Giungla Nord, Stoccolma e Assoluzioni della 23esima ora.

di past_zonk
(/viewuser.php?uid=74253)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


 



Crashing ourselves.


 
Un giorno Matthew mi si avvicinò, e mi disse se mi andava di fare una cretinata.
Era Novembre ed eravamo nel pieno dell’Origin of Symmetry tour, che c’aveva portato la vera fama, soprattutto in Europa, in paesi come la Francia e l’Italia, dove le fan assalivano Matt, quasi voraci.
Quel giorno era freddo e le mie mani sembravano ghiacciai perenni; indossavo un cappellino di lana rosso, per il gelo e perché non ero ancora abituato a star senza tutti i miei capelli biondi, da poco tagliati.
Quando Matt, con le occhiaie e stanco, mi chiese se m’andava di seguirlo, io risposi di sì a prescindere.
Forse perché ero davvero annoiato, forse perché ero stanco di quel tour incessante che pareva allontanarci sempre più.
Uscimmo nel bianco di una Stoccolma gelida come i suoi occhi e cominciammo a camminare, cappucci alzati e mani in tasca. Le mie scarpe strusciavano contro il cemento, lamentandosi. I lacci ballonzolavano ad ogni mio passo; guardavo i piedi di Matt mettersi uno davanti l’altro maldestramente, accennai un sorriso.
Quando arrivammo davanti ad un lago ghiacciato Matt mi porse la sua mano, intimandomi a sfilare la mia dalla tasca del jeans.
Lo guardai, serio.
Era magro; magro come uno che pensa troppo e non si concede tempo sufficiente per nient’altro. Era stanco come chi ogni sera è lì per la sua gente, per dire questo è il mio corpo dato per voi, dolce come chi soffre e non vuol parlare, né pronunciarsi.
Matt mi strinse la mano con la sua più fredda, e si voltò a camminare.
Quando il suo piede si poggiò sulla superficie bianca non capii.
“I’m so sick, Dom”
Mi trascinò con sé sul ghiaccio, camminando come se non pesasse nulla, senza scivolare, tenendomi la mano come si fa con chi si vuole condurre, piano, verso sé.
E lì, mentre camminava sul ghiaccio, non tremò.
Non tentennò.
Quando la mia lingua fu fra i suoi denti non si scostò, né si sorprese di sentire i miei, di denti, pizzicargli le labbra.
Quando Matt, poi, mi riportò in hotel, sempre per mano, con le labbra viola, mi lasciai trascinare e pensai a quante poche parole servissero per sentirsi sinceri.
Quanto le parole ammazzassero la verità ogni volta, ogni sera, ogni notte.
Stoccolma sibilava qualcosa alle nostre spalle, prometteva false soluzioni, mi imbottiva la testa come ansiolitica visione.
Matt mi baciò alla finestra bluastra, mi disse “Così van le cose, Dom. Un giorno credo d’amarti e mezz’ora dopo mi convinco che è solamente enfasi, fra noi”.

 

Dissi a Matt Bellamy di non pensare.
Lui non pensò più.
Mai.


















Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=843519