,
anche se in realtà si era ravveduto, non aveva potuto comunque
cancellare gli anni durante i quali si era comportato come un autentico
despota nei confronti di Anfisbena.
Non era più un blader di grande notorietà, un campione
d’Europa, un avversario appetibile da sfidare e non sarebbe
più stato osannato come tale, perché ormai c’era il
carismatico e supponente Julius Caesar al suo posto.
Non aveva più un bit-power, uno spirito degli elementi che
faceva la differenza tra blader e blader ed ormai era uguale a tanti
altri.
Con questi pensieri, Gianni tornò ancora una volta a fissare il fiume.
Acqua, onde, l’oblio. Acqua, onde, il nulla. Acqua, onde, la fine.
Uno squillo improvviso, però, spezzò il silenzio e
scatenandogli un’altra fitta. Allora, dolorante, cacciò
una mano nella tasca esterna della giacca e tirò fuori il
cellulare.
«Claudia?» borbottò, lievemente sorpreso.
La voce acuta della cugina gli rimbombò in testa, provocandogli altro dolore.
«Che c’è? Non ti sei resa conto che sono le otto e
mezza di mattina?!» le fece, in qualità di saluto.
«Non avresti potuto essere più ascido di
così!» ribatté la ragazza, piccata. «È
dunque questo il modo che si augura il bonjour alla propria
cugina?»
Il biondo sbuffò, sfregandosi delicatamente le palpebre chiuse.
«Scusami, è che per me è molto presto. Tutto qui» replicò stancamente egli.
«Presto?»
Ci fu qualche attimo di silenzio, ma poi l’altra proseguì:
«Ti ho chiamato solo per ricordarti che dovrebbero essere
arrivate le carte d’imbarco, i visti e tutti gli altri documenti
per il viaggio. Te li ho spediti io stessa da Paris l’altro
giorno».
«Ah, già, i documenti» fece il giovane, pigramente.
«Tu e Olivier avete costretto Ralf a confessare di essere la
mente del tutto? Partenza da Venezia, scalo in tutti i maggiori porti
dell’Adriatico, soggiorno prolungato ad Alessandria
d’Egitto, tappa in Grecia e ritorno a casa con l’aereo. Un
viaggio così arzigogolato può essere solo frutto del suo
cervello contorto».
«No» replicò Claudia. «Continua a sostenere
che sia un’idea di Andrew, nonostante lui e Mary Anne neghino,
anzi, loro insinuano che sia un’idea di Olivier».
«Ed è così?»
«Certo che no! Ti sembra in grado di organizzare un itinerario in
mezzo ai selvaggi? Lui avrebbe proposto sicuramente qualcosa di
più raffinato e romantique».
Il giovane roteò le iridi blu: la concezione che aveva Claudia di civiltà era piuttosto ristretta.
«D’accordo, scusa, tesoro. Non mi permetterò mai
più di fare simili insinuazioni» fece lui, fingendosi
addolorato.
«Ecco, bravo» rispose la cugina, più dolce,
soddisfatta per l’appellativo che le era stato rivolto e
ignorando volutamente il tono che faceva da contorno
all’affermazione.
«Resta il fatto che chi ha organizzato tutto questo deve essere
una mente sadica. Sicura che McGregor non c’entri nulla?»
riprese Gianni.
Non so cosa dirti, hanno negato fino all’altra sera».
«L’altra sera?»
«Sì, li abbiamo incontrati al casinò di
Montecarlò. Andrew era impegnato in una partita alla roulette,
ma non credo che abbia vinto granché» commentò la
ragazza, ridacchiando.
«Non vince mai alla roulette» sottolineò il ragazzo.
«Solo perché non fa gli occhi dolci al croupier, ogni volta che è una donna».
A quel punto, però, Claudia aveva assunto un’intonazione risentita e seccata.
«Su, cuginetta, non dirmi che ce l’hai ancora con me per quella volta...»
«Non me lo ricordare!» strillò lei, imperativa, così il biondo decise di tacere.
Il biondo tacque.
«Piuttosto, ieri ho sentito Maria Chiara. Sai, le avrebbe fatto
piacere essere invitata da te e fare questo viaggio insieme.
D’altra parte, sarebbe piaciuto anche a me se fosse stata dei
nostri, visto che le migliori amiche condividono tutto»
notò Claudia.
La conversazione stava prendendo toni decisamente poco opportuni e
l’ultima frase che aveva pronunciato la ragazza si prestava a
numerose interpretazioni, anche se Gianni sospettò che quella
più corretta non fosse certo quella di più integri
costumi.
«Cuginetta, lo sai che con le ragazze mi piace gestirmi da
me» le fece notare lui, mellifluo, volendo chiudere presto quella
conversazione.
«Già, come hai fatto stanotte, vero?» rispose
Claudia, improvvisamente inviperita. «Lo so che sei andato da
Massimo e vi siete dati alla pazza gioia con quelle baldracche!»
«Ma...»
«Sei un traditore! Ti odio!» concluse, sbattendogli il telefono in faccia.
«Buona giornata cuginetta, salutami anche Olivier!»
recitò con tono impostato il ragazzo, chiudendo la chiamata,
certo che l’avrebbe risentita prima di sera. Ogni volta, infatti,
finiva nella stessa maniera: si arrabbiava, lo piantava in asso, offesa
e ferita, per poi farsi viva di nuovo, piagnucolando scuse e
pretendendo che egli le desse un segno tangibile del suo perdono e del
suo affetto.
Era soltanto l’ennesima scenata. Tuttavia, un minimo di ragione,
l’aveva anche la ragazza: Massimo non era una brava persona e
quello che faceva Gianni non era esattamente giusto, anche se restava
il fatto che la gelosia della ragazza sconfinava oltre il consentito e
per questo la situazione si stava facendo intollerabile.
La giovane, infatti, pretendeva di gestire l’esistenza del cugino
solo perché credeva, a torto, che sarebbe stata la donna
più importante della sua vita. E così, mentre lui veniva
perpetuamente accusato di perversione per la sua condotta libertina,
Claudia, che continuava a manifestargli un attaccamento morboso, veniva
indicata come ragazza a modo.
Il giovane sapeva benissimo che non avrebbe mai potuto provare
più di un semplice affetto, ma lei non era dello stesso avviso.
Inoltre, non corrispondeva al tipo di fanciulla che, in un angolino del
suo cuore, aveva innalzato a modello adatto a lui. Anche se non ne
aveva mai parlato con nessuno, aveva anche lui un’idea di donna
ideale ed era il segreto che custodiva più gelosamente, assieme
al desiderio di potersi innamorare sul serio, un giorno.
Fin da bambina, la ragazza era stata molto attaccata a lui, non
seguendo propriamente i canoni dell’amore tra cugini. Gianni,
però, non vi aveva badato molto, fino a che, due estati prima,
la verità non gli si era presentata in tutta la sua cruda
essenza.
Erano entrambi sul porticato di Villa Paolina sull’Isola
d’Elba, l’unica proprietà Madonna Beatrice Tolomei
in Tornatore ad essere stata salvata dalla razzia fatta dal padre di
lei per sanare i debiti di gioco dell’altro figlio, Guido. La
Villa degli Esuli, come la chiamava Sor Marcello.
Sulla spiaggia, c’era un fitto gruppetto di fanciulle
ridacchianti, intente a mettersi in ridicolo praticando qualcosa di
lontanamente simile al beach-volley.
Chissà cosa era scattato in quel momento nella testa della
ragazza! Forse era stata l’amarezza di non aver potuto avere
Massimo o il fatto che avesse capito che tipe fossero quelle plebee?
Oppure le aveva dato fastidio che il biondo stesse flirtando a distanza
e da almeno mezz’ora con una moretta ben tornita, la quale stava
palesemente facendo finta di non morirgli dietro? Magari, invece, si
era resa improvvisamente conto che Gianni era diventato uguale allo zio
Marcello da giovane, avendo abbandonato l’impronta di Guido
Tolomei. O, ancora, che l’abbronzatura dorata gli aveva messo in
risalto il fisico tonico, i capelli biondi e gli occhi blu rutilante?
Qualunque fosse la causa, la conseguenza fu solo una.
Probabilmente, infatti, la ragazza era giunta ad alcune conclusioni
facilmente deducibili: il cugino era sostanzialmente un cretino, seppur
un gran bel cretino, e quella smorfiosa non aveva il diritto di
appropriarsi di ciò che, invece, era suo. Così, senza
preavviso, Claudia si era alzata dalla sua postazione e si era
avvicinata al ragazzo, prendendogli una mano e facendosela passare
intorno alla propria vita; quindi, con bramosa insistenza, aveva fatto
scorrere sul petto i propri palmi aperti. Il giovane non aveva avuto
nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa stesse succedendo, che
quella si era già avvinghiata a lui, impossessandosi delle
sue labbra, schiudendogliele con prepotenza, bloccandolo con un bacio
lascivo e voluttuoso.
La tizia della spiaggia, però, non doveva aver gradito la scena
offertale, poiché, in quattro e quattr’otto, aveva
radunato le sue degne amiche e tutte insieme se ne erano andate,
mulinando sdegnose i capelli al vento.
Basito e agghiacciato, Gianni non era riuscito a dire nulla e, col
cuore fermo e deglutendo a stento, si era limitato a fissare la cugina
con sommo raccapriccio. Dal canto suo, Claudia si era staccata da lui,
sorridente e soddisfatta della propria opera, per poi tornare ad
accomodarsi sul divanetto di vimini a sventagliarsi e a leggere la sua
rivista, come se nulla fosse accaduto. Tuttavia, il ragazzo, seguendola
con la coda dell’occhio, l’aveva vista leccarsi le labbra
con avidità, e godendo appieno di quell’atto, cosa che
l’aveva fatto inorridire maggiormente.
Per fortuna, nessuno dei due aveva mai più menzionato
l’episodio e, quando la bionda aveva conosciuto Olivier e se ne
era innamorata, pienamente ricambiata, le sue scenate di gelosia nei
confronti del cugino si erano ridotte ad episodi sporadici e a pretese
di abbracci più intensi una volta ogni tanto. Il giovane,
perciò, aveva creduto che fosse tutto finito, ma, in
realtà, si era sbagliata, perché, come aveva avuto modo
di apprendere in seguito, la ragazza aveva solo allentato
momentaneamente la presa, pensando che sarebbe stato molto interessante
beneficiare, alternativamente, della gentilezza dell’uno e della
passionalità dell’altro.
Il francese, però, aveva intuito qualcosa e aveva chiesto
spiegazioni all’amico, il quale non si era sentito di mentire
all’amico. Così quello, dopo aver capito la situazione e
apprezzando la sincerità dell’altro, aveva pensato bene di
portare Claudia via da Roma, lasciando che si installasse nella sua
villa parigina. Ed era andato tutto bene, finché Maria Chiara
non si era incapricciata di Gianni e l’aveva confidato alla sua
antica compagna di giochi.
Le migliori amiche condividono tutto.
Il biondo fissò l’orizzonte, immobile, poi, quasi
inconsapevolmente, cominciò a far rimbalzare il cellulare sul
proprio palmo, prima piano, poi sempre più forte. Lo
lanciò a mezz’aria, per riprenderlo subito dopo e
metterselo davanti al volto, tenendolo con due dita e lasciandolo
oscillare.
Improvvisamente, però, allentò la presa e quello
iniziò la sua caduta verso le onde, finché non fu da esse
mangiato. Tuttavia, il ragazzo non seppe mai dire perché lo
avesse fatto.
Per sfregio? Poteva permettersi tutti i cellulari che desiderava,
perciò non era importante aver gettato in pasto alla furia del
Tevere il suo nuovo, super tecnologico i-Phone.
Perché, semplicemente, gli andava semplicemente di farlo? Be’, si stava davvero annoiando, senza fare niente.
Per rispettare il bisogno di buttare qualcosa? In realtà, stava
per buttare altro, o meglio, qualcun altro, anche se sapeva che, in
fondo, non lo avrebbe mai fatto, perché amava troppo la vita e i
suoi piaceri per rinunciarvi, nonostante odiasse la sofferenza che gli
veniva sempre inflitta mentre cercava di appagare i propri sfrenati
desideri.
Amava odiando, odiava amando.
Gettò il mozzicone a terra e recuperò Anfisbena,
mettendolo al sicuro in tasca. Quindi si avviò pigramente verso
casa.
No. Non oggi.
“My flower, withered between
The pages two and three
The once and forever bloom
gone with my sins”
Certamente, Marcello doveva essere uscito da un pezzo e, altrettanto
sicuramente, Beatrice doveva aver già incominciato il suo
abituale giro del giovedì, durante il quale portava avanti le
sue opere di carità; tuttavia, per essere certo di non
incontrare nessuno dei due, il ragazzo si arrampicò con
agilità sull’edera che cadeva da una delle terrazze,
così, con un paio di salti, si sarebbe ritrovato sul balcone del
primo salone.
Era curioso vedere come facesse mostra delle sue migliori doti atletiche solo per scappare o rientrare alla chetichella.
Fece attenzione a non rovesciare i vasi disposti sulla soglia marmorea.
Quello della portulaca, infatti, era pieno di boccioli magenta in fiore
e lì vicino ce ne era un altro con dei girasoli, gli ultimi
della stagione. Li aveva sempre trovati i più belli, con i loro
grandi petali dal colore così allegro.
Troppo belli per me.
Gianni non aveva mai dimostrato particolare fantasia nel regalare i
fiori alle ragazze che corteggiava, in quanto non aveva mai ritenuto
che ogni specie sarebbe potuta essere indicata ad personalità
differente, così, aveva sempre e unicamente puntato sulle rose
rosse, rendendosi conto solo allora quante altre varietà
esistessero al mondo. Infatti, ormai esse avevano perso la loro
bellezza, poiché aveva attribuito loro il valore della conquista
senza sentimento: erano solo un’icona, un mero simbolo di
seduzione materialista e di peccato. Oh, come aveva potuto rendere
qualcosa di così bello, così terribile?
Sono capace solo di fare cose orribili.
Tuttavia, gli sarebbe piaciuto regalare ad una fanciulla dei girasoli,
magari come simbolo della sua allegria e della sua vitalità
incontaminata, ma, fino a quel momento, non aveva mai incontrato una
ragazza che corrispondesse a quella descrizione, anche se non implicava
necessariamente che lei non esistesse.
“Là fuori c’è tutto per tutti: basta uscire e
cercare”, gli aveva sempre detto il nonno, quando lo vedeva
insoddisfatto di qualcosa.
Nel ricordare tale massima, il ragazzo sorrise: se solo l’uomo
fosse stato ancora con lui, lo avrebbe sicuramente aiutato a trovare le
risposte giuste. Ovviamente, però, non gli avrebbe rivelato
tutto e subito, limitandosi a fornirgli gli indizi per arrivarci, come
faceva con la caccia al tesoro.
Riscuotendosi dai suoi pensieri, Gianni tornò nuovamente ad
osservare con maggiore attenzione le corone di petali dorati: quei bei
fiori meritavano qualcuno di puro e pieno di gioia, come loro.
Sì, avrebbe regalato quelle piccole meraviglie della natura alla
ragazza che sarebbe stata per lui la luce che gli avrebbe indicato il
percorso giusto, esattamente come i girasoli seguivano il cammino del
sole.
Qual piccolo, ma confortante barlume di speranza per lui!
A quel punto, esitante, si avvicinò al vaso, perché avrebbe tanto voluto toccare quei petali gialli e delicati...
«Ti sembrano questi l’ora ed il modo di rientrare? Questa
casa ha una porta e, pensa un po’, perfino una governante in
grado di aprirla!» lo apostrofò improvvisamente una voce
femminile, alquanto irritata, ma non sorpresa di vederselo comparire in
quel modo così poco ortodosso.
Il ragazzo, allora, si voltò piano, con già stampato sul
volto uno dei suoi tipici sorrisi feromonici a metà tra il
seducente e il rassicurante, ritrovandosi davanti una donna di mezza
età, maestosa e corpulenta. Dai suoi lineamenti, si poteva
indovinare che avesse un bel viso, benché in quel momento
fossero contratti in una smorfia di rabbia.
«Annetta, la mia governante preferita! Quale gioia trovarti ad accogliermi...» iniziò lui.
«Oh, stai zitto!» replicò lei.
«Mamma e papà non ci sono, vero?»
«Per tua fortuna, no».
«Allora, in questo caso, si potrebbe anche...»
«Tappati quella bocca e stammi a sentire, ragazzino!» fece
lei, puntandogli minacciosamente un dito contro. «Ti piace
così tanto uscire e rientrare di soppiatto come se fossi un
malvivente o roba simile?»
«Fa molto supereroe che ha una doppia vita» sghignazzò il biondo.
La governante, però, gli assestò un poderoso scappellotto sul collo, sbuffando incollerita.
«Ahi! È così che mi dimostri di essere contenta di
vedermi? Io sono felicissimo di averti trovato ad aspettarmi, è
sempre piacevole incontrarti...»
«Contenta di vederti?» sbraitò Annetta.
«Contenta di vederti?! Moccioso impertinente, con me non attacca!
Ti conosco da prima che tu nascessi, ti ho visto crescere e perderti
per strada. Puoi fare il cascamorto con le bagasce che ti sbavano
dietro, ma non con chi sa bene di che pasta sei fatto! Perciò
ora fila dentro e stai attento a dove metti i piedi, perché
è già tutto pulito!»
«Dove passa Annetta non si batte la fiacca, eh?» scherzò ancora Gianni.
«Dentro!!!» gli urlò quella, invece, mandando saette tutt’intorno.
Allora, seguendo le direttive dategli, il biondo fece il suo ingresso a
Villa Aurelia, dirigendosi immediatamente nelle sue stanze, con la
donna, dietro di lui, che si lamentava del fatto che aveva dovuto
parlare con quell’isterica della giovane Torlonia, di cui si
rifiutava di ammettere la parentela con i Tornatore, riguardo ad alcuni
documenti che erano stati recapitati lì la mattina presto,
strillandogli dietro anche ogni genere di improperio, per le
disdicevoli condizioni in cui era tornato a casa.
«Scellerato, qualche giorno di questi farai prendere un infarto al tuo disperatissimo padre!»
Deve smetterla di farsi gli affari miei.
«E quella povera donna di tua madre? Si consuma di dolore nel vederti in questo stato pietoso!»
Povera mamma...
«Guarda come ti sei ridotto! Come un reietto, un...»
Gianni si arrestò di colpo, bloccandosi in mezzo al corridoio.
«Annetta?»
«Cosa vuoi?»
«Urla piano, per favore. Ho mal di testa».
La donna assunse un’espressione indignata, ma abbassò comunque il tono di voce.
«Te lo meriti».
Lo so.
“Walk the dark path
Sleep with angels
Call the past for help
Touch me with your love
And reveal to me my true name”
Una volta nelle sue stanze, Annetta lo precedette, dirigendosi in bagno ed uscendone un quarto d’ora più tardi.
«Muoviti, ti ho preparato la vasca. Vedi di toglierti ogni
traccia di quegli orribili profumi molesti» fece la donna,
arricciando il naso disgustata. «L’unica nota positiva
è che sembra che tu abbia bevuto meno del solito. Bella
consolazione!»
Poi, lo strattonò per un braccio con assai poca delicatezza e lo
spinse nell’antibagno: «Svelto, spogliati immediatamente!
Devo portare quei vestiti giù in lavanderia».
«Come andiamo di fretta... mi sono forse perso qualcosa di
importante? C’è un ricevimento al quale dobbiamo prendere
parte e sono in ritardo, per caso?» fece il ragazzo, ostinandosi
a non voler fare il serio e incrociando le braccia.
«No, moccioso. Devi darti una ripulita perché non è
così che va in giro un figlio di signori» replicò,
invece, la governante, intransigente.
«E se io non volessi esserlo?»
«Troppo tardi, caro mio. Ti sei creduto grande, quando, in
realtà, sei solo un ragazzino viziato. Ti sei preso lo zucchero
prima ancora d’aver ingoiato la medicina. Hai fatto una scelta
avventata ed ora ne paghi le conseguenze, perciò adesso trova il
modo di rimetterti in sesto. E non mi riferisco soltanto alla pietosa
condizione in cui sei stamattina» aggiunse, lanciando uno sguardo
torvo agli indumenti gualciti e ai capelli biondi, ancor più
arruffati del solito.
Il ragazzo, allora, abbassò la testa, deglutendo piano.
«Ogni mattina dovresti svegliarti presto per andare
all’università, mentre il pomeriggio dovresti studiare e
la sera uscire con una ragazza a modo e dal viso pulito»
proseguì poi la donna, sempre inquisitoria: ormai la faccenda
del terzo grado mattutino era diventata una tradizione. «Sei un
ingrato! Tuo padre non ti ha mai obbligato a frequentare la figlia di
qualche pezzo grosso della finanza o dell’industria e tu come lo
ripaghi? Andandoti a strusciare contro quelle donnacce che ti leccano
solo perché sei piacente ed in grado di elargire bei regali in
cambio! È già un miracolo che non ti sia preso qualche
malattia da bordello…»
«Tipo la sifilide?» suggerì il ragazzo, sorridendo
tra il divertito e il tracotante, anche se sempre a capo chino.
La donna, però, lo dardeggiò con un’occhiata di fuoco.
«Cerca di toglierti quel ghigno di stupida superiorità
dalla faccia, bamboccio strafottente. Hai un nome da tenere alto e un
contegno che devi darti!»
Tuttavia, Gianni mantenne il capo abbassato, perché, anche se
esteriormente sembrava che il rimprovero gli fosse scivolato addosso
come acqua, in realtà, dentro, esso aveva colpito in pieno le
sue ansie. Perché, in fondo, sapeva che Annetta aveva ragione:
il suo posto nella società era già pronto e, prima o poi,
avrebbe dovuto prenderlo. Ma con quale dignità?
«Lo so» disse piano, con un piccolo sospiro, «ma non so da dove partire e come fare».
«Questo dovrai scoprirlo da solo» fece la donna, afferrando
la giacca e strappandogliela di dosso, senza preoccuparsi di fargli
male.
«Aspetta! Dentro la tasca c’è il regalo del
nonno!» esclamò lui, sobbalzando. Poi, rapidamente
infilò una mano all’interno delle fodere e ne estrasse il
suo beyblade turchese e la governante lo lasciò fare,
perché conosceva il valore e l’importanza che il biondo
attribuiva a quello strano e piccolo oggetto.
«Peccato che quel sant’uomo di Sor Giancarlo non ci sia
più. Magari a lui avresti dato ascolto...» commentò.
In quel momento, a Gianni Anfisbena sembrò più
pesante che mai, tanto che pareva fatto di piombo e il giovane
avvertì una stretta terribile allo stomaco, che non aveva nulla
a che fare con la nausea. Tuttavia, ignorò il commento,
limitandosi a bofonchiare: «Verrà mai il giorno in cui mi
farai fare le cose con calma?»
«Certamente» affermò decisa Annetta. «Quando
mi accorgerò che sui tuoi vestiti, oltre al tuo profumo, ce ne
sarà solo un altro e sarà sempre lo stesso».
Quindi uscì e lo lasciò nell’antibagno, dove il
ragazzo comincò a spogliarsi con estrema lentezza, evitando
accuratamente di guardarsi allo specchio.
Non c’era niente da vedere e compiacersi narcisisticamente per il
proprio bell’aspetto era un’occupazione che lo avrebbe
impegnato per qualche secondo; non gli avrebbe certo impedito di andare
oltre, di accorgersi e vergognarsi di essere solo un’ombra, il
fantasma di se stesso.
Nell’aspetto, infatti, era diventato molto simile a suo padre, ma
quella bellezza gli arrecava tanto danno quanto vanto. Un’arma a
doppio taglio, insomma, a dimostrazione di come un dono, se usato con
gli intenti sbagliati, si possa rivoltare contro il legittimo
proprietario. Lo specchio sapeva tutto, a cominciare dalla
verità, perciò esso non avrebbe potuto mentirgli,
mostrandogli ciò che era in realtà, chi si celava davvero
sotto quella parvenza di beltà.
Una nullità, caro Nemo.
Finalmente, si immerse in acqua, poggiando il bey sul bordo della vasca
e restando un poco a guardarlo attraverso l’acqua. Poi,
sprofondò, lasciando che quel liquido saponato e profumato di
buono lenisse il suo dolore e alleviasse le sue sofferenze.
Almeno all’apparenza, quell’acqua, così calda e
immobile, era così diversa da quella impetuosa del fiume.
Almeno all’apparenza.
Acqua, tepore, l’oblio. Acqua, tepore, il nulla. Acqua, tepore, la fine.
Desiderava che, almeno per una manciata di istanti, la sua testa
pulsante smettesse di pensare, così da evitare quello che non
voleva fare: preoccuparsi.
Eppure, sapeva che scappare dalle proprie responsabilità non gli
sarebbe stato di aiuto in eterno, poiché, prima o poi, avrebbe
dovuto comunque fare i conti con chi era e, soprattutto, con chi
avrebbe dovuto essere.
Aspettava e temeva insieme quel momento, giacché sapeva che
sarebbe stato qualcosa di spaventosamente umiliante e vergognoso.
Chissà in che modo ne sarebbe uscito: da eroe oppure ancora
più infangato?
In quel momento, sentì l’aria che cominciava a venir meno
e riemerse bruscamente, facendo traboccare un po’ di schiuma al
di fuori della vasca.
Si stropicciò gli occhi e si buttò i capelli bagnati
all’indietro, per poi scivolare nuovamente verso il fondo, questa
volta fermandosi quando il pelo dell’acqua gli rasentò il
mento.
Mancava poco più di una settimana alla partenza per la vacanza
che avrebbe trascorso con i suoi amici e le rispettive fidanzate, dove
loro avrebbero fatto la loro buona figura, mentre a lui sarebbe toccata
la parte del superficiale e dello spirito gaudente. Conosceva bene quel
ruolo, perciò sapeva che non avrebbe dovuto sprecarsi più
di tanto per raggiungere una buona performance.
Tuttavia, forse non sarebbe stato male e avrebbe visto un po’ di
gente nuova. Si sarebbe divertito come sempre e, magari avrebbe trovato
qualche ragazza di suo gradimento a cui non si sarebbe certo
risparmiato nel farle la corte, fino al momento in cui la sua futura
preda avrebbe ceduto. Poi, se la sarebbe presa e ci avrebbe giocato un
po’, come il solito. Aveva un debole per le more - Questo
è vero - ed era certo che le coste del Mediterraneo, in special
modo quelle dell’Africa, pullulassero di belle fanciulle
abbronzate.
Inoltre, nel corso del viaggio ci sarebbe stata una sosta forzata ad
Alessandria: quattro giorni e tre notti da spendere in Egitto, una
terra di faraoni, di piramidi, del Nilo dalle acque blu, una terra di
storia e di cultura, assoggettata in passato proprio al potere di Roma.
Cosa mai avrebbe potuto offrirgli ciò che una volta era stata
una misera colonia di vasto impero? Forse una bella e graziosa schiava,
adatta a deliziare i desideri di un aitante e fascinoso conquistatore?
No, non sarebbe stato per niente difficile, viato che otteneva sempre
quello che voleva.
Sì, ma solo ciò che è corrotto.
Poi, alla fine della baldoria, avrebbe fatto il suo rientro e allora sarebbe ricominciata l’angoscia.
Oppure, magari, sarebbe accaduto qualcosa di diverso e...
Magari tornerò più Nemo di prima.
Quando uscì dalla vasca, Gianni vide che i vestiti che si era
tolto erano stati portati via con solerzia dall’impaziente
Annetta.
Sul tavolo accanto al divano, invece, erano pronti i documenti di
viaggio di cui gli aveva parlato Claudia, oltre ad un bicchiere colmo
d’acqua e ad un’aspirina. Il ragazzo inarcò un
sopracciglio: alla fine, la governante doveva essersi mossa a
compassione e aveva provveduto a fargli trovare un rimedio per
attenuare quelle fitte lancinanti.
Allora, si recò nella stanza che conteneva gli specchi, gli
armadi e tutti i suoi capi d’abbigliamento e si vestì in
fretta, indossando jeans, camicia e felpa puliti, caldi e stirati a
dovere. Poi, si avvicinò al ripiano in cristallo e
sollevò il plico di fogli, dandogli una rapida scorsa,
sfogliandolo pigramente e lasciandolo cadere e spargersi sul vetro,
come se non gli interessasse minimamente. Quindi, prese il bicchiere,
buttando giù farmaco e acqua, evitando di sentirne il nauseante
sapore effervescente. Successivamente, con noncuranza, si gettò
sul letto, senza nemmeno pensare di asciugarsi prima i capelli e alcune
ciocche bionde gli ricaddero sulla fronte, mentre altre gli inumidirono
il cuscino.
Era ora di richiudere e far finta di dimenticare nell’angolo
più buio della sua mente tutti i pesanti e angosciosi fardelli
che si portava dietro, sperando di non doverli tirar fuori nuovamente
tanto presto.
Tornare indietro non era possibile, perciò avrebbe potuto solo andare avanti, ma il problema era capire come fare.
In quel momento avrebbe gradito volentieri una carezza consolatoria, come quelle di sua madre e suo nonno quando era piccolo.
Oh, come gli sarebbe piaciuto tornare a farsi bambino!
Niente più problemi, niente più responsabilità,
niente di niente. Tuttavia, questo non era più possibile,
giacché ormai era grande e avrebbe dovuto ricevere le carezze da
una donna, non una qualsiasi, bensì la donna della sua vita,
quella con la quale gli sarebbe piaciuto addormentarsi ogni sera e
risvegliarsi ogni mattina, alla quale avrebbe raccontato tutto, che lo
avrebbe ascoltato davvero. Quella che avrebbe posseduto un sorriso tale
da illuminargli la giornata. La madre dei suoi figli, che,
all’occorrenza, avrebbe rassicurato anche un po’ lui stesso.
La donna che avrebbe pronunciato il suo nome come nessun’altra aveva mai fatto.
Proprio in quel momento, Gianni sentì la testa farsi più
leggera, segno che l’effetto del medicinale cominciava a
manifestarsi, assieme al senso di spossatezza: improvvisamente, il suo
corpo si appesantì, nello stesso istante in cui sopraggiunse una
grande debolezza che, però, lo fece stare ancor peggio.
I suoi sensi erano quasi completamente intorpiditi.
Giancarlo.
Chissà se mai una fanciulla avrebbe avuto il coraggio di
chiamarlo con il suo nome vero e completo, di accarezzarlo, di baciarlo
solo per il proprio piacere di farlo, un piacere puro e semplice,
dettato da un sentimento autentico.
Una ragazza che non avrebbe avuto timore di amarlo davvero, che non si
sarebbe lasciata infatuare dalle apparenze, che non lo avrebbe
considerato solo un giovane ricco e bello che sapesse farci con le
ragazze, ma che, invece, lo avrebbe amato con i suoi pregi e con i suoi
tanti difetti, semplicemente per quello che era.
E, solo in quel preciso istante, avrebbe ritrovato la sua identità.
La sua dignità.
Allora, l’ultima patina di lucidità svanì come fumo
portato via dal vento, annullato da uno spiffero freddo e Gianni
pregò di cadere in un sonno muto e statico, cieco e sordo.
Non voleva sognare perché non ci riusciva più come avrebbe voluto.
Non ne sono più capace.
Eppure, gli sarebbe tanto piaciuto ricominciare.
Magari anche riprendersi il suo nome.
E, così, smettere di essere Nemo.
***
Il
marchio “Beyblade” e i suoi personaggi appartengono a Takao
Aoki e a BB Project. Gli eventi narrati e gli OCs sono solo frutto di
fantasia. La correzione iniziale è stata curata da Aly.
[Nuova Versione]
- Per la revisione, si ringrazia Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione;
- Aggiunto banner, la grafica del titolo è una mia opera (sperimentale).
***
[Note]
1. credo che tutti abbiate capito il gioco di parole dell’anagramma nome-nemo. Nemo, in latino significa nessuno;
2. i nomi di Annetta e Claudia sono mutuati appunto da Assassin’s Creed.
Be’, della prima ho preso anche la sua mansione di governante, ma
per il resto sono personalità diverse. Lo stesso discorso vale
per Claudia Auditore da Firenze.
3. so perfettamente che il beyblade di Tornatore è Amphil(yon)
e che il bit-power è l’Anfisbena. Ho usato una metonimia,
perché volevo sottolineare il legame nonno-nipote-bit. Mi scuso
con chiunque possa considerare questa mia interpretazione come una
mancanza di precisione.
***
Avendo
variato lo stile, mi è sembrato giusto riscrivere l’intero
racconto (prologo compreso) per uniformarlo ai più recenti,
così da creare una
sorta di continuità con le altre storie correlate a questa.
Grazie a chi legge o rilegge.
Halley S.C.
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