Bolle.
Per
Liv.
Ti
voglio tanto bene.
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Thomás
aveva sempre avuto le mani calde, gli occhi pieni e il sorriso sulla
bocca. Per ventidue anni.
La
mamma gli diceva che somigliava a una creatura celeste, a un angelo
del paradiso – quelli belli, con la veste candida, i boccoli
d'oro
e un'aura fatta di stelle ad avvolgerli come una coperta; Francisco
gli baciava quei riccioli da angelo biondo con le labbra sapide del
cloro della piscina in cui si allenava.
Thomás
aveva vissuto in una bolla colma di acqua di mare e vi era cresciuto
nuotando, i contatti con l'esterno ridotti al minimo. Quei ventidue
anni che non si era reso conto di avere gli gravarono sulle spalle
d'improvviso, tutt'in un colpo, il giorno della morte di sua madre,
quando comprese che la convinzione che la sua dolce presenza sarebbe
stata eterna era una menzogna, e i ventidue anni divennero il triplo
di quelli che aveva giŕ consumato rincorrendo una bugia
confortante.
La bolla d'ovatta era esplosa e lui era caduto su un pavimento gelido
– e gli occhi colmi d'amore si svuotarono e si riempirono
della
realtŕ; le dita erano gelate e il corpo percorso da brividi.
Sua
madre non c'era piů e lui annaspava come se avesse i polmoni
gonfi
d'acqua. L'aria gli mancava.
Fuori
dalla bolla, il mondo era ghiaccio.
Francisco,
anche lui, sentiva freddo. Allora avevano fatto l'amore per
riscaldarsi.
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Costruirono
un'altra bolla, stavolta piů grande e resistente.
Lě
si scaldavano le mani a vicenda, si riempivano gli occhi l'uno
dell'altro e mordevano sorrisi.
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La
paura piů grande di Thomás era uscire fuori e
affrontare il mondo.
Aveva
ventitré anni, una ferita ancora aperta all'altezza cuore e
l'insicurezza e la gelosia di chi ama – le mani fredde, gli
occhi
vacui, attraversati da un velo di tristezza, le labbra una linea
retta, muta.
Andarsene
significava mettere a dura prova la resistenza del suo rifugio
sicuro. Francisco era la sua casa e quella bolla che odorava di cloro
e di sesso.
Era
crudele, e glielo sospirň sul collo nell'ultima loro notte.
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Fece
molte vasche, quel giorno, forse troppe.
Dalle
grandi vetrate, si scorgeva chiaramente il paesaggio bianco e grigio
di una Mosca che pareva taciturna e introversa. Nevicava. Non era
importante.
L'acqua
che gli abbracciava i muscoli tesi e stanchi era ancora tiepida,
segno che la piscina era stata riscaldata di recente. A ogni
immersione, vi espirava dentro e sentiva il calore scendere dalle
narici e carezzargli il viso in migliaia di minuscole bolle che si
spaccavano a contatto con la pelle. Sott'acqua, chiudeva gli occhi e
fingeva ci fosse la voce di Francisco a chiamarlo –
«Thomás
Thomás Thomás Thomás»
sussurrava a ogni bacio sulla nuca, le
braccia forti e calde strette sul suo stomaco, mentre gli rimaneva
dentro ancora un po', dopo averlo amato. Thomás apriva gli
occhi e
vedeva appena in tempo la parete della vasca, sprofondava in acqua e
si voltava in una capriola veloce.
L'acqua
che gli turbinava nelle orecchie aveva lo stesso suono dei mormorii
di Francisco. Non era sufficiente, e a ogni bracciata sentiva il
respiro correre via e la pesantezza della nostalgia scavargli il
petto e annientarlo, divorargli i polmoni e i brandelli di cuore.
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