Ci sono delle piccole cose delle persone che spesso sfuggono. Delle
intonazioni, dei respiri, dei battiti. Le persone non se ne accorgono,
le lasciano dietro dì sé inconsapevolmente, dei
piccoli pezzetti di sé da cui si staccano senza curarsene,
poiché non ne conoscono l’esistenza. E questi
flash, queste istantanee permangono nell’aria dopo il loro
passaggio.
Io ne so
qualcosa. Io vivo di queste sensazioni, vivo di quello che le persone
vogliono nascondere di sé, ed è un gran
vantaggio, sapete? Spesso si è talmente abbagliati da quello
che ti sta di fronte, da non renderti conto di quello che il resto ti
sta sussurrando. Io questo faccio: vedo oltre ciò che gli
altri vedono.
O forse dovrei
dire che non
vedo oltre quello che gli altri vedono.
Le mie amiche,
loro sono le migliori. Loro sapevano che l’unico, vero regalo
per il mio compleanno doveva essere quel concerto. Non vengo da una
famiglia ricca, e lavoro solo part time, cercando di far incastrare la
mia vita di studentessa con quella di centralinista e di figlia, quindi
i soldi necessari per il viaggio e per il biglietto
d’ingresso avrei potuto racimolarli tutti solo dopo tre mesi
dalla messa in vendita: troppo, lo sapevo.
Fortuna che
loro, le mie meravigliose amiche, sono arrivate sotto casa mia il
giorno dopo l’apertura della vendita, scampanellando
furiosamente: appena mia madre esterrefatta ebbe aperto la porta,
corsero in camera mia scavalcando Lucky, il mio cane pastore, e mi
sventolarono con forza qualcosa sotto il naso, urlando poi:
“i NOSTRI biglietti!”.
Di quel giorno
ricordo soprattutto il profumo delle mie amiche che mi abbracciavano
mentre singhiozzavo, e mia madre che tirava su con il naso nel vedermi
così felice. Sa che faccio quello che posso per aiutarla in
casa: siamo solo noi tre, io, lei e il mio fratellino Thomas di 10
anni, che in quel momento era accorso in camera mia sentendomi
strillare, preoccupato che mi stesse succedendo qualcosa di brutto..
posso ancora a sentire il suo piccolo dito sulla mia guancia bagnata da
lacrime di felicità, mentre si sporgeva sul mio letto dopo
che nostra madre gli aveva spiegato cosa stava accadendo: credo di aver
percepito il suo sorriso, in mezzo alle mie lacrime, potrei giurarlo..
E da quel
giorno al giorno del concerto le ore si sono volatilizzate. I nostri
preparativi, le bandiere, la scelta di come vestirsi,
l’organizzazione per il viaggio, il tutto sembrava scivolare
via nelle ore che ci separavano dalla caduta del tendone.
Da quel giorno
fui perseguitata da un sogno di cui non riuscivo a serbare ricordo: nel
dormiveglia che precedeva il mio risveglio, l’unica cosa che
sentivo distintamente era un profumo vagamente dolce e muschiato, come
l’aria di montagna con l’ultima fioritura della
stagione. Chissà, io non ho mai amato particolarmente la
montagna.
Siamo arrivate
la mattina molto presto: volevamo guadagnarci la prima fila con il
sudore, la fatica, non con i soliti mezzucci. Non volevamo passare
davanti a nessuno della nostra Famiglia e poi si sa, le cose guadagnate
si godono molto di più.
Era la prima
volta che incontravo degli altri Echelon di persona: avevo paura di
essere giudicata, di non conoscere abbastanza bene le parole delle
canzoni, di avere una maglietta con una scritta troppo banale, di non
essere all’altezza.. e invece, la prima persona in fila
davanti a me si girò e mi chiese: “Scusa, hai una
caramella? Sto morendo di fame”, e dopo che
gliel’ebbi data iniziò una conversazione, che si
estese presto ad un folto gruppo di ragazzi e che, tra canzoni e
battute, velocemente ci portò all’apertura dei
cancelli.
Sentivo la
calca delle persone dietro di me: anche se fino a due minuti prima
avevamo parlato dei nostri Mars si sa, chi primo arriva meglio
alloggia, e la prima fila bisogna guadagnarsela. Ero terrorizzata:
appena ci avevano detto di metterci in fila per entrare, la gente
intorno a me si era alzata di scatto recuperando zaini e marsupi e
fiondandosi più avanti possibile, quindi mi ritrovavo
schiacciata senza ben sapere dove fossi. Fortunatamente, Miriam e Emily
trovarono il modo di arrivare vicino a me e mi fecero sentire la loro
presenza prendendomi la mano e stringendola forte. Sorrisi.
Si poteva
distintamente avvertire la frenesia della folla. Era arrivato il
momento.
Non ricordo
nient’altro di quella folle corsa, se non le mani di Miriam e
Emily che mi stringevano fino quasi a farmi male e la sensazione che
qualcuno mi avesse tolto i polmoni per svuotarli fino
all’ultima particella di aria ancora presente, poco prima di
andare a sbattere le coste contro qualcosa di duro, e anche metallico
avrei giurato, giudicando dal suono che aveva prodotto contro le mie
povere ossa. La transenna. Mi svicolai dalle mani delle mie amiche e mi
aggrappai a quella transenna come se ne andasse della mia vita. Sentivo
Emily che rideva mentre Miriam esclamava poco dietro di me: “ Ma guarda, noi che la
portiamo fino a qui e lei che ci molla senza alcun riguardo per
assicurarsi a quella transenna, neanche fosse la gamba di Jared
Leto!!”, rifilandomi poi un affettuoso
scappellotto dietro il collo.
Lei non poteva
capirlo, ma quei lividi che già sentivo dolermi sulle coste
e la percezione del freddo del metallo sotto le mie dita erano la
conquista di un sogno.
Ero troppo
eccitata dall’attesa per godermi i gruppi spalla, anche se le
mie amiche mi hanno poi raccontato che anche le loro esibizioni erano
state spettacolari.
Io attendevo,
attendevo quei suoni che soli sapevano farmi fremere l’anima.
E la mia anima, lei non era pronta a sentire quella batteria che
introduceva Escape, e infatti quei colpi sembrarono delle sferzate
dritte al mio cuore, mentre la voce di Jared iniziava ad insinuarsi nei
miei pensieri, e in un attimo sentii le mie labbra, insieme a quelle di
migliaia di altri Echelon, prorompere in un unico urlo: THIS IS WAR.
E durante
quell’ora, capii davvero cosa significava la comunione
dell’anima: cantammo come se dovessero sentici fino a Marte,
battemmo le mani a tempo con le percussioni di Shan, pestammo i piedi a
terra durante i cori di Vox populi, piangemmo e urlammo durante Alibi,
ci lasciammo trascinare dai passaggi e dagli assoli di Tomo, saltammo
gli uni sui piedi degli altri ridendo, senza preoccuparci se qualcuno
per sbaglio finiva sulle nostre dita, doloranti dalle molte ore di
attesa fuori dai cancelli. Jared ci diceva di saltare e toccare il
cielo, e non sarebbe stato certo qualche pestata che ci avrebbe
impedito di seguirlo. Se quella sera non siamo arrivati fino al cielo,
beh, posso assicuravi che ci siamo andati molto vicini: era
così irreale, ed al tempo stesso così vitale, la
sensazione di essere riuniti in un posto molto, molto lontano, in una
terra che il tempo non può cambiare.
Invece il
tempo scorreva comunque, ignaro di quanto ci sembrasse crudele
l’avvicinarsi della fine di tutto questo. Una pressione che
si moltiplicava contro di me e il dolore crescente dei miei lividi mi
avvertì dell’imminente conclusione del concerto:
la folla di Echelon impazziti che voleva salire sul palco per Kings and
Queens. Cercai con la mano le mie amiche, ma probabilmente
l’improvvisa eccitazione dei nostri vicini e lo spostamento
delle persone che tentavano di farsi scegliere da Jared le aveva
portate lontano da me.
Iniziò
la sfilza di “you, you, yes, you, yes, yes” che
inaugurava la church finale. Credetti di morire per quanto la gente mi
stava premendo contro la transenna, ma resistetti. Mentre
cercavo di proteggere il mio torace dal metallo e dalla
pressione, sentii Jared passare due volte davanti a me, ma
proprio in quei momenti ero schiava della folla dietro di me, che mi
stava portando di prepotenza nella seconda fila per farsi spazio,
mentre io cercavo di rimanere in piedi. Qualcuno mi afferrò
per la spalla, e mi strinse in un abbraccio da dietro: era certamente
Emily, con i suoi capelli ricci che mi solleticavano le guance.
“Grazie, credevo che mi avrebbero spiaccicata”le
urlai all’orecchio, dandole ancora le spalle. “Ecco, adesso
l’hai mollata quella maledetta transenna!!”
mi urlò lei di rimando, ridendo.
Cantammo Kings
and Queens abbracciate, e il cuore stava per esplodermi nel petto
mentre sentivo quello di Emily pulsare contro la mia schiena: sorrisi,
riconoscendo nei nostri battiti il ritmo che Shannon stava eseguendo
con passione sulla sua Christine. Eravamo davvero i re e le regine
della promessa.
Mi lasciai
portare fuori dalla folla da Emily, ormai incapace di trovare un senso
a qualsiasi percorso che non mi riportasse indietro a pochi minuti
prima, quando la mia vita era esplosa. Sorridevo a tutti in modo
sincero, seppur malinconico, pensando che avevo appena lasciato una
parte della mia anima su quel cemento afoso di inizio estate. Ci
raggiunse poco dopo Miriam, che con la voce roca mi sgridò
per non esserle stata vicino, preferendo attaccarmi alla transenna
invece che preoccuparmi di dove fossero loro due.
“E se ti avessimo
persa? Non hai neanche portato il cellulare, e il mio è
rimasto nella mia borsa da quando ci siamo accampate davanti ai
cancelli!!” strillò, per quanto la
mancanza di voce dopo aver cantato a squarciagola durante tutto il
concerto le consentisse.
Scrollai le
spalle: “me la
sarei cavata anche da sola sai” - risposi un
po’stizzita - non
sono una bambina”.
Intervenne
Emily a fare da paciere:
“Dai Sophie, che se non ti avessi salvata io adesso saresti
un purè di Echelon!”.
A quella
battuta scoppiammo a ridere tutte e tre, immaginando un piatto di
purè con la mia faccia sopra:
“Siete due
deficienti!!!” gemetti tra le risate, rivolta
alle mie amiche, che nel frattempo avevano raccolto le loro cose e mi
prendevano a braccetto per avviarci verso l’uscita.
“Mi fanno male i piedi!
Non riesco più a fare un passo!”
piagnucolai schiantandomi a sedere su un muretto a cui poco prima avevo
involontariamente dato un calcio: ormai i piedi facevano talmente male
che non riuscivo bene a controllare il mio passo.
“Accidenti!!
Non trovo più le chiavi della macchina!! Ma le avevo quando
siamo uscite dal cancello, quando ho controllato il
telefono…cavolo! Che mi siano cadute
lì??”
“Miriam, spero che tu
stia scherzando!” strabuzzai gli occhi mentre
dicevo queste parole.
“Dai, su non
preoccupiamoci prima del tempo, torniamo indietro a cercarle”
rispose Emily, come sempre la più diplomatica tra noi tre.
“Mi prendi in giro?
Questo posto è enorme! Ci sarà almeno mezz'ora a
piedi per tornare a quel cancello, e di buon passo, cosa che
sicuramente io non avrò più per almeno qualche
giorno, ammesso che mi ritorni una sensibilità normale delle
estremità inferiori!!” le dissi in
tono lamentoso.
“Tranquilla, non
c’è bisogno che venga anche tu: rimani pure qui ad
aspettarci, ma fai attenzione”
affermò Emily.
Miriam
iniziò “ma
Emily..”
“Miriam, hai visto
quanto è larga questa strada? Non puoi andare a cercare le
chiavi da sola, ci metteresti una vita. E poi Sophie non può
esserci utile, direi, e non vorrei trascinarmela dietro lamentosa
com’è in questo momento”,
la zittì Emily.
Miriam mi mise
vicino il suo cellulare: “è
quasi scarico, ma credo che possa reggere per qualche minuto, se
succedesse qualcosa …mi raccomando! Aspettaci esattamente
qui!” mi ammonì di nuovo la mia amica.
“Ok, ok, non so dove
pensi che io possa andare conciata in questo modo”
le ricordai, allungando le gambe oltre il muretto dove mi ero seduta,
borbottando tra me e me che ero capacissima di badare a me stessa.
“”AHI!!”
mi svegliò un dolore intenso alla gamba destra, poco sopra
la caviglia, mentre rotolavo sull’asfalto battendo il fianco
sinistro. “Accidenti,
ma non guardi dove metti i piedi??” sibilai in
direzione della persona mugolante che aveva appena fatto un tonfo
davanti a me, massaggiandomi il punto dolente mentre a fatica mi
risvegliavo. “Fantastico,
già avevo male ai piedi, ci mancava un genio che inciampa
sulla mia caviglia!!”
“Che
male!! Ma ti sembra normale addormentarti quasi sdraiata su
un marciapiedi? è inevitabile che prima o poi qualcuno ti
passi sopra!! Accidenti, la mia mano…” disse lui.
C’era
qualcosa di strano in quella voce. Ero ancora nel dormiveglia?
“ No, hai ragione,
scusa, mi sono addormentata, mi sono seduta un attimo perché
non riuscivo più a stare in piedi per via
dell’attesa e di tutto quel saltare..”
ammisi, ancora un po’ intontita. Perché stavo
parlando in inglese? Non lo parlavo più da quasi dieci anni,
da quando papà è morto e noi ci siamo trasferiti
in Italia.
Credo che sia
stato il tocco della sua mano a farmi realizzare quello che stava
succedendo. Una stretta appena sotto il mio braccio per rimettermi in
piedi, una mano lievemente fresca, ma dalle dita forti.
“Stai bene?”
mi chiese, e mi rialzò con tanta forza che per poco non gli
caddi addosso. La mia mano sinistra d’istinto
frenò l’impatto contro il suo petto, e
così riuscii a avvertire il profilo dei muscoli sotto la
maglietta un po’ umida. Non riuscivo a rispondere,
mentre la mia mano rimaneva come incollata al tessuto leggero ma
ampio. Non riuscivo nemmeno a respirare.
“Ehi, ti ho chiesto se
stai bene ragazzina. Che c’è, non mi hai sentito?
Così come non mi hai visto arrivare, eh?”
ironizzò Jared.
Qualcosa in
quel tono irritato e vagamente sarcastico doveva avermi risvegliato dal
torpore: “veramente,
no, non ti ho visto” replicai.
Il silenzio
che ne seguì un po’ mi spaventava:
chissà che cosa stava pensando di me, la solita ragazzina
che si incantava davanti a lui e poi cercava di fare la dura.
Invece lo sentii afferrarmi anche l’altra spalla e portarmi
sotto la luce del lampione più vicino, con una strana
delicatezza.
“Tu sai chi sono,
vero?” mi sussurrò sulla fronte,
mentre allentava la presa dalle mie spalle. Sentivo il suo sguardo
percorrere il mio viso.
“E come non potrei?
Sono cieca, non stupida. Forse non riesco a vedere i tuoi
acclamatissimi occhi di ghiaccio, o i tuoi capelli che mi dicono ti
diverti a tingere e tagliare nelle più svariate pettinature,
ma la tua voce, la tua voce la conosco meglio della mia”
ribattei, cercando di fare la sostenuta ma lasciando in
realtà trasparire tutto il mio amore in quelle parole.
“Non mi vedi”
mi disse Jared d’un fiato, con un tono a metà tra
il dispiaciuto e l’allibito “ecco perché
- aggiunse, a bassa voce - e
sei venuta al concerto. Come? Perché?”.
“Perché voi
tre suonate insieme?” ribattei, prendendolo
evidentemente alla sprovvista, mentre sentivo la sua presa farsi
più debole e le sue mani scendere dalle mie spalle verso i
miei gomiti.
“Perché ci
divertiamo, perché vogliamo creare, perché
vogliamo che gli Echelon si sentano una famiglia, e per molte altre
ragioni” mi rispose dopo un attimo di esitazione.
“Ecco perché
sono venuta al concerto stasera. Le mie amiche, loro mi hanno
accompagnato, loro sapevano cosa significasse per me, cosa significa
per tutti noi. Noi ci divertiamo, creiamo, e siamo una grande
famiglia. Puoi giocare a fare la diva quanto vuoi, Jared, ma
alla fine, quando sali su quel palco, il vero spettacolo è
l’atmosfera che create per noi, la tua voce, la chitarra di
Tomo che ci accarezza e il battito di Christine che ci sferza.. non
dispiacerti per me, non ho bisogno di vedervi in faccia per sapere che
siete – che siamo – bellissimi”,
sorridevo tra me e me mentre dicevo queste parole, pensando
all’uomo che mi stava davanti, la cui voce sapeva lenire le
mie sofferenze e farmi coraggio, la cui vanità probabilmente
si sarebbe sentita mortificata dal fatto che non potevo adularlo come
le altre ragazze che già aveva incontrato in
passato…
“Sai Jared, a volte
penso di essere più fortunata delle altre Echelon, solo per
qualche momento, quando mi rendo conto che io, più di
chiunque altro, posso capire cosa significa il verso Automatic, I
imagine, I believe. Il mio credere in voi è quanto di
più viscerale e cerebrale io abbia mai provato.
Io immagino i tuoi video, immagino di vederti salire sul palco,
immagino Shannon che percuote Christine con forza e maestria, e Tomo
far vibrare le note sulle corde della sua chitarra quanto su quelle del
mio cuore. Io credo in tutto questo perché lo posso
immaginare.
Ho imparato a conoscervi solo tramite la vostra musica e le vostre
parole, non ho mai potuto vedere un vostro video, e per quanto abbiano
provato a descrivermi il vostro aspetto, non so realmente come siete.
Oh, si, mi sono fatta un’idea di voi, ma ovviamente, non
potrò mai davvero saperlo. Ma in fondo non importa: non vi
ho mai visto, ma vi conosco meglio di chiunque altro”.
Appena ebbi
detto questo, Jared fece scivolare ancora più giù
le sue mani, lentamente, fino a incrociarle con le mie.
Chissà che spettacolo strano dovevamo essere, un uomo che
teneva le mani di una ragazzina che a stento gli arrivava sotto il
naso. Era una strana sensazione, l’idea di avere qualcosa che
Jared Leto non poteva capire sulla propria pelle, come se con le mie
parole lo stessi tenendo sospeso su un filo.
All’improvviso
alzò le nostre braccia e sentii sotto le mie dita qualcosa
di morbido: potevo sentire distintamente il mio cuore che si tuffava
verso il basso, non era possibile che stessi toccando i capelli di
Jared Leto! Era risaputo che era la cosa che, in assoluto, gli dava
più fastidio gli si toccasse! Eppure, le mani che fino a
quel momento erano rimaste intrecciate alle mie si erano liberate e mi
stavano guidando lungo i contorni della sua testa. Combattevano contro
il mio istinto, che mi diceva che non era il caso di irritare in quel
modo il frontman della band che da qualche anno a quella parte era
diventata una parte essenziale di me.
“Voglio che tu mi veda
davvero” sussurrò, guidando le mie
mani verso le sue tempie.
E le mie dita
incerte e incredule tracciarono lievi i lineamenti regolari e
simmetrici di quell’uomo, che segretamente nei miei sogni
desideravo avere vicino più degli altri componenti della
band, percorsero la linea della sua mascella aggraziata eppure
mascolina, apprezzando quell’accenno di barba sulle guance
altrimenti lisce.
Non riuscii a
trattenere un enorme sorriso che mi illuminò il viso, mentre
dentro la mia mente queste sensazioni davano vita a un ritratto
dell’uomo che fino a quel momento avevo solo immaginato.
Chiusi gli occhi per permettere alla mia immaginazione di lavorare al
meglio, e percepii le dita di Jared sui lati del mio viso, che
tentavano di imitare i miei gesti di conoscenza tattile.
Mi lasciai
accarezzare da quelle mani che sapevano di dolce, di luce e di acqua
che scorre, gli permisi di percorrere i tratti del mio viso, mentre le
mie facevano altrettanto. Mentre sfioravo delicatamente i suoi occhi,
li sentii chiusi e concentrati a creare di me un’immagine non
viziata da colori o da luci, solo la pura essenza di ciò che
sono. Mi lasciai sfuggire una lacrima di gioia, che rotolò
veloce sulle sue dita bagnandole leggermente, strappando
all’uomo di fronte a me un sorriso che le mie mani non
avrebbero mai potuto dimenticare, mai.
Mi
attirò a sé e mi strinse in un abbraccio. Gli
posai il capo sulla spalla sinistra, il viso rivolto verso il suo
petto, e ora lo sentivo distintamente: un profumo vagamente dolce e
muschiato, come l’aria di montagna con l’ultima
fioritura della stagione.
Sorrisi, e
credo che lui lo abbia percepito; mi strinse a sé un
po’ più forte. Sussultai, e mi sfuggì
un gemito lieve di dolore, “
la transenna”, spiegai a mezza voce.
Si
chinò più in basso, all’altezza delle
mie coste, alzò esitando la mia canottiera solo quel che
bastava a scoprire i lividi che stavano iniziando a prendere forma
sotto la mia pelle. La testa mi girava, ma lui con l’altra
mano ancora mi stringeva la vita, in parte sorreggendomi, mentre un
brivido visibile mi attraversava da capo a piedi. Avrei tanto voluto
vedere l’espressione del suo viso quando lesse, proprio sotto
il mio seno sinistro, poco sotto il cuore, le parole tatuate : Automatic, I imagine, I believe.
Posò un bacio delicato su ognuna di quelle parole e su ogni
ombra rossa che presagiva un futuro livido, tenendomi per la vita con
una mano e cingendomi il bacino con l’altra, probabilmente
temendo che le ginocchia mi cedessero e gli crollassi addosso.
Oh Jared, non
sai quanto avevi ragione.
Quando si
rialzò, la sua mano destra risalì lungo il mio
fianco in direzione del collo, mentre la sua voce mi mormorava in testa
“Into the
night, desperate and broken..”. Jared mi stava
cantando sommessamente Kings and Queens, o forse era solo la mia
immaginazione, non poteva davvero essere che tutto questo stesse
capitando a me.
“In defense of our
dreams..” proseguiva la melodia che ogni parte
di me conosceva, mentre l’indice di Jared scendeva dalla
linea dell’ orecchio destro verso il mio petto.
“..we were the kings
and queens of promise..”, il suo polpastrello
disegnava la traccia della mia collana triad, mentre le mie labbra in
automatico seguivano le sue nelle parole del ritornello finale.
“Ti ho vista, in prima
fila, mentre selezionavo le persone per la church: ti ho indicato due
volte mentre ti passavo davanti, e non capivo come mai non ti muovessi
dal tuo posto” disse “Ora
– e mi baciò l’occhio destro –
so
– e baciò l’occhio sinistro – perché”,
avvicinando le sue labbra alle mie.
E il sapore
ancora salato delle mie lacrime, che le sue labbra avevano raccolto
appena prima, incontrò il mio palato, mentre quel profumo di
dolce e montagna inondava i miei sensi e la pelle bruciava in ogni
centimetro di contatto fisico con la sua.
Fu un attimo,
e mentre scostava appena le labbra dalle mie, sentii che sussurrava “And eyes that see into
infinity”.
È
in quel momento che svenni, penso. Probabilmente il mio piccolo cuore
non poteva reggere tutte quelle emozioni. Mi svegliai dopo qualche ora,
in un posto che non conoscevo, ma sentivo bene le mie mani strette tra
le dita di qualcuno che, ne ero quasi certa, dovevano essere Miriam e
Emily.
“Dove sono? Che mi
è successo?” mormorai, tentando di
aprire gli occhi, anche se sapevo che non avrebbe fatto nessuna
differenza.
“Finalmente ti sei
svegliata, ci hai fatto preoccupare! Sei al pronto soccorso, eri
disidratata, pensano che sia per questo che sei svenuta!”
urlò Miriam, stritolandomi nel suo abbraccio come se volesse
scusarsi di avermi lasciato lì su quel muretto tutta sola.
“Oh!– esalai
– quindi…quindi sono svenuta? Quindi.. era tutto
nella mia testa?” chiesi, con le lacrime agli
occhi.
“Tesoro, cosa era nella
tua testa?” mi domandò Emily,
premurosa ma preoccupata.
“No…no,
niente ragazze, non preoccupatevi, ora sto bene, credete che potremmo
tornare a casa?” dissi, ricacciando indietro le
lacrime. Non potevo piangere per una cosa che non era realmente
successa, no?
“Vado a parlare con il
medico” mi informò Miriam “così
vediamo quanto ci vuole per farti dimettere” e
sentii il rumore inconfondibile delle sue Converse
allontanarsi lungo il pavimenti del corridoio del pronto
soccorso.
“A proposito, meno male che siamo
arrivate noi, altrimenti chissà cosa poteva succederti
– mi rimproverò amorevolmente Emily – infatti quando ti abbiamo vista a
terra da lontano abbiamo iniziato a correre, perchè accanto
a te c’era qualcuno accovacciato che ti stava posando
qualcosa sul petto… e quando abbiamo urlato il tuo nome
correndo, lui si è voltato ed è sparito nel buio
verso l’arena, meno male che siamo arrivate in tempo! Avrebbe
potuto farti del male, sai?”.
“Chi..cosa..cosa ha
lasciato?”, la mia voce sussultava mentre
pronunciavo quelle parole.
“Una
maglietta, tipo quelle che usa Jared durante i concerti,
dev’essere stato qualcuno che è venuto vestito
come lui.. ce ne sono di emulatori in questi concerti, lo sai,
però chissà perché te l’ha
lasciata” finì la frase ridacchiando.
“Me..me la
passi?” la mia voce non voleva saperne di
tornare alla normalità.
Emily tese
verso la mia mano un tessuto morbido, leggero, appena umido. Lo portai
al viso: quel profumo vagamente dolce e muschiato mi confermava che non
l’avevo solo immaginato.
Sorrisi, mentre le mie dita tremavano un pò ricordando il
viso di Jared Leto.
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