Prima classificata al concorso “Windy
Town” indetto da RubyTuesday, che mi ha dato la spinta per
mettere
su carta un'idea vaga che mi portavo dietro da mesi, forse anni.
Adoro il surreale, adoro Le
Città Oscure e, per quanto apprezzi la 'Venezia
Oscura' Alaxis,
mi pare che il nostro stivale dia spunti per arricchire a oltranza il
continente creato da Schuiten e Peeters. Case in point: Trieste.
Trieste che certe sere sembra fatta apposta per un racconto surreale
e non sono certo la prima a pensarci ma... questo è il mio
piccolo
contributo, piccolo piccolo semplice semplice. Alla mia
città
universitaria.
Oh, il racconto nasce per via de Le
Città Oscure e cerca di funzionare come una (piccolissima)
storia de
Le Città Oscure, con l'atmosfera de Le Città
Oscure, ma è in
tutto e per tutto un'original. La pubblico come fanfiction
per
correttezza e perché vorrei immaginarla in quel mondo, ma...
original>surreale, niente di più niente di meno.
Personaggi miei,
luoghi miei, vento mio.
Le vedute dal molo dei venti
“Signor Latàr, la vedo sciupato.”
“È la stagione. Nient'altro che la
stagione. Venga, amico mio, si sieda.” Sergej
Latàr fece leva sul
bastone da passeggio e si scostò dal centro della panchina.
Un'onda
si infranse sulla pietra del molo, poco più in
là; il vento ne
prese gli spruzzi e li riconsegnò al mare.
“Volentieri, ma avrei fretta.” Il
signor Hinwjzst, collega di una vita e ora di pensione, borbottava
tutto attraverso un folto strato di baffi come fosse una scusa poco
sentita. Difficile giudicare quando lo intendesse davvero.
“Dice bene: l'avrebbe, non l'ha. Non
si può avere fretta, con la Firia.” Nel dubbio, il
signor Latàr
aveva imparato a prenderlo giocosamente sul serio. “O pensava
di
batterla in corsa prima che monti? Si sente già una bella
brezza.”
“Quella era l'idea.”
“Mio buon Johann! E restarsene in
casa a farsi martoriare le orecchie senza un minimo di
eccitazione?”
“Se lei chiama eccitazione vedersi
strappare qualunque giacca sia rimasta sventuratamente
sbottonata...”
Si sedette al suo fianco, sistemandosi in grembo il cartoccio con la
poca spesa che l'aveva costretto a uscire. “Resto, ma solo
per
assicurarmi che quel maledetto vento non la porti via.”
Latàr rise. “Arduo. Tutta Tervenni è
ben inchiodata alle sue rive. Penso che ormai l'abbia capito anche la
Firia, testarda com'è.”
“Sarà.” Alzò il mento e
chiuse
gli ultimi bottoni del cappotto. “Ma si riguardi. Le dico, ha
il
volto sciupato.”
“Via, è solo insonnia. Troppo chiasso per
dormire, finché è stagione, ma mi rifaccio
leggendo.”
“Ha mai pensato di trasferirsi? Le
vie orientate latitudinalmente soffrono meno dello spostamento
d'aria, dicono.”
“Alla mia età? E chi vende, chi
compra? Non... guardi, il mare si è fatto scuro.”
“Si fa sera, vecchio mio.”
“Questo al mare non importa.” Il
giorno prima a quell'ora era bianco come le nuvole all'orizzonte e si
confondeva con la bruma.
Hinwjzst alzò le spalle. Vero, il sole
non era ancora tramontato, ma il mare era il mare e nessuno a
Tervenni si stupiva, durante la stagione, di trovarlo grigio un
giorno e il seguente del blu più profondo, come se tutte le
acque
del mondo si dessero turno per mettersi in mostra davanti al
litorale. La Firia dava e la Firia prendeva e il suo umore si
rifletteva sulle onde più di quanto facesse sui concittadini.
“Se voleva cambiare discorso, poteva
avvisare. Lungi da me voler intrudere.”
“Che incredibile schiarita”, disse
Latàr con gli occhi azzurri fissi all'orizzonte.
“Si vede una
torre.”
Hinwjzst sospirò e sostituì gli
occhiali con quelli da lontano che portava nel taschino. “Una
torre, già. Ma non la vetta della settimana
scorsa.”
“C'era una vetta, settimana scorsa?”
“Ebbene. La notai aspettando il bus
presso la vecchia stazione.”
“Curioso.”
“Invero.”
“Dev'essere ben alta, per essere
visibile fin da qui.”
“La vetta?”
“La torre. Non vedo nessuna vetta.”
“Già.”
“Andiamo al primo calar di Firia!”,
urlò Latàr.
“Come?”
“Appena cala!”
“Ne
ha avuto abbastanza?”
“Lei sì!”, rise.
Sottinteso che il vento non sarebbe
calato prima di mezz'ora. Restarono aggrappati alla loro panchina sul
lungomare deserto, mentre i lampioni si accendevano e ondeggiavano
scossi dal vento e la fitta foschia notturna ricopriva l'orizzonte
–
la coperta di Tervenni, la chiamavano. La Firia spazzava la sua
città, le dava aria nuova, erodeva le ampie piazze bianche e
vi
scavava vicoli in cui si gettava urlando. Prendeva i pensieri e li
riempiva di vento. Alle spalle dei due vecchi le case si chiudevano,
austere, a proteggere i loro abitanti rinsecchiti e intirizziti.
Alcune avevano smesso di accorgersi del passaggio della stagione e da
anni restavano curve attorno al loro atrio.
“Non è il rumore del vento”, disse
piano Latàr rivolto al mare. “Sono nato in questo
posto come
tutti, conosco i suoi suoni. La Firia non toglie il sonno. Sono gli
altri rumori, quelli al di sotto – metalli che sfregano,
sabbia,
giunture, assi, valvole. Perdo il riposo per l'immaginazione? Non so
se sento troppo o troppo poco.”
Agli sgoccioli della stagione, il
signor Hinwjzst trovò il suo amico signor Latàr
ai piedi del Molo
dei Venti, appoggiato al suo bastone.
“La ringrazio per essere venuto”,
disse Latàr.
“Non mi ha chiamato.”
“Ugualmente, grazie. Mi accompagni,
la prego, fino alla Lotta dei Venti.”
“Lei e i suoi venti. Finirà per
prendere una polmonite.” Ma si avviò di buon
grado, senza mezze
scuse appostate sotto i baffi.
La Lotta dei Nove Venti – lotta
impari, in verità – era la scultura che
dall'estremità del molo
maggiore di Tervenni dominava il piatto lungomare. Non era chiaro
perché la Firia, carica e salmastra e spumeggiante, non
l'avesse
ancora abbattuta: gli estimatori ipotizzavano che in fondo anche il
vento l'apprezzasse. Tutti gli altri – “che
sciocchezze, un vento
che vuole intendersi d'arte” – che la divertisse
lasciare un
angolino di fama alla concorrenza. Di fatto si limitava a gettarci
sopra i suoi cavalloni, che a dicembre gelavano in ghiaccioli storti,
e a infradiciarla con tanta lena che una volta dei mocciosi in vena
di scalate avevano trovato delle cozze a tre metri d'altezza. Ma a
marzo inoltrato il molo godeva perlopiù della sua pace: ai
due
giungeva solo lo sciabordio delle onde e i radi scoppi di risa di
qualche coppietta vicino a riva.
“Dunque?”
Latàr gli porse una scatoletta
metallica rigida che aveva tenuto stretta al petto per tutta la
mattina. Hinwjzst ne estrasse un binocolo argenteo, pesante e ben
tenuto. Alternò uno sguardo perplesso fra l'attrezzo e
l'amico.
“Terzo promontorio.”
Regolare la messa a fuoco sui suoi
occhi stanchi fu laborioso, ma la macchia bianca fra la roccia e il
mare prese a formare un castello a picco sulla scogliera,
scintillante e carico di merli e torrette. Hinwjzst abbassò
lo
strumento e si stropicciò gli occhi. Latàr
attendeva con il petto
in fuori e le mani incrociate dietro la schiena.
“Ieri non c'era.”
“Ieri c'era foschia”, disse Hinwjzst.
“Domani sarà sparita.”
“Sergej.”
“Non è la prima volta che lo vedo.”
“Certo che non lo è.”
“La
scorsa ero un bambino.”
“Ha smesso di guardare.”
“Non
ho mai smesso di guardare, Johann. Non ho mai smesso di cercarlo e
oggi è tornato per noi. Per me. Devo andare.”
“Cos'è? Chi ci
abita?”
“Non lo so. Ho le mie storie di
bambino.” Tornò ad appoggiarsi al bastone.
“Nei miei giochi, lo
chiamavo Miramare.”
Il signor Hinwjzst scosse la testa.
“Sembra una bella gita. La aspetto stasera per uno spritz, mi
saprà
dire com'è andata.”
“Così sia.”
“Spero di non averla offesa – non
la prenda per scetticismo, sono sinceramente curioso.”
“Si figuri.”
Sergej Latàr si era addentrato nella
periferia nord della città in cerca di un sentiero che
seguisse il
litorale in quota, ma le vie di Tervenni sembravano chiudersi su se
stesse come paglia intrecciata, senza lasciare spiragli che
penetrassero un muro di rocce e cespugli. E vento. Troppo vento. Era
passato il pranzo quando tornò al porto, sconfitto ma non
vinto, e
imboccò la via degli scogli, grato alla bassa marea.
La Firia montò quando fu tornato al
margine estremo di Tervenni, oltre le ultime casupole dove d'estate
si cambiavano i bagnanti. Le raffiche non gli dettero tregua: il
vento gli strappò la borsa, gli prese i polpacci, gli tolse
il
bastone da sotto la mano e lo fece rotolare in acqua.Sergej
Latàr
proseguì carponi.
Credette di avere i polmoni in fiamme,
poi più nulla.
L'aria era calma. Sergej Latàr si
sedette, prese fiato, si rialzò. Il suo castello svettava
elegante
sul mare, specchiandosi nell'acqua grigia alle primo calar del sole.
Spezzò un ramo da un pino marittimo, ne saggiò la
resistenza e
proseguì.
Le finestre erano buie, il giardino
secco e incolto. Miramare – se quello era il suo nome,
perché non
ne aveva trovata traccia sugli archi né lungo le mura
– giaceva in
rovina. Sergej riposava sotto un pergolato, con la schiena appoggiata
a una balaustra traforata da cui saliva l'aria del mare. Di fronte a
lui, il bianco dei marmi del castello si era infiammato dei rossi del
tramonto. Si sentiva cieco di fronte a quello spettacolo, incapace di
comprenderlo e assorbirlo appieno.
Un refolo gli fece voltare il capo alla
sua sinistra, verso il lido di Tervenni carico delle luci della sera,
e quella brezza si trasformò in uno schiaffo, una frangia di
Firia
che tornava a unirsi al vento madre verso la città. Sergej
si portò
una mano alla guancia offesa e guardò al Nord in cerca di
spiegazioni. Sotto il vento, lontano, sentì uno strascicarsi
metallico, sabbia contro pietra, assi tese fino al punto di rottura.
Quando si voltò, Tervenni non esisteva più in
quella baia. Il vento
l'aveva trasportata altrove.
“Johann... il maledetto vento mi ha
lasciato qui.”
Illustrazione di Skull Kid, che mi vizia!
Mi inginocchio sui ceci per aver
parlato di Miramare e non di San Giusto. Miramare è bello e
bianco e
tutto, ma San Giusto è il mio castello.
Ha vegliato sui miei
studi per tre anni e lo ringrazio così... scusa, San Giusto
:(
Note:
- la Firia è la Bora, ci ricorda fiero Capitan
Ovvio. Grazie, Capitan Ovvio!
- il Molo dei Venti è il Molo Audace, che in cima
non dedica ai venti una scultura chiassosa e liberty come
sicuramente farebbe nel Continente Oscuro bensì questa
cosina di buon gusto :3
- lo spritz è il tipico aperitivo
- i colori dei tramonti sulle rive sono effettivamente
imbarazzanti da quanto son belli, sia quelli tutti grigi sia quelli da
pugno nell'occhio fluo
- riguardo ai nomi dei protagonisti, la vera Trieste
è tutta un confine. Tervenni... suppongo che in principio
abbia tirato su gente di varia nazionalità?
- sto ancora a chiedermi cosa sia una struttura
simil-industriale che si vede dal molo solo nei giorni più
limpidi e a giudicare dalla distanza dev'essere enorme. E dall'approdo
di Miramare, durante la mia unica visita (invernale e spoglia, ma dalla
luce incredibile), all'orizzonte ne ho viste di cotte e di crude. Penso
che il racconto nasca un po' da lì.
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