Claude Frollo
La
notte era fredda e ormai si intravedevano le primi luci
dell’alba. Erano di un rosato tenue, confuse con il color oro
arancio del Sole
che ormai si avviava a sorgere su uno sfondo che andava
dall’azzurro celeste al
nero profondo della notte. Ormai mancava poco al momento in cui tutti
avrebbero
saputo che la zingara era fuggita, non si trovava più nella
cattedrale, era
sparita. Come per magia. Quella stessa magia di cui era stata accusata
per aver
ferito il capitano Febo di Chateaupers. E quella stessa magia, molto
più
gentile e forte che aveva portato l’Arcidiacono Claude Frollo
lontano dal suo
Re e Signore, Dio.
Tornava dal Buco dei Topi, dove aveva lasciato la bella gitana
in compagnia della reclusa Gudule, dopo che la prima aveva preferito la
forca a
lui. Un pezzo di legno che non le avrebbe dato alcuna gioia. Anzi,
avrebbe
soltanto riso quando quell’esile quanto bello corpo di
fanciulla avrebbe
danzato per l’ultima volta per lei e per tutta quella
plebaglia troppo
ignorante per capire che quella dolce fanciulla era una vittima
innocente, non
dell’uomo, ma della vita e della fatalità con la
corda al collo sospesa tra
terra e cielo, tra vita e morte, tra Inferno e Paradiso.
A quei pensieri che gli si agitavano fortemente nel petto, tanto
da far scuotere ogni angolo più recondito del suo cuore e
del suo spirito,
Claude Frollo si fermò nel vicolo in cui camminava da un
po’ senza meta alcuna
e si sedette sui gradini di una casa. Si guardò indietro e
si accorse di non
aver fatto poi molta strada dalla Place de Grève, dove
immaginava che a ogni
secondo di più si delineassero i contorni scuri della forca,
del patibolo che
con tanto ardore la giovane aveva preferito a lui. In un improvviso
moto di
rabbia, l’Arcidiacono pensò di andare dal Capitano
delle guardie, l’amato Febo
che da lui era stato ferito senza che mai lo sapesse, e rivelargli dove
si
trovava la zingara. Si alzò come per far diventare
realtà quel pensiero, ma
qualcosa lo fermò: l’amore incondizionato e
infinito, ne era certo, che sentiva
nei confronti della Esmeralda. Quella ragazzina che aveva guardato con
disprezzo, insultandolo, chiamandolo “Assassino”,
ferendolo più di quanto un
uomo potesse essere ferito dalla donna che ama. Non aveva mosso un
muscolo
quando le aveva confessato ripetutamente l’amore che provava
per lei; i suoi
occhi erano rimasti aridi quando l’aveva visto piangere per
lei; lo aveva
guardato con indifferenza, con odio, per aver ferito Febo. Eppure,
anche se lei
ormai sapeva che il suo amato capitano era vivo, aveva continuato a
chiamarlo
assassino. Ogni spiegazione che aveva cercato di fornirle, non era
valsa a
niente. Lei lo odiava e così avrebbe fatto per tutta la
vita, breve o lunga che
fosse.
Ripensò al suo viso, ai suoi capelli ricci, neri, ai suoi
occhi
che coprivano le sfumature dal miele all’ambrato al nocciola;
a quel corpo
sinuoso che lei muoveva con grazia e sensualità ogni volta
che danzava. Si era
dannato nell’istante in cui aveva visto il corpo di lei.
Sentì la propria anima
bruciare, il corpo andare a fuoco e tremare di scosse violenti.
Bruciava, si
consumava ogni giorno, ogni ora, ogni minto, ogni secondo, ogni istante
di più
per quella fanciulla, e nonostante lei lo odiasse, lui continuava ad
amarla,
anzi.. sembrava che più lei lo odiasse, più il
suo amore per lei aumentasse.
L’avrebbe amata per tutta la vita, si sarebbe dannato per
l’eternità, sarebbe bruciato tra le fiamme
dell’Inferno per lei. Anche
all’istante. Come poteva affermare di amarla, se poi la
consegnava alle
guardie? Se la faceva condannare dopo averla salvata solo
perché lei lo aveva
rifiutato. Si era tolto da quel vicolo e stava camminando avvolto nella
scura
veste da prete diretto al Palazzo di Giustizia, quando quel pensiero
gli balenò
in mente. Si strinse nel mantello per il freddo, si voltò e
si diresse verso la
Place de Grève a passi lunghi e veloci. Doveva sbrigarsi se
voleva che la
ragazzina attraversasse la piazza senza essere vista, cosa che iniziava
a
diventare molto improbabile con il Sole che si innalzava sempre
più e gli
abitanti di Parigi che si svegliavano. Claude tornò al Buco
dei Topi e chiamò
la reclusa.
- Gudule… Gudule!- ripeté più volte a
bassa voce.
-Chi siete?- domandò la donna dalla perpetua ombra della sua
cella.
-Sono colui che vi ha portato la zingara!- lei si avvicinò.
-Voi mi avete portato non una zingara, ma mia figlia! Siate
benedetto, signore.- l’Arcidiacono, che benedetto non si
sentiva proprio e che
aveva ben altri progetti che far conversazione con la reclusa, non
perse tempo,
non sapendo inoltre come rispondere a una frase del genere, visiti i
pochi
rapporti umani che aveva avuto durante la sua vita, se non con uomini
colti e
sapienti.
-Ho bisogno che mi riconsegnate la fanciulla. Devo portarla
dagli zingari prima che sia troppo tardi e che venga vista attraversare
la
piazza e impiccata.-
-Non privatemi della mia bambina, signore, non ora che l’ho
ritrovata dopo quindici lunghi anni..- fece pregandolo.
-È l’unico modo per evitare che venga trovata.-
-Io non me ne vado senza mia madre. E poi.. Non vi voglio. Io
appartengo solo a Febo. – disse in tono duro Esmeralda
guardandolo a testa
alta. Lui cercò di ignorare la fitta di dolore che aveva
colpito il suo cuore e
che lo aveva fatto sanguinare. Non avrebbe mai potuto averla, mai
avrebbe
potuto amarla come neanche il capitano poteva pensare si potesse amare
una
persona, la propria amata.
-Peccato che l’unica persona disposta ad aiutarvi ora sia IO
e
non il vostro bel capitano.- ribatté con altrettanta
durezza, come per
sottolineare il concetto.
-Dove ci volete portare?- chiese la donna che non aveva compreso
il motivo della durezza nella melodiosa voce della figlia.
-Nel posto in cui vostra figlia è cresciuta. È
l’unico posto
dove sarete al sicuro. Dopo l’assedio di Notre Dame della
notte appena
trascorsa, non posso garantirvi sicurezza e protezione
all’interno delle mura
della cattedrale, giacché il diritto di asilo è
stato infranto dai ministri del
Re. - parlò così e guardò le due
donne, e poi volse lo sguardo verso il cielo.
–Sarà bene che prendiate in fretta una decisione.
Se restare qui e temere, o
seguirmi e ritrovare la Libertà.- disse tenendo lo sguardo
fisso su Esmeralda,
mentre pronunciava queste ultime parole. Le due donne si guardarono e
annuirono.
-Vi seguiremo- affermò alla fine la donna più
anziana.
Claude annuì. E aiutò a passare le due donne
attraverso il buco
neanche un’oretta prima, la madre aveva aperto per far
entrare la figlia.
Quando le due donne tornarono alla luce del sole, sorrisero. Poi
Esmeralda senza che dicesse niente, iniziò a camminare
davanti ai due,
guidandoli.
L’arcidiacono la seguì. D’altronde, lui
non sapeva dove si
trovasse con precisione. La seguì, senza mai distogliere lo
sguardo da quella
figura che possedeva una grazia e una bellezza incredibile e
indicibile, anche
se portava ancora i segni della prigionia, nonostante il suo soggiorno
a Notre
Dame. Allora gli era sembrata un fantasma. Ora aveva ripreso un
po’ di forze
grazie al cibo e alle attenzioni che lui tramite il gobbo e Quasimodo
stesso si
erano premurati di darle.
Camminava sicura, con passo veloce e aggraziato sul selciato
freddo di Parigi, quasi stesse danzando, e non stesse fuggendo dalle
guardie
che molto probabilmente non avendola trovata nella cattedrale, quei
pagani
profanatori della Casa del Signore!, si sarebbero subito messi alla sua
ricerca.
Lei questo probabilmente lo ignorava, o forse non se ne dava
pensiero per la sua ingenuità. Sta di fatto che quella
zingara, correndo,
danzando stava guidando se stessa, la madre appena ritrovata, a dire
della
donna, e l’anima dell’Arcidiacono verso la
salvezza.
Sì, anche l’anima di lui, perché,
nonostante sapesse che non
avrebbe mai potuto possederla o amarla, saperla viva avrebbe fatto
nutrire in
lui la speranza che un giorno, dimentica sia di ciò che lui
aveva fatto al
capitano, sia dell’amore provato per quel bel giovane che
l’aveva aggirata,
illusa solo per il proprio piacere, avrebbe potuto amarlo. Allora tutti
i
tormenti che fino ad allora avevano scosso il cuore
dell’Arcidiacono, sarebbero
svaniti per sempre, lasciando posto alla felicità e
all’amore per lei.
Pensava a questo quando la bella gitana si fermò. Lui si
fermò a
sua volta a debita distanza.
-Cosa succede?- chiese egli guardandola.
-Non potete seguirci. Siamo alle porte di Parigi, qui inizia la Corte.
Non è consigliato agli stranieri entrare.- disse rimarcando
il termine
stranieri con una nota di disprezzo nei suoi confronti.
–Sempre che voi teniate
alla vostra pelle.- aggiunse poi. Lui annuì.
-Sarà meglio per voi non farvi più vedere a
Parigi. Almeno il
tempo necessario perché tutta questa vicenda. Madonna, conto
sul vostro
buonsenso.- disse poi rivolto alla madre. La donna annuì.
Lui rivolse alla
fanciulla un ultimo sguardo e quello che ottenne in cambio fu uno
sguardo colmo
d’ira nei suoi confronti. Le labbra serrate e il capo chino
mentre gli occhi
erano fissi nei suoi e lo guardavano con odio. L’uomo di Dio
dovette fare una
fatica immensa per ricambiare lo sguardo. Non tanto per il timore di
ferirla,
visto che lei non sembrava assolutamente curarsi dei suoi sentimenti.
Piuttosto
per il fatto che quegli sguardi colmi d’astio, quel tono duro
e colmo di
disprezzo che la giovane usava sempre quando gli rivolgeva la parola,
lo
feriva, vedendosi allontanare sempre più la già
flebile speranza che la gitana
potesse amarlo.
Distolse lo sguardo dopo pochi istanti e si rivolse alla madre
di Esmeralda.
-Che il cielo vi assista, Madonna. Pregherò per le vostre
anime.- le disse con cortesia.
-Che il cielo assista anche voi, monsignore. Dio le renderà
grazia per averci salvate.- rispose lei sinceramente riconoscente.
L’uomo chinò
il capo e tornò sui suoi passi, senza mai voltarsi indietro. Quando arrivò
nei pressi della piazza
principale, la aggirò ripercorrendo la strada che quella
stessa notte, poche
ore prima, aveva percorso tenendo per mano la zingara. Quella dolce
piccola e
morbida mano che aveva accettato senza protestare la sua, che
l’aveva stretta
per paura di essere lasciata indietro ed essere portata a morire.
Quella stessa
strada che lui aveva percorso trascinandola senza opposizione da parte
di lei
fino al patibolo. Lei che l’aveva seguito intravedendo una
speranza di vita, o
forse semplicemente, troppo terrorizzata dalla morte ventura, troppo
spaventata
dal futuro, per poter avere da ridire in quel momento.
Quando arrivò alla porta laterale che dava
l’accesso a una rampa
di scale che dava sulla galleria, entrò. Percorse di fretta
le scale e si gettò
sul letto non appena arrivò nella sua stanza.
***
Esmeralda
rimase ferma in mezzo al viottolo a guardare l’uomo
che si allontanava finché non lo vide più. Il suo
sguardo era ancora carico
d’odio e disprezzo; infatti, anche se l’Arcidiacono
aveva distolto lo sguardo,
troppo debole, preso dalla sua passione per lei, ebbene, lei non si
poteva dire
avesse fatto altrettanto. Non aveva distolto lo sguardo da lui un solo
istante.
-Tesoro, stai bene?- chiese la voce di sua madre. lei distolse lo
sguardo da quel punto fisso e la guardò. E tutti i suoi
problemi e le
preoccupazioni, soprattutto legate alla salute del suo amato Febo,
sparirono.
Ora era con sua madre!! Con la sua vera madre! L’aveva
ritrovata finalmente.
-Sì, madre, sto bene! Benissimo ora che siete con me!-
rispose
abbracciandola mentre sentiva finalmente il suo cuore sciogliersi dalle
catene
della paura della morte, che tanto l’aveva accompagnata in
quegli ultimi mesi.
–Dai, vieni, ti porto alla corte! Sarai sicuramente la
benvenuta!- disse
prendendola per mano e mettendosi a correre leggiadra come una farfalla
tra le
vie anguste che si diramavano al di fuori della città. La
donna sembrò aver
ritrovato le forze di un tempo, perché la seguì
senza arrancare. La gioia di
aver ritrovato la sua piccola le aveva una ragione per vivere, e
avrebbe fatto
di tutto per tenersi stretta la sua bambina. Nessuno
l’avrebbe più separata
dalla sua Agnès.
Dal canto suo, la giovine, felice, continuava a correre.
L’unico
pensiero che affollava la sua mente era quello di essere tornata a
casa. Di
essere nuovamente libera. Era viva e libera. E presto avrebbe rivisto
il suo
amato Febo. Appena fatto passare il tempo sufficiente per poter tornare
a
Parigi e non essere catturata, sarebbe tornata in città e si
sarebbe gettata
tra le braccia del suo amato Febo, del suo Sole. Forse la
città si sarebbe
dimenticata di lei, ma lui no! La amava. Come avrebbe potuto
dimenticarsi della
sua amata. L’avrebbe amata e l’avrebbe sposata. Al
diavolo la iettatura di quel
prete assassino. O che quantomeno aveva cercato di ucciderlo. Non
avrebbe mai
avuto lei, né tantomeno il suo amore. Lei era solo del suo
Febo. E di nessun
altro.
Camminò
a lungo tra i vicoli felice, talmente tanto da non
rendersi conto che le strade erano deserte, e che la solita musica non
c’era e
che le risate, provenienti dalla taverna centrale, il cuore pulsante
della
Corte, dove si tenevano le riunioni e venivano prese le decisioni
importanti,
anche quelle, quella sera mancavano. Se ne accorse quando ormai erano
all’inizio del vicolo. Era troppo silenzioso. Si
fermò di botto e si guardò
intorno. Era tutto deserto.
Presa
dal panico strinse forte la mano della madre. che ricambiò
ancora più spaventata della figlia. Fino a quel momento lei
si era sentita al
sicuro in quel posto. Era il luogo in cui Agnes viveva e
l’aveva seguita senza
alcun timore. Se però adesso anche sua figlia era
terrorizzata, lei lo era
cento volte di più.
-Perché non sento le loro voci?- domandò la
giovane gitana più a
se stessa che alla madre, con voce tremante e flebile. Lentamente si
diresse
camminando verso la taverna. Passò davanti alle finestre che
davano sulla
strada, ma si rifiutò di guardare per paura di quello che
avrebbe potuto
vedere, o meglio, non vedere. Mille pensieri, uno peggiore
dell’altro, si
affollarono nella sua mente. Continuò a stringere la mano
della madre, mentre
si fermava di fronte alla porta.
La mano esitò un attimo sospesa tra il suo corpo, fragile
come
un cristallo, e l’anello di ferro della spessa porta di legno
borchiata dello
stesso materiale del grande anello. Poi si decise: stare fuori dalla
porta non
aveva senso, e prima o poi avrebbe dovuto sapere cos’era
successo agli altri,
alla sua famiglia. Afferrò con forza l’anello e
tirò. La pesante porta si aprì
e un fascio debole di luce illuminò la strada. Lei
entrò imitata prontamente
dalla madre.
La stanza era vuota. I tavoli ancora da sparecchiare, i boccali
di vino erano rovesciati sui tavoli o per terra e le sedie erano state
ribaltate.
In quel posto regnava il caos più assoluto.
Guardò istintivamente verso il
camino e vide che la fiamma si stava spegnendo lentamente.
Andò subito a
prendere altra legna e ve la gettò sopra. In poco tempo la
fiamma si ravvivò e
tornò nella stanza lo scoppiettio tipico del fuoco.
La madre si avvicinò alla figlia.
-Cosa è successo?- chiese preoccupata.
-Non.. Non lo so.. Di solito resta sempre qualcuno qui. Deve
essere successo qualcosa di davvero importante perché si
siano allontanati
tutti dalla Corte…- fece triste. La madre la
abbracciò forte a sé come per
tranquillizzarla e infonderle coraggio. La giovane rimase tra le
braccia della
madre a lungo, finché il sole non fu alto nel cielo. Allora
con la madre si
alzò da terra e iniziò a mettere a posto quel
luogo. Solo quando ebbero finito,
ormai era arrivato il mezzodì, sentirono gli effetti della
stanchezza. Quelle
ultime ore erano state così intense e le emozioni erano
tante e tanto forti che
l’adrenalina aveva fatto loro dimenticare che erano mesi per
la giovane, e anni
per la donna che non dormivano in un letto.
-Preparo il pranzo e poi… andiamo a riposarci.-
affermò la
gitana con voce atona.
-Come… Come desideri.- asserì la madre. anche se
quei gitani le
avevano portato via la sua bambina, lei era cresciuta con loro. Erano
diventati
la sua famiglia. Lei era affezionata a loro. E vederla così
fragile le fece
stringere il cuore. Non era giusto. Aveva sofferto troppo la sua
bambina. Non
era giusto che soffrisse ancora. E pregò la Maria Vergine
che la famiglia della
piccola tornasse a casa.
***
Claude
Frollo si svegliò che il sole era già alto nel
cielo
terso. Si preparò e scese nella cattedrale dove di
lì a poco si sarebbero
raccolti i fedeli per la S. Messa. Percorse l’intera galleria
a passo lento.
Pensando a cosa avrebbe potuto dire alla folla quella mattina?
Si fermò meravigliato quando notò che la porta
che dava sulla
stanza dove fino a quella notte la zingara era stata scardinata dalla
folla dei
gitani che erano venuti a cercarla. O forse erano stati i soldati. Poco
importava. Era una barbarie che nessuno poteva permettersi di
commettere per
poi continuare a professarsi cristiano.
Guardò dentro la stanzetta. Gli sembrò ancora di
vederla lì,
distesa con la schiena rivolta alla porta, che dormiva di un sonno
angelico. A
quell’ora era già sveglia e si apprestava a
intrattenersi con Quasimodo,
l’unico di quel mondo parigino di cui sembrava accettare la
compagnia e con il
quale avesse instaurato un legame.
Quanto avrebbe voluto che quell’angelo avesse preferito lui
al
patibolo. Perché non accettava di capire che quel
soldataccio da caserma, per
quanto potesse essere bello, non la amava e probabilmente la volta in
cui
l’avesse rincontrata… l’avrebbe
arrestata e fatta condannare? Non era un
concetto difficile da capire. Eppure era certo che non gli avrebbe dato
ragione
neanche se l’avesse visto con i propri occhi.
Sospirò e riprese a camminare. Non percorse molti metri che
inciampò in qualcosa. Era un cadavere. il corpo di un
gitano, vista l’assenza
di uniforme, era riverso a terra con
una
pozza di sangue che si spargeva intorno alla figura
all’altezza del ventre. Era
stato passato con la spada di un soldato. Fece il segno della croce, e
poi
furioso si diresse verso le scale. Con sua grande sorpresa quel corpo
non fu il
solo che incontrò lungo il tragitto che portava alla
cattedrale. A un tratto
decise di non contare neanche più, tanti erano i corpi, di
soli zingari, che
aveva incontrato. E quello fu niente rispetto a ciò che lo
aspettò nella
cattedrale. L’immensa cattedrale era tutta cosparsa di corpi
ovunque.
-Kyrie Eleison per costoro che hanno profanato il tuo tempio e
si sono permessi di irrompere armati nella tua casa e infrangere il
sesto
comandamento sotto ai tuoi occhi. O Dio onnipotente, perdonali
perché nella
loro presunzione hanno peccato e si sono condannati
all’Inferno. E perdona
anche me che nella mia miseria e nullità mi permetto di
giudicarli; proprio io
che pecco ogni istante pensando a quella fanciulla, che antepongo lei a
te, mio
Signore. Che sono arrivato a ferire un uomo spinto dalla passione e
dall’amore
per quella fanciulla. Volevo soltanto impedire che quell’uomo
le facesse del
male. Fisicamente e soprattutto spiritualmente..- poi si
fermò. Cosa c’entrava
l’amore per lei con il massacro che quegli empi avevano
commesso? Niente.
–Perdona il tuo pastore che discerne più la
realtà dal sogno, ciò che è
amore…
da ciò che è vana passione. Perdona questo
dannato e le anime dei soldati che
hanno compiuto questo sacrilegio. Sia fatta la tua volontà.-
disse terminando
la sua preghiera. Poi tornò su nella galleria e
andò a cercare Quasimodo. Lo
trovò che era nella cella dove aveva vissuto per quel mese
la zingara.
-Dov’è?- chiese il guercio con la voce roca di chi
parla
raramente.
-Al sicuro. Alla Corte.- rispose lui sospirando.
-Davvero?-
-Sì, Quasimodo. Davvero.- rispose l’arcidiacono di
josas. Egli
annuì, parendo convinto della risposta.
-Chi.. Ha fatto tutto questo?- disse riferendosi a un corpo
morto poco distante dalla cella. L’ennesimo clandestino.
-I soldati del Re.- affermò l’uomo in nero.
–E quell’uomo non è
il solo. Ne hanno uccisi molti. Anche nella cattedrale. Mi daresti una
mano a…
portarli via?- chiese poi. Il gobbo annuì, e mentre il sole
raggiungeva il suo
apice in cielo, la galleria si illuminava rendendo ancora
più reale quel
massacro. La cattedrale illuminò tramite i colori sgargianti
delle vetrate
quello scempio donando una luce irreale a quello spettacolo crudo cui
il prete
dovette assistere.
Quel girono le campane di Notre Dame non suonarono.
***
La
fanciulla si svegliò che il Sole anche quel giorno era
giunto
ormai al termine del suo corso. Osservò il luogo in cui si
era addormentata.
Era vicino al camino della Grande Sala della Corte, ormai vuota. Il
fuoco era
ancora acceso e nell’aria si sentiva un ottimo profumo di
zuppa e di pane
fresco. Si alzò a sedere appoggiandosi con le mani per
terra. E con una visuale
più ampia, notò sua madre dietro al bancone che
toglieva il lenzuolo di sopra
alle pagnotte appena lievitate e che si avvicinava al camino. Quando la
vide
sorrise.
-Finalmente ti sei svegliata, tesoro! Alzati così posso
cuocere
il pane…- lei sorrise e si tolse. Guardando il pentolone
dove si sentiva
ribollire la zuppa.
-Come… Hai fatto?- chiese stupita.
-Mi sono arrangiata con quello che ho trovato. Era avanzato
ancora qualcosa..- asserì la donna.
-Bene! Ho una fame..- esclamò lei felice.
-Sono contenta! Intanto apparecchia la tavola..- disse la madre
mentre la figlia prontamente ubbidiva. Non poteva crederci…
Finalmente era con
sua madre. aveva sognato tanto a lungo quel momento.. Istintivamente
guardò
verso il trono e sentì le lacrime velargli il viso. Clopin..
Dove sei? Perché
non sei qui? Dove siete andati? Perché mi hai lasciato qui,
sola? Non mi hai
mai abbandonata. Mi giurasti che non sarebbe mai successo…
Perché mi hai
abbandonata? Pensò la zingarella sull’orlo delle
lacrime. Si sentiva così
fragile senza nessuno della famiglia accanto.
-Tesoro… Cosa è successo?- chiese Paquette.
-Non… Non ci sono.. Mi hanno abbandonata.- disse lei per poi
scoppiare a piangere come una bambina.
-Sono sicura che se la caveranno. Sono persone di mondo, sanno
ciò che fanno.- disse la donna.
-Ma mi avevano giurato..- poi il suo cuore balzò fuori dal
petto
al sentire qualcuno passare per la strada e uno scalpiccio come di
zoccoli
dietro all’uomo. Arrestò il pianto e si nascose
dietro la finestra sulla strada
per poter identificare chi fosse.
Il mio Febo è venuto a portarmi via! Ce ne andremo insieme
da
qualche parte tutti e tre insieme! Sarà contento di
conoscere mia madre! lui mi
ama tanto!! Pensò la giovine in trepida attesa sentendo i
passi dell’uomo
avvicinarsi così come lo scalpiccio, figurandosi
già di vedere il suo amato in
armatura che teneva per le redini il proprio cavallo, sul quale avrebbe
viaggiato insieme alla madre verso un luogo dove avrebbero potuto
amarsi liberi
dal fatto delle loro condizioni sociali.
I suoi sogni furono ben presto infranti quando vide passare il
poeta Pierre Gringoire affiancato dall’inseparabile capretta
Djali. Delusa ma
contenta in fin dei conti di vedere di non essere stata abbandonata,
uscì di
corsa dalla taverna e cose loro dietro.
-Djali!!- esclamò tutta contenta con la sua melodiosa voce
da
bambina. La capretta nel riconoscere la voce della padroncina si
voltò e le
corse incontro saltellando felice. Il nostro beneamato poeta, invece,
fece
ancora qualche passo continuando a filosofare. Quando si accorse che la
sua
intelligentissima allieva però non era più al suo
fianco, si voltò e sorrise
nel vedere quella graziosa fanciulla che era oltretutto sua moglie,
secondo i
costumi zingareschi, sana e salva e ben lontana dal pericolo. La
capretta felice
di rivedere la propria padroncina le saltò in braccio
belando allegra. Pierre
raggiunse entrambe le creature che gli avevano radicalmente cambiato la
vita.
La ragazza, felice di vedere finalmente una faccia amica, lo
abbracciò.
-Finalmente! Che cosa.. è successo? Perché
Clopin… Non c’è?-
chiese poi spaventata. –Dove sono tutti gli altri?- Aggiunse.
Gringoire la
guardò. Quegli occhi ancora da bambina terrorizzati dal
vuoto che li
circondava, lo guardavano con la speranza che i suoi più
grandi timori fossero
smentiti. Povera piccola graziosa
rondine, cosa puoi saperne tu dei dolori della vita? Questo non
è che l’inizio
di tante e future disgrazie che incontrerai. Tu, che ballavi
spensierata e
leggiadra come una farfalla e allietavi il buon popolo di Parigi, tu, o
dolce
zingarella, che ne sai delle sofferenze che toccano noi umani? Mi
dispiace che
tocchi proprio a me il ruolo di latore delle tue disgrazie, piccola.
Non avrei
mai voluto che le cose andassero così.
-Entriamo in casa, non mi piace rimanere in strada a parlare.-
disse lui per poi cingere affettuosamente le spalle di Esmeralda con un
braccio. Ed entrare in casa. Quando vide la madre, Paquette,
guardò la giovane
sorpreso. –Chi è costei?- chiese l’uomo.
-Mia madre, Paquette la Chantefleurie.- disse sorridendo orgogliosa
la figlia. E brevemente raccontò al poeta cosa era successo
da quando loro due,
quella notte, si erano divisi.
-Sono molto contento per voi, signore mie.- fece lui davvero
contento. Almeno aveva qualcuno al fianco che sarebbe stato forte per
lei.
-Ma ora dimmi, poeta, che cosa è successo a Clopin! Ti
supplico!-
esclamò tra le lacrime come una bambina. E fu allora il
turno del poeta di
narrare i fatti.
-Perché? Perché mi avete portata via da lui?!
Cosa volevate da
me?- fece piangendo.
-Nulla, solo salvarti. Se fossi rimasta non l’avresti visto
comunque Clopin. È morto prima di mettere piede nella
Cattedrale di Nostra
Signora.- fece triste. –Comunque… Qualcuno si
è salvato e starà sicuramente
vagando da queste parti. Ne sono sicuro.- rispose lui.
Ma la giovine rondine ormai non dava più ascolto a nessuno,
si
era chiusa nel suo piccolo quanto stravolto mondo interiore e rimase
tutta la
sera muta come la più bella statua di Venere.
Cenò e poi salutando
con
un lieve e flebile mormorio, andò a coricarsi in un angolo.
***
Aveva
impiegato tutto il giorno a sgomberare la chiesa e a pulirla
dal sangue versato da quei….. Non sapeva neanche come
definirli! Sentiva montargli
una rabbia dentro di sé ogni volta che pensava
all’orrore che era stato
consumato tra quelle sacre mura. E Quasimodo, per tutto il giorno gli
era stato
vicino e lo aveva aiutato. L’unica persona pura e innocente
oltre la sua bella rondine!
Era lui, semplice e ingenuo, che faceva tutto ciò che lui
gli chiedeva di fare.
Povero Quasimodo! Sospirò. Poi un passo cadenzato e
metallico lo distolse dai
suoi pensieri. Si voltò verso l’entrata. E vide il
capitano Febo di Chateaupers.
Sentì la rabbia montargli addosso. Lui! Che aveva rubato il
cuore della sua
piccina! Che l’aveva fatta innamorare perdutamente del suo
bell’aspetto e della
sua magnifica armatura! Lui che l’aveva illusa e abbandonata!
E che aveva osato
profanare la casa del Signore!
-VOI!! Come osate recarvi ancora in Chiesa armato e con aria
tanto spavalda, dopo aver profanato questa stessa Dimora di Dio! Uscite
immediatamente!
Che sia di monito una volta per tutte.-fece duro in volto trattenendo a
stento
la propria ira.
-Non mi fate paura, prete.- disse canzonatorio.
-Arcidiacono.- puntualizzò per poi sospirare. –Voi
potete
mentire a voi stesso, a quei servi che stanno con voi. Ma sappiate, capitano- disse marcando il titolo con
disprezzo- che scappare però non potrete giammai
perché qua, vi sta guardando
Notre Dame. Sarà ella stessa a giudicarvi. E Dio
nell’altro mondo. Rimetto a
Dio ciò che non è di mia competenza, sta a voi
scegliere se seguire una volta
per tutte sulla retta via e salvare la vostra anima, o bruciare per
l’eternità
tra le fiamme dell’Inferno.- disse mentre lo sguardo
diventava glaciale e il tono
calmo, tanto che avrebbe disarmato il diavolo in persona. E poi si
voltò per
poi tornare verso l’altare, donde era venuto. Quando si
voltò poco tempo dopo,
il valoroso capitano degli arcieri di Re Luigi XI era sparito.
–La tua
spavalderia serbala per gli idioti
del
tuo seguito, non usatela con me. - mormorò più a
se stesso che non davvero al
Capitano con un piccolo sorriso trionfante sulle labbra.
La sera mangiò e si coricò nel letto troppo
stanco per
sperimentare ancora filtri nel suo piccolo laboratorio di alchimia. Se solo mi avessi visto quest’oggi in
Chiesa, ti saresti accorta di quanto il tuo “amato
Febo” sia solo un involucro
contenente pura e semplice boria e nulla più. Poi
si riscosse. È inutile prendersi
in giro, Claude, ti
avrebbe odiato solo di più. E con questi pensieri
in testa rimase sveglio
tutta la notte a rigirarsi nel letto.
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