La Casa di Bitume

di Arlic Do Rei
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- Andrea!

La voce di quella donna risuonava nelle stanze della magione come il ruggito della bestia a caccia. Un mostro con troppe zanne in bocca. Io ero al sicuro, nascosto nel mio angolo della soffita, sotto la polvere, tra i ricordi scartati. Frugavo tra la roba, una matassa di "cose" impossibile da sciogliere, un gigantesco gomitolo da cui ero affascinato, anzi incantato quanto un sadico gatto: spostavo le "cose" da una parte all'altra con noncuranza, scaraventavo scatoloni senza preoccuparmi del fracasso, e di quella mia sconsideratezza nervosa andavo quasi orgoglioso. Riportavo alla luce vecchie foto di clown isterici, attestati di corsi di recitazione, accordi di chitarra minuziosamente riportati su fogli di carta insieme a poesie di giovanetti da strapazzo, che componevano per noia o per togliersi il callo. E io sprofondavo con tutta la testa dentro all'oblio di quel mondo sotterrato, messo da parte, in un angolo di una soffitta polverosa che nessuno di loro degnava di uno sguardo. Immaginavo che il mio naso fosse quello di un cane da caccia, un instancabile segugio dal naso umidiccio e la lingua penzolante alla ricerca di qualche tartufo nella sottobosco.

Mi fermai con lo sguardo inbetito nel vuoto.

Merda. Sono i maiali a trovare e mangiare i tartufi, non i cani! I primi lo trovano, scavano nella terra con il naso e poi se lo pappano, ed è totalmente inutile che il contadino fustighi la bestiaccia perché suoi molteplici strati di grasso sono l'armatura migliore contro le frustate. I secondi sono diversi, sono meno efficenti ma una volta rinvenuto il tesoro lo cedono educatamente al padrone. Il dubbio sorgeva spontaneo: ero un maiale o un cane?
La risposta mi parve lampante: molto probabilmente ero un tartufo.

- Oooooh. Andrea!

Mentre mi enigmavo sulla metafora culinaria della mia vita rabbrividì udendo la voce di Wallaby. Lui era il tipico maiale: ti trovava e ti divorava, non si faceva tanti scrupoli né per quanto riguardava l' età né per quanto riguardava il sesso. L'umorismo nero di quella donna nell'assumere un maggiordomo con dei seri problemi mentali mi innervosiva parecchio; ma non avrei fatto niente - come sempre - non avrei reagito. Le avrei prese come al solito senza dire una parola, e in fondo mi andava bene: per qualche secondo non sarei passato inosservato.

La porticina della soffita sussultò e poco dopo si spalancò: grondante di sudore e paonazzo in volto Marco ansimava come una bestia, le punte dei capelli gli colavano sugli occhi nascondendoli. Non erano qualcosa da guardare i suoi occhi quando si incazzava; alcuni di quelli che "venivano da fuori" c'erano rimasti secchi. Straordinariamente invece di spezzarmi il braccio Marco mi afferrò con violenza e mi scaraventò oltre l'uscio e io rotolai per un paio di metri. Dalle mani mi sfuggirono tutte quelle belle foto e i ricordi che erano stati seppelliti, era un vero dispiacere ma il pensiero che avevo ancora moltissimo tempo per cercare "quella cosa là" mi allietava; uno spropositato quantitativo di tempo, di anni.

Marco mi afferrò con una mano strappando il panciotto di vellutto e mi sollevò a mezz'aria. Sbattei la capoccia contro una trave del soffito e allora mi misi a guaire come un cucciolo, ma per noia. Avrei potuto giurare di vedere del vapore uscire dalle narici di mio fratello.

- Quando ti si chiama devi muovere il culo! - ringhiò - O sono guai. Inteso?

- Non ne ho voglia ora.

Era la mia risposta per tutto.

Marco mi lasciò cadere e io atterrai con un gran tonfo. Sbuffai sonoramente perché questa volta il dolore lo avevo sentito sul serio; la mia soglia era piuttosto alta grazie a tutti i pestaggi da parte della mia famiglia. Ero cosiddetto il pungiball della situazione. Ed ero parecchio bravo a incassare tutti quei colpi. Poi privato di altro tempo per potermi fare i complimenti vennì trascinato di tutta forza giù per le scale, mentre ad ogni gradino le mie ossa sottopelle rischiavano di spezzarsi e di sbocciare deliziosamente fuori dalla pelle. Come i bucaneve. Non che me ne importasse molto in fondo. Mi piaceva la mia vita: dormivo tutto il giorno e mi muovevo solo quando era necessario, per il resto tutto uno sciame di servitori mi stavo attorno per riverirmi, ma io odiavo vestirmi, lavarmi, mangiare e bere. Erano cose tanto superflue che avevo deciso di eliminarne il bisogno. Il mio scheletro si trascinava sostenuto dalle correnti d'aria, dal soffio di una brezza lieve, trascinavo i piedi come pesi morti, come se fossi un cadavere, solo perché andava fatto, perché la vita andava vissuta fino in fondo. E non facendo mai nulla di buono per me stesso, nessuno mi avrebbe giudicato male se non avessi mai teso la mano alle persone meno fortunate e in difficoltà. Questo era il piacere più grande che traevo dalla mia condotta: potevo passarmi una mano tra i capelli mentre un figlio affamato succhiava dal seno della madre polvere, fino a farle sanguinare i capezzoli, potevo sbadigliare mentre il cadavere in putrefazione di un vecchio non veniva seppellito con doveroso riguardo ma gettato in una fossa, mordicchiarmi nervosamente il dito mentre i grandi signori dalla torre d'avorio sentenziavano cosa fosse lecito e cosa non, e grattarmi la schiena quando un fischio preannunciava l'arrivo del missile che avrebbe raso al suolo tutto il villaggio.
E cos'altro potevo desiderare?
Non mi servivano regali effimeri nel giorno del mio diciasettesimo compleanno.
Sarebbero stati archiviati negli scatoloni in soffitta.
Sarebbero diventati pelle morta sotto il tappetino del bagno.




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