[In
autentico stile “Tokyo Babylon”, dolce, ma anche un po’ triste. Io vi ho
avvertito.]
Little Green-eyes
di
Natalie Baan
(traduzione di Shu)
Con una mano sulla
testa per reggersi il cappello, Subaru alzò lo sguardo. Osservò il breve, ripido
pendio che portava ai muri in rovina che lo sovrastavano. Carbonizzati, si
stagliavano con il loro profilo irregolare contro il cielo di un azzurro
perfetto, i loro duri bordi proiettati sullo sfondo di un improvviso sollievo.
Un soffio d’aria faceva tremolare le foglie piene di sole degli alberi che
circondavano quei muri, e portava le note lontane di qualche campana del vento
appesa in una delle altre case lungo la strada. Subaru fece un piccolo sospiro,
e poi cominciò a salire su per gli stretti gradini di pietra. Camminava
lentamente, passando tra i rami dei bossi e dei tassi che si protendevano fin
sulle scale, visto che gli arbusti erano cresciuti disordinatamente da entrambi
i lati della gradinata.
Quella proprietà era
appartenuta ad una famiglia di quattro persone: una giovane coppia e due bambine
piccole. Erano tutti morti nell’imprevisto, furioso incendio che aveva devastato
la loro casa, distruggendo ogni cosa tranne quello scheletro di mura incenerite
e cadenti. Da allora, i vicini avevano riferito di strani rumori, e luci: di
notte, tra gli alberi balenava un fermo riflesso dorato, e si udivano suoni di
bambini, risate e giochi. L’uomo che aveva acquistato il terreno intendeva
demolire tutto per ricostruirci –in una zona così ambita, una casa nuova avrebbe
reso un sacco di soldi- ma temeva di avere problemi con i clienti, preoccupato
di rimanere, alla fine, con sul groppone una casa che nessuno voleva comprare
perché si diceva fosse infestata. Quindi aveva contattato la famiglia Sumeragi
–non che, aveva commentato disinvolto, credesse davvero che la visita di un
onmyouji avrebbe placato qualche fantasma, ma l’aveva fatto perché si spargesse
voce e tutte quelle dicerie fossero messe a tacere: la questione veniva affidata
al gruppo più prestigioso sulla piazza, reputazione contro reputazione, chiodo
scaccia chiodo.
Il lavoro è lavoro,
Subaru lo sapeva, ma ci rimaneva male lo stesso quando la gente lo prendeva solo
per una vuota formalità o uno status symbol.
Raggiunse la fine
della scalinata. La luce del sole cadeva a perpendicolo sul piccolo prato di
fronte alla casa, facendolo scintillare come una parure di smeraldi tra gli
alberi. Se pure gli aceri che nascondevano l’abitazione dalla strada avevano
subito danni, adesso erano coperti dalle nuove foglie di primavera. Subaru
osservò l’edificio privo del tetto, la porta della facciata ormai sparita, la
sommità dei muri sgretolata, e poi si girò per guardare di nuovo i gradini che
portavano al sentiero perso fra i rami, verso la strada. Non doveva essere stato
facile per i pompieri giungere fin dentro la casa, pensò –c’era anche il fatto
che la casa era vecchia, e doveva aver ceduto in poco tempo. Forse, quando i
vigili del fuoco erano arrivati, era già troppo tardi.
Avvicinatosi al vano
vuoto della porta, salì il gradino della soglia, reggendosi con tutte e due le
mani agli stipiti. Sbirciò dentro la casa bruciata. Tegole e travi crollate,
carboni e cenere incrostata ricoprivano il pavimento, che una volta doveva
essere rivestito di parquet. Con molta cautela, si apprestò ad entrare, tastando
il terreno prima con un piede –Hokuto si sarebbe spaventata a morte se fosse
precipitato in qualche sotterraneo, e gli avrebbe fatto una scenata di un’ora
come minimo per essersi messo in pericolo. Non voleva certo farla preoccupare
inutilmente. E Seishiro, che avrebbe tirato fuori battute sul fatto di andare a
salvarlo…
Sarebbe stato molto,
molto attento, decise Subaru.
Un pochino rosso in
viso, avanzò tra le mura scheletrite della casa, camminando con cautela fra le
macerie, tenendosi alla larga dalle pareti che potevano essere pericolanti. Allo
stesso tempo, lasciò dispiegarsi l’altra sua sensibilità, cercando segnali di
rilievo tra i cambi di temperatura, tra i giochi di luci e ombre, cercando le
tracce di influenze psichiche che potevano nascondersi dietro quei fenomeni. Da
qualche parte in mezzo a quella desolazione c’era un luogo spirituale: un nodo
di energie, al centro del quale si trovava quell’entità che stava disturbando il
mondo mortale. Individuarlo era la prima parte del suo lavoro. Concentrandosi,
protese le sue percezioni, aprendo il suo essere, a metà tra controllo e trance…
Una cosa bassa,
sinuosa e fugace si mosse al margine della sua visuale. Si girò di scatto per
cercarla. Un piccolo gatto soriano si era fermato a metà di un passo sotto
un’architrave crollata. Fissava il ragazzo, i suoi occhi due scintillii
indecifrabili, color verde chiaro, schermati dal sole.
Per quasi un minuto
intero Subaru, di colpo riportato alla realtà, ricambiò quello sguardo. Poi,
quando l’animale si fu abituato alla sua presenza, anche il ragazzo si rilassò,
scacciando in lunghi respiri la tensione della sorpresa. Con un sorriso, si
accovacciò per terra, allungando una mano in segno d’invito. “Ehi, tu, ciao.” Il
gatto si spaventò, una zampa sollevata mentre lo guardava con profondo sospetto.
“No, non ti faccio niente.” Lui rimase tranquillo, nel corpo e nel cuore, senza
nulla pretendere e senza insistere, per far sì che l’animale capisse le sue
buone intenzioni. “Vieni qui, gattino, dai.”
Il gatto esitò, poi
rimise a terra la zampa, poi l’altra, e alla fine si mosse circospetto verso di
lui. Il ragazzo osservò la sua camminata elegante, una precisa linea di passi,
la sua testa abbassata, le spalle strette che si alzavano e abbassavano
alternativamente, e ammirò la grazia delle movenze di quel corpicino, guardingo
eppure disinvolto, il pelo argenteo striato di nero che si corrugava mentre i
muscoli sotto di esso danzavano in un concerto perfetto. L’animale si fermò a
distanza di sicurezza da lui e sollevò la testa; Subaru abbassò appena la mano,
lasciando che il micio gli annusasse la stoffa scura dei guanti. Alla fine, il
gatto si chinò all’improvviso per strusciarsi lo zigomo sulle dita di lui.
Subaru prese a fargli grattini sulla mascella, e l’animale si piegò in quella
carezza, imperioso ed estatico, subito con forti fusa; e mentre lui gli
accarezzava il dorso, e il gatto si godeva quel tocco, strusciandoglisi contro
le ginocchia, nel suo sorriso si affacciò una punta di ansia. “Bravo micetto.
Posso…?”
Il gatto s’irrigidì
mentre Subaru faceva scivolare le mani sotto di lui per prenderlo in braccio.
Fece molta attenzione a tenerlo per bene ma senza stringerlo troppo; gli
concesse un momento per considerare la situazione, e alla fine il gattino si
accomodò, con le zampe davanti piegate sul braccio di lui. Raggomitolato tra le
sue braccia, le sue fusa sembravano aumentare, risuonando contro il petto del
ragazzo. Lo sciamano si guardò intorno, poi attraversò un’apertura in un muro
per entrare in quella che, dalle carcasse corrose di elettrodomestici, immaginò
essere la cucina. Il muro di dietro della casa era quasi completamente andato, e
parte delle fondamenta era allo scoperto; due bassi gradini di pietra indicavano
dove una volta doveva esserci stata una porta. Vi si sedette, accanto ai resti
riarsi di un arbusto o di un alberello piantato troppo vicino alla casa per
poter essere sopravvissuto all’incendio, e lasciò che il gatto si mettesse a
fargli le paste in grembo. Accarezzandogli con due dita la “M” rovesciata della
sua fronte, restò a guardarlo mentre chiudeva gli occhi perso nella più completa
soddisfazione. Quel pelo doveva essere così morbido, pensò. Anche la leggera
brezza di prima era svanita, e l’aria era luminosa e ferma, con solo qualche
raro richiamo di uccelli a ricordargli che lui e il gatto non erano soli nel
mondo. Era tentato, solo per questa volta, di togliersi i guanti. Di sicuro
nessuno lo avrebbe visto. Esitò, ma poi la memoria della voce della nonna lo
trattenne, come sempre. Invece si tolse il cappello, appoggiandolo lì accanto.
Piegandosi, accostò la guancia alla testa del gatto, e quello sopporto
l’oltraggio –anzi, sembrò gradire quell’incerta carezza. Le fusa continuavano,
costanti, e Subaru sentiva negli occhi come un minuscolo bruciore per quella
fiducia così totale, per quel desiderare e quell’incondizionato accettare
l’affetto.
Sollevando di nuovo
la testa, studiò il piccolo cortile del retro: uno spazio vuoto, ora invaso
dall’erba, con attorno altri alberi; una fioriera carica di peonie tutte
sbocciate, in un tripudio di petali bianchi e rosa; una scatola per i
giocattoli, senza il suo contenuto. Fece scorrere lo sguardo su, verso la
perfetta limpidezza del cielo. Poi chiuse gli occhi, il capo ancora un po’
reclinato all’indietro, e provò a farsi altrettanto sereno, altrettanto aperto.
Il gatto aveva poggiato il mento sulle zampe, e il ragazzo gli passava la mano
lungo il dorso in carezze regolari, che seguivano il ritmo del suo respiro,
mentre metteva in equilibrio il suo essere e aspettava, in quell’immobilità.
Mentre diventava lui
stesso quell’immobilità…
Dopo un certo lasso
di tempo, avvertì prima una sensazione di presenza, indifferenziate, lievi
pressioni che si facevano sempre più forti, che a poco a poco cominciavano a
distinguersi l’una dall’altra: una fissità calda e lenta; poi qualcosa di veloce
e impulsivo, ma dolce; e infine una doppia vibrazione, simile alla pioggia
quando tamburella sulle foglie, o a un frullo d’ali su uno specchio d’acqua
immobile. Tutte queste cose si agitavano e vorticavano intorno a lui come il
mare attorno al molo, senza curarsi di lui più di quanto il mare si curi del
molo. Voci appena percettibili si levavano mentre il flusso spirituale si faceva
più profondo, ma rifiutandosi di varcare la soglia della comprensibilità: erano
soltanto un mormorio di sillabe sconnesse, timide, quasi si vergognassero ad
assumere un significato. Negli spazi tra di esse andava e veniva una musica
sottile, stralci di una canzone vagamente familiare ma mai del tutto
riconoscibile. E poi c’erano anche i profumi, sorprendenti per quanto erano
intensi, evocativi: l’odore corposo dell’olio messo a scaldare, l’aroma forte
del pesce –tempura, pensò, poteva quasi sentire il sapore della pastella— e la
fragranza di amido e vapore del riso sul fuoco, tutto così vero da fargli venire
l’acquolina in bocca e da costringerlo ad inghiottire a vuoto per qualcosa di
repentino e doloroso che gli serrava la gola. Il gatto continuava a fargli le
paste, compiaciuto, sulla gamba, pungendolo appena appena con le unghie tirate
fuori per metà. La musica svaniva, ma altri rumori venuti dal nulla prendevano
il suo posto, si intensificavano, si acuivano, passi lenti, poi altri più
rapidi, il trillo di una risata argentina –e poi, più tangibile dei suoni o
degli odori o addirittura del gatto sonnacchioso sotto le sue dita, c’era un
improvviso impeto di felicità: l’impressione di essere avvolto in un senso di
appartenenza così assoluto da fargli pizzicare di nuovo gli occhi, un bruciore
acuto e umido. Il sole, che aveva fino ad allora brillato dietro le sue
palpebre, adesso perdeva la sua forza, veniva sostituito da ombre chiare, che si
muovevano armoniosamente. Spazzato, toccato al cuore dalla sensazione di essere
perfettamente a casa, al sicuro e amato, Subaru rabbrividì, trattenne il
respiro.
“Mi dispiace.”
sussurrò alla fine. “Mi dispiace davvero. Ma…”
“E’ ora di andare
nell’altro mondo.”
Muovendosi con
cautela, come per non disturbare il gatto, si frugò nella tasca e ne estrasse un
ofuda. Se lo portò al livello della fronte, reggendolo con due dita, e poi lo
scagliò.
“On.”
Aprì gli occhi.
Diafani, luminosi petali fluttuavano tutto intorno a lui, languidi e
ultraterreni, come minuscole meduse traslucide erranti nel tramonto. Lui li vide
solo con la coda dell’occhio, notando appena come lo scenario intorno a lui si
fosse rabbuiato –una cosa normale per le sue percezioni- la sua attenzione era
essenzialmente concentrata sul suo lavoro.
“On –batarei ya
sowaka.”
Sentiva che quelle
presenze che abitavano l’aria, che frusciavano attorno a lui ancora non
mostravano nessuna reazione verso il suo incantesimo. Le cose non dovevano stare
come aveva pensato.
“On –sowa hamba shuda saraba taraman wa hamba shudokan.”
Abbassando la mano,
sfiorò il pezzo di carta carico di energia che era scivolato sulla testa del
gatto, tra le sue orecchie…
“On.”
…e il gatto si
dissolse con un lieve suono cantilenante, simile al verso dei suoi shikigami:
una nota sottile e malinconica, un miagolio interrogativo.
Il suo grembo era
vuoto.
Tremante, lasciò
andare il respiro che fino ad allora aveva tenuto a freno. Esitò, poi serrò di
nuovo gli occhi per liberare i suoi secondi sensi, controllando l’area. Dove
c’era stato quel vibrante ricordo di vita, adesso c’era solo assenza; dove
c’erano stati gli echi delle voci, c’era il silenzio. Sentì il calore del sole
ritornare, inondargli il viso. Battendo le palpebre, guardando verso l’altro,
cercò con gli occhi i neri rami spogli dell’albero, il cielo uniforme come
porcellana azzurra sullo sfondo, e li vide sfuocarsi, diffondersi e sbavare come
caratteri scritti su carta bagnata mentre una familiare inquietudine lo
riempiva: la pena per tutto quello che doveva essere distrutto, dissipato, la
necessaria incombenza di un membro della famiglia Sumeragi.
Per le illusioni di
una povera, smarrita, abbandonata creatura che non poteva capire che lei stessa
e tutte le cose che aveva amato non esistevano più.
Dopo un po’, un
uccellino provò ad emettere una voluta della sua canzone. Subaru si mosse e si
passò distrattamente le mani sul viso. Recuperato il cappello, ritornò verso la
facciata della casa, questa volta aggirando le rovine, passando tra le chiazze
d’ombra degli alberi. Discese le scale, poi il suo passo diventò un po’ più
veloce una volta raggiunto il sentiero; il ragazzo guardava di fronte a sé nella
mezza sensazione di pregustare qualcosa, qualcosa di indefinito eppure pervaso
di una promessa, e mentre si avvicinava alla strada la vista della figura alta
che lo stava aspettando gli metteva dentro le ali –una sensazione rapida,
palpitante, e strana- e allo stesso tempo donava a quelle ali tranquillità, un
posto dove trovare la pace.
“Ah,
Subaru-kun!” L’uomo se ne stava appoggiato al tronco di un piccolo gingko,
a braccia conserte. Si staccò dall’albero appena arrivò Subaru. C’era un vago
sentore di fumo intorno a lui: doveva aver finito una sigaretta giusto da un
minuto o due. “Fatto?”
“Sì.” Avvicinandosi
a Seishiro, Subaru sorrise alzando lo sguardo verso l’uomo, nell’animo l’usuale
mescolarsi di allegro sollievo e di diffidenza nei confronti di
quell’immancabile gentilezza: il fatto che Seishiro si offrisse sempre di
accompagnarlo e riprenderlo dal lavoro.
“Ed è andato tutto
bene?” La luce che filtrava tra le foglie a ventaglio proiettava irregolari
macchie d’oro sul marciapiede. Il ragazzo vi lasciò scorrere lo sguardo, facendo
udire un suono sommesso, neutro. E poi, dita forti scivolarono sotto il suo
mento, dolcemente gli voltarono e sollevarono il viso, e Subaru si ritrovò a
guardare Seishiro da una distanza molto, molto ravvicinata. Uno sfolgorio di
sole batté sulle stanghette metalliche degli occhiali dell’uomo, unendosi a
quella luce intensa, così particolare degli occhi castani dietro le lenti.
“Subaru-kun” mormorò Seishiro, e il cuore di Subaru gli fece un balzo dentro al
petto. Quello sguardo sembrava poter scrutare dritto nell’occhio del ciclone,
nel punto al centro del dolore e del rimpianto, della confusione e della
misteriosa meraviglia che lui stesso non riusciva neanche a intravedere.
Incantato, impietrito, come sulla soglia di una segreta rivelazione, tremava,
indeciso se fare un passo indietro oppure gettarsi a capofitto in quell’immenso
ignoto. Chinandosi, Seishiro lasciò scorrere il pollice lungo la guancia di
Subaru.
“Hai della fuliggine
in faccia.” sussurrò.
Per un istante,
Subaru restò smarrito a guardarlo –ma poi la consapevolezza gli piombò di nuovo
addosso come uno schiaffo, come un fulmine, la vicinanza dell’altro, l’intimità
di quella scherzosa, maliziosa carezza. Fece un salto indietro, coprendosi di
scatto la faccia con le mani per nascondere il rossore, prova scottante del suo
imbarazzo, insieme allo sporco. “Sei-Seishiro-san!”
Seishiro rise forte
e si raddrizzò, con il suo solito, allegro sorrisino sotto i baffi: sembrava
divertito del suo scherzo come sempre, quello sguardo penetrante era sparito
quasi non fosse mai esistito. “Scusa, scusa!” ridacchiò mentre Subaru, ancora
imbarazzato, si strofinava il viso cercando di mandar via lo sporco, per poi
rendersi conto che non c’era modo di sapere se i guanti neri fossero puliti o
stessero solo peggiorando la situazione. “Mi sa che ultimamente le mie
dimostrazioni d’affetto hanno un po’ passato il limite. Tieni.” Gli offrì un
fazzoletto, e Subaru esitò, non voleva sporcarlo, ma quando Seishiro glielo mise
in mano lui lo chiuse tra le dita, non sapendo che altro fare.
“Senti, sai che ti
dico?” aggiunse Seishiro, e il ragazzo sollevò cautamente lo sguardo mentre si
passava il quadrato di stoffa bianca sul viso. “Hokuto-chan sarà a casa tra
poco. Perché non le facciamo trovare una sorpresa, al ritorno da una massacrante
giornata di shopping? Andiamo a casa tua e prepariamo una bella merenda. Che ne
pensi?”
Subaru guardò l’uomo
che se ne stava là, con quel sorriso caldo in volto, e le ultime tracce di
allarme e disagio si sciolsero dentro di lui. Restituì a Seishiro il sorriso,
preso da una sensazione di gioia completa, come il brillare di una luce
accogliente, la luce di quella che si chiama casa. “Sì –dai, facciamo così!”
Insieme si allontanarono sul marciapiede, verso il minivan parcheggiato dietro
l’angolo, e Subaru pensava a quanto fosse fortunato ad avere due persone che gli
volevano così tanto bene, e che erano così meravigliose con lui.
A terra, sotto il
gingko, era rimasto nella fanghiglia un mozzicone di sigaretta: schiacciato,
ancora spandeva il suo odore acre, odore di bruciato.
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