Primo
Non
sono molte le persone in grado di credere che possa esistere qualcosa di
sovrannaturale. Quando intendo che non sono in grado è perché guardare un film
su maghi e streghe, ed ogni tanto lanciare qualche incantesimo impugnando un
cucchiaio, è molto differente dal tenere nascosto nella propria scrivania un
antico libro contenente misteriose carte, delle quali nemmeno io ancora conosco
tutto il potenziale.
Quando
finalmente completai l’intera collezione, se si può chiamare così, delle carte
di Clow Reed, ero molto felice, soprattutto alla fine di quell’ultima impresa
contro la carta dell’ombra, quando potei finalmente dire “ti amo” a Li Shaoran;
ovviamente quelle due parole, dette da una me 11enne, mi fanno ancora
sbellicare delle risate. Dirle, però, fu una scelta molto grossa, quasi quanto
quella di decidere di tenere le carte, per evitare futuri problemi.
Essere
in grado di credere a queste carte è certamente molto più facile che credere in
una relazione tra me e Shaoran. Quando hai undici/dodici anni, pensi che tutto
sia per sempre. Anche quando lui partì per Hong Kong a tre mesi dalla fine
della raccolta delle carte, credi che sia solo un piccolo periodo del
per sempre; a tredici ragioni sul fatto che fosse la fine; a quindici pensi che
quel primo amore sia stato meraviglioso e incredibilmente platonico, dato che
oltre il bacio a stampo non si andava; al giorno d’oggi poi riderci su
specchiandoti poco prima di andare a lavoro.
Beh,
si!
Lui
tornò ad Hong Kong, il porto profumato, ho bei ricordi di quel posto, per
continuare gli studi sia di mago che di ordinario studente sotto la severa
mirata della madre ed io, fui straziata dal dolore. Tre mesi belli ed intensi
vennero offuscati dal sapere che aveva una fidanzatina nella città profumata. Ancora
oggi trovo appropriato associare la parola “Merda” alla sua faccia.
Arriviamo
così ai miei primi 15 anni. Fu l’anno nel quale dovetti prendere le mie prime
decisioni di vita importanti, quelle dalle quali non si torna indietro. Avevo
ancora le carte sotto chiave in un doppio fondo della libreria, ovviamente
erano l’ultimo dei miei pensieri dato che mi accingevo a frequentare il primo
giorno di scuola media superiore. I tre anni che ti formano e cambiano per
tutta la vita; eccome se mi hanno cambiato. In primis perché per me furono
quattro, e come secondo fattore, perché mi ritrovavo ad andare in un luogo dove
tutti erano degli sconosciuti.
Tomoyo
non aveva scelto il mio stesso istituto; penso che sia stato a causa del nostro
ultimo litigio. Quando Shaoran partì, lei mi fu molto vicino, troppo vicino,
avevo capito che provava per me qualcosa che andava oltre l’essere amica del
cuore; chiamatemi pure cuore di pietra ma io non provavo i medesimi sentimenti
e dovetti dirglielo. Non fui molto gentile e la ferii profondamente. Bastarono
poche settimane perché si calmassero le acque e tornammo ad essere delle amiche
che vanno a fare commissioni insieme. Mi sbagliavo! Quando mi disse che aveva
scelto un istituto diverso dal mio capì: le cose non erano per niente tornate
alla normalità.
La
mia scuola non era molto grande ma alquanto rinomata. Aveva un club del
baseball tra i migliori del Kanto ed una squadra di basket molto famosa, a me
interessava solo il club di pattinaggio; non lo avevo mai preso in considerazione
come un possibile sport, da praticare in modo agonistico ma, una volta provato scoprii
che metteva in circolo la stessa adrenalina che attraversava il mio corpo durante
le notti passate a caccia di carte.
Tornare
indietro con la mente mi riporta proprio al primo giorno, quando fummo tutti in
fila nella palestra, in attesa del solito discorso del preside e del nuovo
rappresentante degli studenti. Il primo parlò per quasi venti minuti e le gambe
cominciarono a manifestare il loro assoluto disprezzo per quella grassa figura;
fortunatamente il rappresentante degli studenti fu più magnanimo e si limito ad
un “salve ragazzi” e “spero che tutti darete il meglio, nei club come nello
studio, a tutti buon lavoro”.
Quando
finalmente ci lasciarono liberi di uscire dalla palestra, come un gregge di
pecore senza meta, fu allora che apparve lei. Incredibilmente più alta di me,
livida in volto e pugni serrati. Uno di quei pugni affondò nella mia guancia
mentre il gemello fece scrocchiare il mio naso come un ramoscello, il tutto
accompagnato dal grido “Assassina!”
Non
tutti ebbero la prontezza di riflessi del professor Kawashima, il
rappresentante degli insegnati che fortunatamente passava li accanto, di
afferrare quella montagna di capelli scuri e schiacciarla contro il suolo, per
evitare che potesse infierire sul mio naso. Ci fu letteralmente una pozzanghera
di sangue, quello che sgorgava dal mio naso, non fece così male come ci si può
aspettare ma rimasi molto disorientata dalla situazione. Quando capì di essere
finita da terra, notai la ragazza che si dimenava come un cavallo e il
professore che la teneva saldamente premuta contro il terreno sabbioso. Attorno
alla scenetta fuori programma erano già accorsi numerosi studenti, i cui volti
non mostravano sorpresa, bensì rassegnazione; altri professori accorsero e ce
ne vollero tre per riuscire ad allontanare quella belva. Uno dei curiosi mi
aiutò a rialzarmi e mi porse dei fazzoletti per tamponare il naso, solo quando
cercai di tapparmi le narici capì che era rotto.
Senza
pensarci su, il vice preside mi caricò sulla sua auto diretto al pronto
soccorso più vicino, durante il viaggio cercavo di non sporcare i sedili della
macchina mentre ripensavo alla parola in allegato ai pungi: “Assassina!”
Sicuramente,
anzi, senza dubbio doveva avermi scambiato per qualcun altro. Al nostro arrivo
al pronto soccorso più vicino, barcollai fino alla sala d’aspetto dove il
sangue finalmente smise di colarmi dal naso.
“Mi
spiace che sia successo! Sei del primo anno vero? Non credo che ora avrai una
buona opinione della scuola.” Dal tono del professore capii che non era la
prima volta, sicura di una lunga attesa in quella sala affrontai il discorso:
“Non si preoccupi, piuttosto, dal suo tono rassegnato, mi sembra di capire che
non sono la prima vittima di questi avvenimenti.”
“La
nostra scuola, a differenza di altre, non ha fama di risse o studenti
indisciplinati, il problema resta isolato a questa ragazza: qualche tempo fa ha
perso il padre durante una vacanza in Italia, sembra che sia caduto da una
scogliera, lei invece, afferma di aver visto una donna colpirlo e spingerlo di
sotto.” Il professore aveva il tic di grattarsi ripetutamente il polso.
“Quindi
si sfoga con gli ultimi arrivati nella scuola, non mi sembra molto giusto”
“Si
sfoga con chiunque gli capiti a tiro, ma la maggior parte delle volte finisce
in infermeria.”
“Mi
ha gridato contro che sono un’assassina!”
Il
professore rimase in silenzio per alcuni istanti. Il suo sguardo faceva la
spola tra le mani e il pavimento, poi finalmente mi guardò: “Sei mai stata in
Italia?”
“No!”
Ero sicurissima di non aver mai messo piede neanche in Europa.
“Allora
non so proprio spiegarmi il perché ti abbia chiamato in quel modo, spero solo
che la cosa non si ripeta.”
“Mi
scusi professore, ma lei parla proprio con rassegnazione, se questa studentessa
è una noia per alunni e insegnati basterebbe allontanarla.”
Il
professore grattò con più intensità. “La compagnia della sua famiglia sostiene
il nostro istituto. Non è consigliabile buttare fuori la figlia di chi ci paga
le bollette. Dobbiamo fare l’interesse dell’istruzione e perdere questo
sostenitore ci costerebbe molti club e laboratori.”
“Non
sono molto d’accordo.”
“Ha perso da poco il padre e quindi il
suo comportamento così ostile e violento, secondo lo psicologo della scuola, è
più che normale, le serve per scaricare lo stress causato dalla perdita
improvvisa.”
Io annuì poco convinta e stetti in
silenzio finché non mi fecero entrare e, con un colpo secco e tanto dolore, mi
raddrizzarono il naso rendendolo, secondo molti, tanto carino.
Il giorno dopo mi presentai al regolare
inizio delle lezioni accompagnata da mio padre, e questo per una quindicenne è
molto imbarazzante. Fortunatamente filò dritto nell’ufficio del vice preside
mentre io, mi rintanai in classe dove riconobbi alcune facce che mi avevano
aiutato a rialzarmi il giorno prima. Erano delle ragazze molto socievoli e si
interessarono a ciò che mi era successo; era impossibile non farlo dato che
avevo il naso fasciato ed ero obbligata a respirare – rumorosamente – con la
bocca. La professoressa Kisame fu la prima insegnante che conoscemmo, nonché la
nostra coordinatrice, anche lei s’interessò al mio povero naso, così come altri
professori durante l’intervallo del pranzo. Ammetto che la situazione
cominciava a diventare pesante.
Notai però, che la mia assalitrice era
seguita da un professore, e non fu un caso sporadico ma per tutti gli
intervalli successivi venne sorvegliata da molto vicino; questo non bastò a
tenerla lontano e più volte cerco di aggredirmi. Cominciò ad accumularsi molto
stress ma dopo due settimane potei finalmente uscire di casa senza la
fasciatura e ricominciare a respirare dal naso; dopo tre, i professori smisero
di seguirla e sembrò che smettesse anche di importunarmi finché, a un mese
esatto dalla prima aggressione la incontrai nel bagno del secondo piano.
Fu più veloce di me, quando capì che
eravamo sole scattò e chiuse la porta impedendomi di lasciare i servizi. Il suo
viso da bianco passo per tutte le tonalità di rosso fino ad arrivare al
paonazzo.
Rika Suzuki, così si chiamava, si
scagliò contro di me con tutta la rabbia che aveva in corpo e mi getto verso i
lavandini, un dolore atroce mi percorse tutto il corpo ma non caddi; riuscì ad
evitare un altro spintone e mi allontanai cercando di arrivare alla porta, ma
un terzo tentativo andò a segno e caddi a terra. Il naso ricominciò a farmi
male.
Decisi che si era andati troppo oltre ed
evocai il mio scettro riuscendo a rialzarmi e ribaltare la situazione, le feci
lo sgambetto con un colpo secco, gettandola a terra e senza titubare, puntai l’estremità
al suo collo evitando che si potesse rialzare.
“E ora dimmi che diavolo vuoi da me!”
Fui molto teatrale ma ciò che ottenni fu solo una lunga bestemmia che non credo
sia il caso di riportare. Quando ripetei la domanda ebbi una risposta un po’
più educata: “Hai ucciso mio padre, bastarda!”
“Errore! Ho sentito la storia e non sono
mai stata in Italia.”
“Oh, ed invece sei stata proprio tu, non
mi sbaglio, come potrei? Eri lì e l’hai spinto di sotto durante i fuochi
d’artificio, ridevi come una iena mentre cadeva. Impugnavi questo stesso…bastone,
hai riso anche mentre il suo sangue sporcava le rocce e quando mia madre si
disperò.”
“Io non ho ucciso tuo padre!” Potevo gridarlo
all’infinito ma non voleva sentire ragioni, anzi, cominciò a piangere e questo
mi destabilizzò. Indietreggiai di alcuni passi e proprio in quel momento entrò
un’altra alunna: rimase senza parole per quella scena e corse a chiamare un
insegnante.
Durante il resto delle lezioni non
riuscii a togliermi dalla mente quelle parole. Il sangue sulle rocce e una
probabile me che uccideva un uomo, e ci rideva su, pareva la sinossi di
un incubo.
Il giorno successivo, finiti gli allenamenti
della squadra di pattinaggio, sul tavolino del soggiorno c’erano ad attendermi
una lettera gialla con il logo del Ministero della Giustizia giapponese ed una
del Ministero della Giustizia italiano. Erano già state aperte da mio padre ed
in quel momento le stava leggendo anche mio fratello. Subito potei percepire il
freddo di quella situazione, ma era destinata a peggiorare.
“Sakura” Cominciò mio padre con la voce
rotta, ma non so se dalla sorpresa o dalla vergogna. “Sono due informazioni di
garanzia”.
P.S.Curiosirà
L’informazione
di garanzia è un atto attraverso il quale una persona viene avvertita di
essere sottoposta a indagini preliminari, ossia di
quella fase processuale in cui si raccolgono elementi utili alla formulazione
di una imputazione. L'informazione indica
inoltre le norme che si intendono violate e la data e il luogo di tale
violazione.
(tratto da
Wikipedia)