In realtà questa ff
l’avevo finita e fatta betare da un po’ ma poi mi
era scivolata nel dimenticatoio^^ Bon, ecco il saldo di un piccolo
debito (poiché ogni promessa lo è) verso quanti
(Mela e Kara XD) si lamentavano del fatto che in
Non come vorresti avevo fatto zerbinare
un po’ il Kata... ebbene questa è la storia vista
dai suoi occhi...
Chi non ha letto Non
come vorresti potrebbe non capire qualche
passaggio...
Try
walkin’ in his
shoes
I would tell you about
the things
They
put me through
The pain I've been subjected to
Walkin' in my shoes - Depeche mode
Munemasa
Katagiri quasi non aveva mangiato quella sera e si era congedato molto
presto dai colleghi e dall’allegra brigata dei ragazzi della
Nazionale, accampando la scusa di un forte mal di testa. Si
ritirò nella sua stanza e si distese sul letto, incapace di
dormire. Chiuse gli occhi e ripensò a Parigi. Voleva Yasu
lì con lui, voleva le sue mani sul proprio corpo, voleva
stringerla a sé e sentire il calore e il profumo della sua
pelle.
Pensarla
con Wakashimazu lo faceva impazzire di gelosia, non riusciva a non
temere che lui tornasse sui propri passi e si rimettesse con lei. Lo
sapeva, che, nel cuore della ragazza, Ken aveva un posto speciale. Non
si illudeva di poter prendere quel posto… e non voleva.
Come
le aveva detto una volta, ne voleva uno tutto suo.
Ma
ora aveva paura, paura che non ne avrebbe più avuto la
possibilità. Come poteva Yasu scegliere lui? Ken era
giovane, bello e la conosceva come nessun altro. E sapeva come...
prenderla. Mentre lui, da quando erano arrivati in Giappone, quasi non
l’aveva più sfiorata, si erano scambiati giusto un
paio di baci clandestini e basta.
“Avrei
dovuto abbracciarti di più… torna da me Yasu, ti
prego” mormorò, ricacciando indietro le lacrime.
Il
trillo del telefono lo fece sussultare. Quando vide il nome sullo
schermo, il suo cuore accelerò e le dita incespicarono nella
fretta di rispondere.
“Mune”
Si
accorse subito che stava piangendo e ai ricompose:
“Cos’è successo, Yasu, stai
bene?” chiese, cercando di dominare le emozioni.
“Io
sì ma… Ken ha… avuto un
incidente” Lo disse come se non credesse alle sue stesse
parole. Poi gli spiegò brevemente l’accaduto.
“Dimmi
dove sei, vengo da te…”
“No
–“ L’uomo ebbe un brivido di fronte a
quella risposta poi, però, Yasu gli disse che
c’era Genzo da recuperare all’aeroporto.
“Cerca
di stare calma” si raccomandò allora, controllando
a fatica la voce. “Io vado a prendere tuo fratello e poi ti
raggiungiamo in ospedale. Tu va’ da Ken” soggiunse
infine, mentre una fitta gli trapassava il petto.
Genzo
aspettava stufo fuori dall’aeroporto. Appoggiato a una
colonna, scorreva stancamente i nomi della rubrica del suo telefono,
alla ricerca delle candidate giuste cui mandare un laconico:
“Arrivato in Giappone. Mi manchi”.
“Che
palle” sospirò. “Avrei potuto chiedere
semplicemente l’indirizzo e andare in taxi, a
quest’ora ero già arrivato…”
Di
lì a poco, proprio un taxi gli si fermò davanti e
ne scese una figura che gli fece cenno. Genzo si caricò
tutti i bagagli addosso e si avvicinò al veicolo.
Sbuffò, rendendosi conto che si trattava di Munemasa
Katagiri e che era da solo. Non aveva nessuna voglia di approfondire
quello che era successo fra sua sorella e il dirigente durante il
soggiorno a Parigi, e ancora meno di fare finta di niente e passare il
tragitto verso il J-Village a parlare di banalità. Odiava
parlare di niente, preferiva di gran lunga tacere.
E
poi, dov’era sua sorella? Un brivido lo scosse, uno di quei
maledetti presentimenti da gemello che avevano la brutta abitudine di
essere maledettamente attendibili. Dunque dimenticò le buone
abitudini e, saltando a piè pari i convenevoli, chiese a
Munemasa dove fosse Yasu.
“Andiamo
subito da lei” rispose il dirigente, senza nemmeno voltarsi.
E comunque i suoi occhi erano al solito coperti dagli occhiali scuri.
“Dov’è?
Come mai non è con lei?” chiese Genzo, cercando di
non tradire la crescente preoccupazione che l’agitava.
Il
taxi era ormai partito e i due sedevano accanto. Katagiri fece un
respiro profondo, poi gli mise una mano sulla spalla. “Questa
sera Yasu aveva un appuntamento con Wakashimazu-”
“CHE
COSA?” gridò Genzo. “E tu
l’hai lasciata andare?” Era passato al tu senza
accorgersene.
“E
c’è stato un incidente
d’auto…”
“Un
INCIDENTE? E me lo dice così?” Chiese allarmato,
recuperando, però, quantomeno, la forma di cortesia.
“Stai
calmo, lei sta bene…”
“Per
vostra fortuna… se le succedeva qualcosa, lei e Wakashimazu
ne avreste subito le conseguenze, garantito!” Ma la rabbia
stava sbollendo e Genzo iniziò a riflettere.
“Qualcuno si è fatto male?”
“Wakashimazu
è stato portato in ospedale e Yasu è andata con
lui”.
L’SGGK
voleva dire qualcosa, ma gli mancarono le parole. Sapeva quanto, a
dispetto di tutti i casini, Ken e Yasu fossero legati. Ma sapeva anche
troppo bene il male che erano capaci di farsi l’ un
l’altra. Sperava solo che Yasu fosse capace di far fronte a
tutte quelle emozioni.
Per
la prima volta da quando la sorella gli aveva parlato di lei e Katagiri,
Genzo pregò che la loro relazione fosse abbastanza
importante da darle l’equilibrio di cui aveva bisogno. E,
ovviamente, sperava che Wakashimazu stesse bene.
Neppure
Katagiri aveva niente da dire, durante quella strana corsa in taxi. Da
dirigente della nazionale era ansioso di sapere quanto gravi fossero le
condizioni del portiere. Desiderava che stesse bene, ma non solo per
lui e per il bene della squadra, ma anche per Yasu che, per prima e da
sola, avrebbe dovuto fare i conti con la diagnosi, qualunque essa fosse.
Voleva
correre da lei e stringerla fra le braccia. Ma, forse, era troppo
tardi. Da quando erano arrivati in Giappone, aveva lasciato che le sue
remore prendessero il sopravvento su quello che provava per nei suoi
confronti, trattenendosi dal dimostrare a lei e al mondo quanto
l’amasse e che quello che era successo a Parigi non era stata
una parentesi, ormai lontana nello spazio e nel tempo, ma
l’inizio di qualcosa che sperava durasse e diventasse
importante, anzi, che già lo era. Abituato com’era
a trattenere le sue emozioni, non aveva considerato che per una ragazza
così giovane la fisicità non è una
cosa da cui è facile prescindere, che ne aveva davvero
bisogno, che quel suo trattenersi l’aveva fatta sentire sola,
soprattutto nel ritrovarsi catapultata in mezzo ai suoi ricordi
più dolorosi. Se a Parigi dimenticare era stato facile, in
Giappone, invece, nei luoghi e in mezzo alla gente che erano
appartenuti alla sua storia con Ken, sicuramente non era semplice. E
ritrovarsi con Ken in persona, ancora peggio. E in mezzo a tanti
dolori, lui, che aveva promesso di aiutarla, l’aveva lasciata
sola.
Eppure,
quando arrivarono all’ospedale, si sentì ancora
bloccato. Vide Genzo entrare senza porre tempo in mezzo e anche i
genitori di Wakashimazu che venivano ammessi nel reparto, mentre a lui
non rimase che sedersi nella saletta d’aspetto. Solo dopo un
po’ si accorse che, accoccolato in un angolo, dormiva Takeshi
Sawada. Ma non ebbe la forza e la voglia di svegliarlo, voleva restare
ancora solo coi suoi pensieri. Si riscosse solo dopo un po’,
quando Wakabayashi lo chiamò e gli dette le chiavi della
spider, chiedendogli di andare a recuperarla.
Ne
fu lieto: agire, fare qualcosa, da sempre lo aiutava a chiarirsi le
idee. Organizzare era il suo lavoro e lo sapeva fare bene.
Andò a recuperare la spider e la riportò al
J-Village, quindi, di lì a poco, tornò con
un’auto messa a disposizione dalla Federazione per
accompagnare i gemelli Wakabayashi a Nankatsu: Genzo aveva chiesto e
ottenuto il permesso di portare la sorella lì qualche
giorno, per riposarsi.
Come
previsto, mettendosi in azione, Munemasa aveva anche capito cosa
avrebbe fatto: sarebbe partito al più presto, forse
l’indomani stesso, e avrebbe raggiunto la sua ragazza a Villa
Wakabayashi e lì avrebbero avuto il tempo di parlare
e… fare tutto quello che andava fatto. Compreso un discorso
a quattr’occhi con Genzo. Forte di queste decisioni, chiese
di poter vedere Yasu e l’infermiera lo fece entrare.
Quando
arrivò nella stanza, la trovò in compagnia di
Genzo, intenta a raccogliere le proprie cose in una busta. Era pallida
e provata, ma aveva uno sguardo risoluto.
Munemasa
informò i fratelli circa la macchina.
“La
ringrazio signor Katagiri” disse Genzo, formale, accennando
un inchino. “Potevamo prendere un taxi, non vorremmo creare
alcun disturbo…”.
“Nessun
disturbo… Genzo” gli rispose, dandogli una pacca
sulla spalla. “E poi dovreste ringraziare la Federazione, che
vi ha messo a disposizione la macchina!” lo
informò, mentre lo sguardo correva verso Yasu. Le si
avvicinò per prenderle la busta dalle mani. Vedere
quel visetto sempre allegro segnato dalle lacrime e dalla stanchezza lo
vinse e, ignorando il rossore che gli saliva alle guance, la
abbracciò. Si stupì della forza con cui lei lo
strinse a sua volta.
“Vedrai
che si concluderà tutto per il meglio…”
le sussurrò, “adesso devi solo pensare a
riposarti. Fra qualche giorno, se vuoi, ti vengo a trovare a Nankatsu,
ok?”
Il
cuore di Munemasa batteva forte e di sicuro lei lo sentiva. Yasu
sollevò la testa come per dire qualcosa, ma dei passi nel
corridoio la distrassero. Si liberò dall’abbraccio
e fronteggiò Takeshi Sawada.
“Ya-chan”
la chiamò, poi si morse le labbra e si corresse, mentre
l’espressione seria cancellava quell’abitudine,
quel nomignolo vecchio di anni. “Ha chiesto di te,
Yasuko” disse atono.
Yasu
guardò per una frazione di secondo suo fratello, Munemasa e
Takeshi. Poi si proiettò verso la porta e il corridoio, con
uno slancio di cui, provata com’era, nessuno
l’avrebbe creduta in grado.
Genzo
volse rabbiosamente lo sguardo verso la finestra, accigliato. Aveva la
faccia di chi avrebbe volentieri spaccato qualcosa. Sawada
serrò i pugni, gli occhi fissi sul pavimento, stringendoli
nell’evidente e inutile tentativo di non piangere. Munemasa
sentiva il petto dolergli e un sapore amaro invadergli la bocca. Ma
stavolta non la lasciava andare. Con tre lunghi passi fu nel corridoio,
lungo il quale si affrettò, cauto, per non farsi sentire da
Yasu. Fece appena in tempo a vederla scomparire nella stanza di Ken. Si
fermò. Non doveva lasciarla scappare, certo, ma era stato
lui stesso a chiederle di chiarire con Wakashimazu. Doveva mordere il
freno. Decise che le avrebbe concesso qualche minuto.
Di
lì a poco lo raggiunsero Genzo e Takeshi, ma si fermarono a
loro volta, quasi fossero giunti alla stessa conclusione.
Il
tempo passava lentissimo.
Un’infermiera
arrivò di corsa, richiamata dal pigolare di una macchina. Ma
il rumore si interruppe quasi subito, lei dette un’occhiata
all’interno e, facendo spallucce, tornò da dove
era venuta.
I
minuti passarono ancora, lenti come anni, finché Sawada non
si risolse ad avvicinarsi al vetro. Si era mosso con passo deciso, le
braccia lungo i fianchi e le mani ancora strette a pugno. Sembrava
determinato a entrare, ma a circa un metro dalla vetrata si
fermò, spalancò gli occhi e scosse la testa,
quindi arretrò. Munemasa si era avvicinato a sua volta e la
morsa che gli stringeva il cuore dette un altro giro di ruota.
Ken
era seduto ben eretto, pallido ma sereno. Stringeva la mano di Yasu e
parlottavano fitto fitto, ridendo e scherzando come due scolaretti.
Yasu era seduta sul letto e dava le spalle agli osservatori, ma gli
occhi di Ken erano trapunti in quelli di lei. Solo per un attimo il
ragazzo guardò nella loro direzione, con espressione
sorpresa, poi tornò a parlottare e a ridere ancora
più apertamente.
Katagiri
si allontanò, seguito a breve distanza da Sawada. Si sedette
su una sedia nel corridoio, allungando le gambe e lasciando ciondolare
la testa all’indietro. Doveva aver fiducia nella sua ragazza.
Il fatto che fossero sereni non era per forza un butto segno, giusto?
Perso
nei suoi pensieri, notò appena l’infermiera prima
e il dottore poi che entrarono e uscirono dalla stanza del portiere.
Non si era nemmeno accorto che, assieme al dottore era uscita anche
Yasu. Si riscosse solo quando lei gli sfiorò la spalla con
una mano. Quando alzò la testa, per un attimo, tutti i
pensieri divennero niente: era solo irrazionalmente felice di vederla
sorridere, di notare che persino le guance avevano ripreso colore e le
occhiaie sembravano meno evidenti. E pazienza se il merito andava a Ken.
“Non
indovinerai mai cosa mi hanno proposto” disse fingendosi
scocciata. In realtà gli occhi le brillavano per
l’emozione.
Il
giovane dottore si schiarì la voce.
“Uh
sì che sbadata!” ridacchiò Yasu.
“Munemasa, questo è il dottor Shibata Kirou, ha
seguito il caso di Ken… ed eravamo compagni di
università, Kirou, questo è il signor Munemasa
Katagiri, uno dei selezionatori della Nazionale”.
Munemasa
accennò un inchino e strinse la mano che il dottore gli
porgeva. Chiese delucidazioni sullo stato di salute del portiere e il
medico spiegò che aveva riportato una ferita che aveva
provocato una forte perdita di sangue e si era dovuti ricorrere a una
trasfusione, ma che ora le condizioni erano perfettamente stabili e
c’era bisogno solo di riposo e di qualche
medicazione…
“…ed
è qui che entra in campo la signorina Wakabayashi”
continuò Kirou. “credo che il signor Wakashimazu
starebbe molto più tranquillo nell’infermeria del
J-Villagge che non qui e… credo che Yasuko sarebbe
perfettamente in grado di seguire le medicazioni… ovviamente
supervisionata dal medico ufficiale…”
Il
dirigente ristette qualche momento. Guardò Yasu e lesse nei
suoi occhi un po’ di incertezza, ma anche tanta voglia di
fare.
“Io…”
mormorò, “non credo ci siano problemi, in fondo
non è la prima volta che la signorina si occupa, seppur in
maniera ufficiosa, della salute dei nostri giocatori”.
“E
chissà che non le torni la voglia di fare il
dottore” chiosò Kirou.
Quando
Wakashimazu fu dimesso, era ormai quasi mattina. Un’ambulanza
lo accompagnò al J-Village. Sawada andò con lui,
mentre i gemelli Wakabayashi e il signor Katagiri seguirono il mezzo
con l’auto messa a disposizione della federazione.
I
due uomini a bordo dell’auto erano molto pensierosi e
guardavano Yasu, beatamente addormentata. Nessuno dei due era molto
felice della piega che avevano preso gli eventi, ma vedere la ragazza
così serena lasciava loro sperare che, forse,
c’era del buono nell’idea del dottor Shibata.
Arrivati
al J-Village, Ken fu sistemato nell’infermeria, dove avrebbe
riposato per alcune ore. Dopo una breve discussione, si decise che
Sawada sarebbe rimasto con lui, nel caso avesse avuto bisogno di
qualcosa.
“Devi
riposare anche tu” raccomandò Ken a Yasu, facendo
eco alle proteste di Genzo e Katagiri. “Verrai a trovarmi
quando ti svegli, tanto non scappo” le sorrise, guardandola
negli occhi e carezzandole le dita.
Yasu
annuì e liberò la mano, esitò un
attimo poi si chinò per baciarlo, rapida, sulla fronte.
“Andiamo?” disse poi, togliendo tutti gli astanti
dall’impasse in cui quel piccolo bacio li aveva gettati. La
ragazza ignorò gli sguardi infuocati di Genzo e Takeshi e
cercò quello triste di Munemasa, per tranquillizzarlo con un
sorriso.
Tempo
prima, quando la Nazionale usava un’altra struttura che aveva
solo camere doppie, i due gemelli ne avevano spesso condivisa una:
sebbene adesso ognuno avesse la propria stanza, Genzo chiese alla
sorella se voleva dormire con lui.
“Ti
ringrazio, Gen, ma ho la mia camera. Anche tu devi
riposarti… scusa per il trambusto e…”
Il fratello le mise una mano sulla bocca e le passò
l’altra attorno alla vita.
“Come
farei io senza i tuoi casini?” le disse dolcemente.
“Ti
annoieresti un sacco” rispose lei, sorniona.
La
stanza di Yasu era ora al piano superiore, con quelle dello staff.
Vicino dunque, anche a quella di Munemasa.
“Non
dobbiamo avvertire gli allenatori?” sussurrò
stancamente Yasu, trascinandosi lungo gli ultimi metri di corridoio.
“Li
ho aggiornati via sms” la rassicurò lui.
“Domani, con calma, faremo una riunione e racconteremo tutto.
Adesso andiamo a letto”.
Arrivarono
alla stanza della ragazza e l’uomo la accompagnò
fin dentro.
“Sono
esausta, ma prima di andare a letto mi serve una doccia”
dichiarò lei, sparendo nel bagno.
Munemasa
esitò, poi, risoluto, si sedette sul letto, si tolse gli
occhiali per massaggiarsi gli occhi e aspettò.
Yasu
uscì dopo pochi minuti, un telo da bagno annodato poco sopra
il seno. Sussultò nel vederlo seduto sul suo letto.
Lui
rimase qualche minuto a osservare le spalle e le gambe, le uniche parti
scoperte, ne immaginò la pelle: morbida, fresca,
profumata…
Appoggiò
gli occhiali sul comodino e le si avvicinò. Tremando appena,
allungò la mano per sciogliere il nodo che tratteneva il
telo. Poi si bloccò.
“Se
non te la senti, se sei stanca o non ti senti
bene…” balbettò, fissandola negli occhi.
“Tranquillo”,
rispose lei in un soffio. “Starò
benissimo”.
Il
nodo si sciolse con un tocco e l’asciugamano
scivolò a terra, lasciando la ragazza completamente nuda. Le
mani dell’uomo rimasero un attimo a mezz’aria, poi
andarono ad accarezzare i seni piccoli e sodi, quindi si
avvicinò e la strinse, baciandole piano il collo e le spalle
e assaporando lentamente la pelle profumata e appena umida.
Convulsamente
si tolse la giacca, la cravatta e la camicia, anelando a sentire quella
pelle fresca sulla propria, mentre, dai capelli bagnati di lei,
stillavano gocciole minuscole che gli percorrevano il petto e la
schiena, facendolo rabbrividire.
La
condusse verso il letto, e fu lei a slacciargli i pantaloni che, poi,
lui si sfilò rapidamente. Le mani di Munemasa scivolarono
fino a carezzarla nell’intimità, facendola
fremere. La trasse a sé, godendo del contatto dei due corpi
nudi. I boxer diventarono quasi subito un noioso ostacolo e finirono
presto vicino ai pantaloni.
La
sospinse piano per farla sdraiare, quindi si portò sopra di
lei e la fece sua, con tutta la dolcezza possibile, baciandola e
accarezzandola dappertutto, in modo quasi frenetico, come ad
assicurarsi che fosse vera e sua, lasciandosi alle spalle tutti i dubbi
e le paure che lo avevano tormentato durante quella lunga notte.
Una
notte che, si rese conto un attimo prima di liberarsi dentro di lei,
scorgendo un raggio di sole filtrare dalla finestra, era appena finita.
La
tenne a lungo fra le braccia, finché Yasu, infine, non si
addormentò. Le sistemò addosso la coperta, quindi
si rivestì e sgattaiolò in camera sua dove si
godette finalmente, anche lui, un lungo sonno sereno e ristoratore.
“No,
adesso TU” gli intimò Minato Gamo, chiudendo la
porta dell’ufficio di Katagiri dietro di sé,
“mi spieghi TUTTO. Dall’INIZIO”.
Erano
appena usciti da una riunione di fine ritiro decisamente sopra le righe
e piena di importanti novità.
Punto
primo, all’ordine del giorno, Ken Wakashimazu aveva
recuperato appieno, giocando persino alcuni minuti della classica
partitella di fine ritiro.
Yasu
aveva fatto un rapporto dettagliato ed esaustivo di tutta la
convalescenza, spiegando tutto quello che aveva fatto e come Ken aveva
reagito alle cure. Kira aveva avuto parole di profondo elogio per la
ragazza, che Mikami aveva approvato con un largo sorriso soddisfatto e
Gamo con una specie di mugugno che, però, valeva mille
applausi.
Naturalmente
la guarigione descritta durante il meeting era solo una parte del
percorso doloroso ma, diciamo così, salvifico che Yasu
e Ken avevano percorso insieme, ma il resto era sconosciuto ai suoi
colleghi. Oddio, quanto a Mikami e Kira non ci avrebbe messo la mano
sul fuoco: entrambi avevano modi diversi, ma comunque sottili ed
efficaci per tener d’occhio i propri pupilli. Gamo, di
contro, non aveva la più pallida idea di tutta la storia. E
infatti era lì per avere spiegazioni.
Ma
c’erano cose che Munemasa Katagiri non gli avrebbe
raccontato. Gli avrebbe detto dell’incontro con Yasu a Londra
e dei giorni trascorsi a Parigi (magari entrando un po’ in
dettagli che, lo sapeva, il suo vecchio amico aveva particolarmente a
cuore) e di come fosse arrivato alla plateale conclusione che aveva
resa nota a tutti durante la famosa riunione.
Tuttavia,
non gli avrebbe detto con quanto dolore aveva guardato Yasu che,
concluse le faccende a cui lavoravano assieme, lasciava
l’ufficio canticchiando, si spogliava degli abiti formali,
metteva una vecchia tuta, legava i capelli e raggiungeva Ken in
infermeria. Non gli avrebbe confessato di aver spiato i regali che lei
portava a Ken (dolcetti, riviste e altro) e di aver persino cercato di
origliare alla porta i loro discorsi sussurrati. Neppure Takeshi
Sawada, che, infondo, era solo un ragazzino si era spinto a tanto.
Anche se, più di una volta, si erano trovati a vagare nei
pressi dell’infermeria: se non fosse stato tanto doloroso per
entrambi, sarebbe stata una bella scenetta comica.
Proprio
nel bel mezzo di uno di quegli incontri fortuiti, silenziosi e
imbarazzanti, il rumore di una porta che si apriva e chiudeva e di
passi nel corridoio li aveva fatti sussultare. Yasu era comparsa, con
un sorriso ironico stampato in faccia, che presto si era sciolto in uno
più affabile. “Abbiamo finito con la medicazione e
gli esercizi… perché non venite anche
voi?”
I
due si scambiarono uno sguardo insondabile, poi annuirono.
Da
allora i giorni erano trascorsi così: Yasu lasciava
l’ufficio, Munemasa finiva di sistemare, si faceva una doccia
e indossava qualcosa di casual, quindi prendeva un caffè e
si avviava verso l’infermeria, dove trascorreva allegramente
il tempo che li separava dalla cena chiacchierando con Yasu, Ken e
Takeshi.
Qualche
volta si univa a loro anche Genzo. Erano una ben strana compagnia, ma
anche la prova che, quando un amore finisce, può comunque
restare del buono.
Yasu,
verrebbe da dire, era tornata quella di un tempo, ma non sarebbe del
tutto vero. Certo, non era più la fanciulla un po’
malinconica che aveva incontrato a Londra, ma nemmeno la ragazzina
arrogante e maschiaccio di qualche anno prima, eppure, allo stesso
tempo, era entrambe le cose. Era come se le due nature si fossero fuse,
restituendo una giovane donna brillante ed entusiasta, anche se la sua
esuberanza era adesso tenuta a freno da quella riflessività
tipica di chi ha conosciuto esperienze e dolori forti. Diceva ancora
troppe parolacce, per come la vedeva Munemasa, ma aveva finalmente
ripreso in mano la sua vita e si era decisa a tornare agli studi di
medicina.
Katagiri
aveva accolto con gioia questa notizia, anche se significava che si
sarebbero visti molto meno e ci sarebbero state meno occasioni di
lavorare insieme.
Ken
e il dottor Shibata si scambiarono un eloquente sguardo d’
intesa quando seppero la notizia. A Munemasa non sfuggì
nemmeno lo sguardo orgoglioso che il karate keeper rivolse invece a
Yasu, ma fu lieto di non sentire il pungolo sottile della gelosia
bensì una piacevole sensazione di sollievo, al pensiero che
la sua ragazza avesse tante persone che le volevano bene.
Ivi
compresi i colleghi allenatori, che accolsero l’annuncio di
Yasu con gioia e si congratularono calorosamente con lei.
Dopo
le disquisizioni tecniche, l’aggiornamento sulle condizioni
di Wakashimazu e l’annuncio che Yasu riprendeva gli studi,
sembrava che la riunione fosse giunta al termine e Kira chiese, come di
routine, se qualcuno avesse altro da aggiungere.
“In
effetti io” rispose Katagiri, schiarendosi la voce.
“C’è qualcosa che probabilmente non
sapete ma che dal momento che siamo colleghi ma,
soprattutto…” esitò, “credo,
siamo amici, ritengo opportuno comunicarvi”.
Si
interruppe un attimo, prese fiato e osservò i suoi
ascoltatori. Gli occhi spalancati di Yasu, che probabilmente aveva
capito di cosa intendesse parlare e gli sguardi curiosi dei tre
allenatori. “Io e la signorina Wakabayashi, io e Yasu,
abbiamo una relazione e io credo…”
esitò ancora, emozionato, cercando conferma negli occhi di
lei. La ragazza dal canto suo, era diventata rossa, e, per una volta,
era rimasta senza parole. Ma gli occhi le splendevano di gioia e
orgoglio e allora Munemasa prese coraggio e ricominciò a
parlare. “Credo che sia una cosa seria e, se lei lo
vorrà, un giorno… temo proprio che me la
sposerò”.
Concluse
in fretta, tornando a sedersi e lasciando tutti piacevolmente sorpresi.
Almeno così gli era sembrato.
Invece
ora Gamo sembrava quasi contrariato. Ma Munemasa lo conosceva bene: era
solo che non gli piaceva essere l’ultimo a sapere le cose.
Specie dopo la testa che per anni gli aveva fatto affinché
si trovasse una ragazza. Come facendo eco ai suoi pensieri, il
massiccio ex capitano della Nazionale lo rimproverò.
“Cioè, ti fai la ragazza e non mi dici nulla?
Anzi, me lo tieni nascosto? E me lo dici di fronte a Kozo e Tatsuo?
Credevo fossimo amici!”
“Posso
rimediare?” sospirò Munemasa sorridendo appena, ma
senza farsi vedere, intento com’era, o almeno così
sembrava, a riordinare delle carte.
“Umf”
grugnì Gamo, incrociando le braccia al petto e guardandolo
di sottecchi. “Credo che un pranzo e una lunga descrizione
dettagliata possano bastare”.
“Perfetto”
disse Katagiri, appoggiando di schianto una pila di documenti sulla
scrivania. “Muoio di fame anche io”. Si
sistemò la giacca e precedette l’amico nel
corridoio. Fu dunque colto di sorpresa quando questi gli fece cadere
una delle sue manone fra le scapole, in quella che era, secondo Gamo,
un’amichevole pacca sulla schiena.
“E
così il nostro pettirosso ha trovato il suo nido”
lo canzonò.
“Sì,
Gamo, se non mi uccidi prima” rispose l’altro,
riprendendo fiato.
L’ex
capitano scoppiò in una delle sue risate grasse e potenti,
che rimbombò per tutto il corridoio: se qualcuno si meritava
un’altra possibilità di essere felice, pensava
celando dietro quella risata un velo di commozione, quello era proprio
Munemasa Katagiri.
*****************************
Note:
A proposito del titolo: Walking in my shoes
è una canzone dei Depeche Mode e nel ritornello dice appunto
“Try walkin’ in my shoes” ovvero
“Prova a metterti nei miei panni”.
Grazie: alla betina rel e a
chiunque si sia trascinato fino a qui.
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