Capitolo
1
Una
vita da sopravvissuta
Berlino ovest, ottobre 1950
Nadine era
particolarmente contenta quella sera: suo marito era tornato dall’ospedale nel
pomeriggio, avendo fatto il turno di mattina e adesso i due stavano sulla pista
da ballo di una balera a ballare, o meglio a cercare di ballare, il moderno
boogie-woogie. Nadine rideva nel suo vestito nero a pois bianchi mentre alcune
ciocche di capelli sfuggivano ribelli dal suo elegante chignon.
Nadine
ballava, mano nella mano di suo marito, rideva ed era viva. Dieci anni prima,
infatti, dai rubinetti di quella fredda stanza non era fuoriuscito gas ma
acqua. La morte atroce del giovane Kurt e le ultime parole d’amore scambiate
fra lui e Nadine avevano tanto commosso la kapò da risvegliare in lei il senso
d’umanità e spingerla a non eseguire l’ordine del capitano di Ravensbrück. La donna fece passare Nadine – la prigioniera
che aveva tentato di fuggire dal campo – per un’altra prigioniera morta quella stessa sera per inedia
vicino a una baracca; mise alla sventurata il vestito beige di Käthe e lo scambio fu fatto; poi portò Nadine alle docce per farle
togliere il sangue di dosso ed evitare così qualsiasi sospetto. Nadine fu
l’unica donna che riuscì a sopravvivere nell’inferno di Ravensbrück per cinque
lunghissimi anni.
“ Werner! Ti prego, fermiamoci! ” esclamò Nadine esausta ma senza
spegnere il suo sorriso. “ Certo! … ” rispose il marito e la prese sotto
braccio “ … Andiamo a sederci! ” Sedettero a un tavolino lontano dalla pista da
ballo e, intanto, il boogie-woogie fu sostituito da uno scatenatissimo
rock’n’roll. La guerra sembrava ormai lontana. I due giovani sposi si
guardarono in faccia ed esplosero in una fragorosa risata. “ No! Questo sarebbe
troppo! ” fece Nadine. Nei balli, nelle canzoni, nell’aria si percepiva la
voglia delle persone di divertirsi e dimenticare. Per alcune dimenticare ciò
che erano state durante gli anni bui del nazismo, per altre dimenticare ciò che
avevano subito.
Nel locale cominciò a fare caldo e Nadine tirò indietro i capelli,
aggiustando alla meglio l’acconciatura. “ Amore, stai sudando, togliti la
giacchettina. ” le consigliò Werner con apprensione. Il volto di Nadine divenne
improvvisamente triste e, con un fil di voce, disse: “ No, amore, si vedrebbe.
” Nadine si riferiva al tatuaggio, marchio indelebile, ricordo di un terribile
passato. Il marito le strinse la mano per rassicurarla e la donna, come in un
flash, rivisse sulla propria pelle tutto ciò che aveva subito nell’inferno di Ravensbrück:
il dolore dell’ago bagnato di un liquido bollente che s’introduceva
ripetutamente nel suo braccio; il bruciore della disinfestazione sulle parti
del corpo ferite dalla violenta depilazione; l’umiliazione della svestizione e
della visita; la fatica dell’inutile e interminabile lavoro al laghetto; le
fitte alle mani che si spaccavano e sanguinavano trascinando la carriola
stracolma di sabbia; poi le botte, il freddo, la fame, la sete; il suo aspetto
e la sua dignità di persona e di donna oltraggiati; la paura della morte; la
rassegnazione al proprio destino; l’angoscia e la disperazione della solitudine
… Nadine chiuse per un istante gli occhi e un brivido gelido le percorse lungo
la schiena. “ Amore, adesso ci sono qui io. ” Suo marito tentò di rassicurarla
e, come sempre, ci riuscì. La donna riaprì gli occhi e sulle sue labbra sbocciò
un sorriso.
Nadine e Werner si erano uniti in matrimonio in un tiepido
pomeriggio di metà settembre del ’46 con rito cattolico. Con il cuore
palpitante d’amore e di gioia, Nadine era entrata in chiesa vestita di bianco e
con il velo sulle note dell’Ave Maria di Schubert. Quello era stato davvero il
giorno più felice della sua vita. Al loro matrimonio, c’erano poche persone:
qualche amico e collega di Werner e la cugina di Nadine, unica sopravvissuta
della sua famiglia al genocidio degli ebrei. Poco tempo dopo, i due sposi
andarono ad abitare in una casetta dal tetto rosso con fuori un piccolo
giardino, in una zona tranquilla della città dove la devastazione della guerra
miracolosamente non era giunta. Il sogno di Nadine si era avverato insieme a
Werner. L’anno successivo, arrivò un figlio. I due giovani sposi adottarono un
bambino di due anni orfano di guerra: Nadine non poteva avere figli poiché
durante l’ultimo anno di prigionia a Ravensbrück le fu asportato l’utero per un esperimento medico. Entrambi
avevano desiderato un figlio tutto loro, che fosse frutto e senso del loro
amore. Per Nadine, che sin da ragazza sentiva forte il desiderio di maternità,
era stata una gran sofferenza rinunciare alla trepidazione dell’attesa e dei
preparativi e a quella gioia che segue immediatamente il dolore del parto. Dopo
un po’, insieme a suo marito, Nadine decise di mettere da parte ogni sentimento
egoistico e di adottare un bambino, anche lui vittima dell’insensata furia
della guerra. Il bambino si chiamava Andrej ed era di origine polacca. Nadine e
Werner riversarono su quel bambino – dagli occhi azzurri e dai capelli biondi –
tutte le loro cure e tutto il loro amore. Con la sua genitorialità, Nadine
aveva realizzato appieno il sogno di tutta una vita. Il poter donare amore ad
Andrej e a suo marito e riceverlo in cambio l’avevano finalmente resa una donna
completa e felice anche se la vita da sopravvissuta non era facile. Spesso,
Nadine provava un senso di colpa e di vergogna per essere scampata alla morte
nel campo femminile di Ravensbrück e si domandava perché proprio lei fosse
sopravvissuta a migliaia di donne e bambini innocenti. Del suo tragico passato
aveva ormai smesso di parlare poiché, al suo racconto, le persone domandavano:
Cosa hai fatto per sopravvivere? Loro non credevano al miracolo e pensavano che
la donna avesse venduto se stessa ai nazisti in cambio della vita. Questa
rappresentava un’ulteriore umiliazione per Nadine che rispondeva con un
silenzio di tristezza e di rabbia. L’unica persona in grado di capirla era
Werner. Con lui, che l’aiutava a portare il suo pesante bagaglio di incubi e
ricordi, Nadine aveva ritrovato fiducia e speranza e soprattutto dignità e
autostima che nel lager erano andate perdute.
Nadine accarezzò il viso di suo marito: era stato lui a cambiare
la sua vita, salvandogliela in tutti i sensi ed era nel verde dei suoi occhi che
tutto ciò che aveva subito in passato – violenze, offese, privazioni – sprofondava.
Werner la guardò negli occhi, come i suoi, lucidi per l’emozione e si perse nel
ricordo del loro primo incontro.
Mi son svegliato solo
poi ho incontrato te
l’esistenza un volo diventò per me.
E la stagione nuova
dietro il vetro che appannava fiorì
tra le tue braccia calde
anche l’ultima paura morì.
Lucio Battisti, Vento nel vento