The White
House
‹‹Avanti, veloci a scendere dal pullman! La guida ci sta aspettando!››
abbaiò la signorina Wilson, incitando le ragazze del St. James, uno
degli istituti femminili nella classifica delle dieci scuole migliori
dello Stato, a scendere dal pullman che le aveva condotte a Washington
da Ithaca, nello Stato di New York.
La signorina Wilson era una donna dall’aria rigida e inflessibile, non
sorrideva mai – tralasciando, ovviamente, quando lo faceva malignamente
al momento di restituire dei test corretti – e vestiva sempre di nero.
Una a una le ragazze scesero elegantemente dal mezzo, lisciandosi la
gonna dell’uniforme, battendo i tacchi delle scarpette nere
sull’asfalto bagnato per la pioggia caduta la notte precedente.
Impeccabili, si guardarono intorno con un’espressione sdegnosamente
annoiata, i capelli perfettamente raccolti in una coda alta e ordinata,
disponendosi in fila senza fiatare.
La signorina Wilson le contò rapidamente, poi si accigliò. ‹‹Dov’è la
signorina Swan?›› chiese alla classe con voce tonante. Alcune ragazze
ridacchiarono e si diedero il gomito furtivamente.
‹‹Sono qui!›› esclamò una voce dall’interno del pullman. Qualche
secondo dopo una ragazza molto graziosa scese dal mezzo con un
saltello, rischiando di scivolare, chiudendo la borsa che portava a
tracolla, uguale a quella di tutte le altre. ‹‹Eccomi›› disse, il
respiro affannoso e le guance rosse.
‹‹Sei sempre in ritardo,
Isabella Swan››. La Wilson scosse la testa, scrutando la ragazza con
disapprovazione. ‹‹Vi garantisco che se al ritorno una di voi non è con
me quando faccio l’appello per tornare a casa, ordinerò di partire
comunque›› le minacciò, e loro si affrettarono ad annuire: la signorina
Wilson, ne erano certe, l’avrebbe fatto.
Iniziarono a camminare, la Wilson in testa al gruppo, verso la loro
meta. Erano partite quella mattina presto e avevano trascorso la
giornata di qua e di là per Washington. Ormai da visitare mancava solo
una cosa.
‹‹Sempre in ritardo, Swan!›› ripeté con una risatina una ragazza dai
capelli rosso fuoco che stava davanti ad Isabella.
‹‹Irrecuperabile›› sospirò la sua vicina, dai capelli biondi. Osservò
Isabella come si fa con un disgustoso insetto, gli occhi duri e gelidi.
‹‹Immagino che c’entriate voi con la scomparsa delle mie cuffie›› disse
la ragazza, per nulla toccata dalle parole di Victoria e Jane.
‹‹Mmm, forse…›› concesse Victoria, frugando nella sua borsa, emettendo
un’esclamazione di falsa sorpresa quando estrasse le cuffie nere di
Isabella, la quale allungò la mano per riprenderle. Avevano quasi
raggiunto le sue dita quando precipitarono in una pozzanghera. ‹‹Ops››
fece Victoria con un sorrisetto di scherno.
Isabella guardò le sue cuffie con aria afflitta. Immerse la mano
nell’acqua ghiacciata e le tirò fuori, con la fievole speranza che
potessero funzionare ancora. Le infilò nella borsa e raggiunse le
altre, che proprio in quel momento stavano svoltando in una via larga
in cui erano stanziate delle guardie, le quali fecero loro un cenno
facendole passare.
‹‹La nostra villa in Inghilterra, nello Hampshire, è quasi grande come questa›› disse
Jane pavoneggiandosi ‹‹questa in televisione sembra anche più bella››.
Mentre oltrepassavano il cancello e venivano perquisite, arrivò la
guida. Isabella fu l’ultima ad essere controllata e si accodò alle sue
compagne, lo sguardo fisso sulla Casa Bianca. Sapere di essere a poche
centinaia di metri dal Presidente degli Stati Uniti era una strana
consapevolezza. Carlisle Cullen le piaceva molto, sembrava un uomo
sinceramente interessato all’America e ai suoi cittadini, ma Isabella
poteva giudicare solo da ciò che vedeva in televisione.
Iniziò la visita al giardino. Tutte le ragazze ridacchiavano parlando
del figlio maggiore dei Cullen, Edward, mentre la signorina Wilson e la
guida discutevano tra loro. Isabella camminava tranquilla un po’ in
disparte, guardandosi intorno con curiosità.
Lei non era come quelle ragazze. Frequentava il St. James grazie a una
borsa di studio, non era ricca sfondata come le sue compagne. Viveva in
una piccola casa a Ithaca con Charlie, suo padre, che però era sempre
fuori per lavoro, non si vedevano spesso. Isabella poteva dire di
vivere da sola. Aveva una casa tutta per lei, praticamente nessun
amico, niente fidanzato ad aspettarla e niente mamma a prendersi cura
di lei. Lo aveva fatto prima che la malattia aveva avuto la meglio, ma
Isabella era allora molto piccola e non ricordava nulla di quei momenti.
Charlie non le era stato molto vicino: sua figlia somigliava troppo
alla moglie scomparsa, spesso non riusciva neanche a guardarla in
faccia nei weekend in cui tornava a casa.
Al richiamo della signorina Wilson tutte si affrettarono verso di lei,
e le guida cominciò a raccontare della costruzione della Casa Bianca.
Poi andarono a vedere le trenta statue del Campidoglio e infine
tornarono in giardino. La Wilson decise di fare l’appello lì, per non
perdere tempo una volta giunti al pullman, poi iniziò a marciare verso
il cancello da cui erano entrati.
Isabella si fermò qualche secondo per sistemarsi la gonna
dell’uniforme. E fu allora che Jane e Victoria ne approfittarono: le
afferrarono la borsa mentre le altre uscivano dal cancello, ignorando
il suo urlo di sorpresa, corsero nel punto più nascosto e lontano del
giardino e la lanciarono su un albero, con Isabella al seguito.
‹‹Cos’avete fatto?›› gridò,
terrea in volto, cercando di arrampicarsi sull’albero per recuperarla.
Le due risero forte, divertite, e poi corsero via raggiungendo la
classe.
Ci sono quasi… ci sono quasi…
‹‹Chi sei?››
Isabella mollò la presa dal ramo, spaventata, e cadde sull’erba fredda.
Sentì un rumore agghiacciante e un dolore lancinante alla caviglia
destra che la fece gemere. Sentì qualcuno inginocchiarsi accanto a lei,
ma aveva gli occhi pieni di lacrime e vedeva tutto sfocato.
Una mano le accarezzò piano la guancia. ‹‹Dove ti fa male?›› le chiese
la stessa voce di prima con delicatezza.
Probabilmente era una guardia che si chiedeva cosa stessa facendo lì.
Strano, poiché quando ne aveva avuto bisogno non ne aveva trovata
nessuna!
‹‹La… la caviglia›› mormorò mentre il dolore iniziava ad irradiarsi in
tutto il suo corpo, facendola sussultare.
Due dita fredde le sfiorarono la parte lesa e Isabella chiuse gli
occhi, il respiro accelerato, per schiarirsi la vista, e quando rialzò
lo sguardo ammutolì, temporaneamente dimentica del dolore.
Davanti a lei c’erano due occhi di un verde intenso incredibili.
Appartenevano a un volto pallido e bellissimo che aveva visto solo un
paio di volte in televisione o sui giornali, ma che era impossibile non
riconoscere.
‹‹Mi dispiace tanto di averti spaventata›› disse Edward Cullen,
osservandole la caviglia ‹‹credo ti si sia slogata la caviglia››.
Isabella si sforzò di sorridere, un po’ sotto shock. Tenendosi
saldamente al tronco dell’albero, riuscì ad alzarsi con molta fatica.
‹‹Mi scuso io per averti disturbato, non ne avevo intenzione››
sussurrò. Una lacrima le percorse la guancia, poi una seconda e
un’altra ancora. ‹‹T-ti giuro che me ne stavo andando, s-se non mi
credi puoi anche scortarmi al cancello, o… o chiedere a qualcuno di
farlo›› quasi singhiozzò.
Si alzò anche Edward e le si avvicinò, cauto, posandole le mani sui
fianchi, fingendo di non notare il sobbalzo di Isabella, e la prese in
braccio delicatamente iniziando a camminare verso la Casa.
‹‹Dove… dove mi stai portando?›› Isabella, intimorita, cominciò a
dimenarsi come un’anguilla. Che cosa
sta succedendo?
‹‹Ti porto a casa mia›› rispose lui come se niente fosse ‹‹non ti
lascio andare in giro così. A proposito, cosa facevi su un albero del
giardino?››.
‹‹Sono venuta in gita scolastica con la mia classe, che ormai sarà già
lontana›› sospirò, sperando di avere abbastanza soldi per prendere un
biglietto del pullman o del treno per tornare a casa ‹‹ma… due mie
compagne mi hanno fatto, ehm, uno scherzo e mi hanno lanciato la borsa
su un albero›› confessò con lo sguardo basso. ‹‹Era quella che cercavo
di riprendere quando mi hai trovata. Ora puoi lasciarmi andare, per
favore?›› gli chiese, tremando a causa del vento che si era appena
alzato.
‹‹Non puoi andare in giro così…››
‹‹Isabella››
‹‹Non puoi andare in giro così, Isabella›› nella voce di Edward c’era
una traccia di dolcezza che la confuse. Nessuno le parlava mai in quel
modo.
‹‹Ma io non posso entrare. E se incontriamo qualcuno?››
‹‹Ci sono solo mia madre e mia sorella Alice››
‹‹Solo?››
Lui diede una bassa risata, limitandosi a scuotere la testa con aria
divertita, non severa e contrariata come faceva la signorina Wilson, né
altezzosamente come la guardavano sempre le compagne di classe.
‹‹Perché ti preoccupi per me?›› gli domandò Isabella improvvisamente.
Edward aprì senza fatica una porta secondaria ed entrò in casa. ‹‹Non
dovrei?›› chiese in risposta con un mezzo sorriso.
‹‹N-non credo›› balbettò lei, arrossendo.
‹‹Perché?››
‹‹Beh, tu sei Edward Cullen. Io sono una tizia che se ne stava su un
albero nel giardino di casa tua, non mi conosci, non sai neanche chi
sono! Potrei essere chiunque!››
Lui la guardò, continuando a camminare, incatenando quegli occhi
splendidi a quelli anonimi di Isabella – come li considerava lei. In
realtà Edward, sin dal primo sguardo, aveva trovato i suoi grandi occhi
scuri assolutamente meravigliosi. Le sue guance rosse erano davvero
deliziose… ed era anche una ragazza molto graziosa, con i capelli
castani raccolti in una coda alta e la pelle candida come la neve.
‹‹Dove stiamo andando?››
‹‹Ti porto in camera mia, tu si siederai sul letto e starai ferma, in
modo che io possa andare a chiamare mia madre, che è un medico, e farti
fasciare la caviglia›› spiegò Edward come se niente fosse, aprendo
un’altra porta che conduceva alle sue stanze.
‹‹Wow›› bisbigliò Isabella, dimenticandosi di protestare, appena
entrarono.
‹‹Ti piace?››
‹‹E’ tutto tuo? Tu vivi qui?››
‹‹Sì, sto qui quando vengo a casa per il weekend. Per comodità ho un
appartamento vicino all’università, fare avanti e indietro ogni giorno
sarebbe impossibile›› spiegò, percorrendo il grande soggiorno in cui
erano entrati, varcando la soglia di un’immensa camera da letto.
‹‹Dove vai all’università? Harvard? Yale?››
Edward scosse la testa con un sorriso e la depositò sul letto con
delicatezza. ‹‹Vado alla Cornell, a Ithaca››.
‹‹Oh›› Isabella lo guardò sorpresa ‹‹io vivo a Ithaca›› disse,
osservando il pavimento lucido della stanza.
‹‹Davvero?!››
Lei annuì con un piccolo sorriso e guardò la caviglia che pulsava
dolorosamente.
‹‹Ti fa tanto male?››
‹‹Non tanto›› minimizzò Isabella, alzando le spalle.
‹‹Ah certo. Vado a chiamare mia madre e a prendere la tua borsa››
‹‹Non devi…›› non riuscì a terminare la frase che lui era già uscito
‹‹fare tutto questo per me›› concluse a bassa voce, e sospirò.
Edward riapparve una decina di minuti dopo con la borsa di Isabella e
una donna molto bella dai capelli color bronzo come i suoi con
un’espressione gentile sul viso, una valigetta in mano, che lo seguiva.
‹‹Mi dispiace›› esclamò Isabella appena entrarono ‹‹non… non volevo
creare tanto disturbo, mi dispiace tanto, ma Edward mi ha obbligata a
venire qui e io…››.
Esme Cullen sorrise con dolcezza, sedendosi accanto alla ragazza. ‹‹Non
preoccuparti, tesoro. Mi fai vedere la caviglia?››.
Isabella si tolse la scarpetta nera dell’uniforme e la signora Cullen
iniziò ad osservarla con attenzione. Edward si accomodò al lato
sinistro della ragazza. ‹‹Ti fa male?›› chiese dolcemente, accennando
alla caviglia che la madre stava visitando, riprendendo la domanda che
le aveva posto qualche minuto prima.
‹‹Un po’›› rispose lei questa volta, facendolo ridere, e arrossì.
‹‹Beh, Isabella, la tua caviglia è slogata›› disse la signora Cullen
iniziando a fasciargliela ‹‹ti raccomando il riposo, non forzare la
caviglia e non fare nessuna attività fisica, d’accordo?››.
Isabella annuì. ‹‹Ma certo. Grazie, grazie davvero›› sussurrò
imbarazzata, gli occhi bassi.
La donna le sorrise, le sfiorò la guancia e si congedò, lasciandola
sola con Edward.
‹‹Hai qualcuno che ti aspetta a casa? I tuoi genitori?›› domandò lui
appena la madre si chiuse la porta d’ingresso alle spalle.
‹‹No, p…››
‹‹Benissimo›› Edward fece un sorriso smagliante ‹‹allora rimani qui,
così posso controllarti››.
Isabella alzò la testa così rapidamente che si fece male al collo.
‹‹Che cosa?!›› quasi urlò, stupefatta, gli occhi spalancati.
‹‹Resti qui›› ripeté Edward, tranquillo.
‹‹M-ma io non posso…››
‹‹I tuoi genitori dove sono? Se posso chiederlo, naturalmente››
‹‹Mio padre è fuori per lavoro, torna tra un paio di settimane per il
weekend››
‹‹E tua madre?››
Isabella alzò le spalle. ‹‹E’ morta parecchi anni fa›› si limitò a dire.
Lui le sfiorò la mano, e poi, ripensandoci, la prese tra le sue,
stringendola. ‹‹Mi dispiace tanto›› mormorò. Non poteva immaginare un
dolore del genere, ma ci provò… strinse Isabella contro il suo corpo,
abbracciandola forte, e lei si lasciò andare sulla sua spalla. Dopo
qualche minuto di lacrime, iniziò a parlare. Gli raccontò della sua
infanzia, della voce di sua madre che le raccontava una storia ogni
sera prima di metterla a letto e rimboccarle le coperte;
dell’espressione di suo padre ogni volta che la guardava in viso, di
come era passata da una governante all’altra, del St. James, degli
scherzi di Jane e Victoria. Si svuotò completamente, e alla fine poggiò
il capo sulla sua spalla e chiuse gli occhi, un po’ stanca, mentre
Edward le accarezzava piano la schiena.
‹‹Devo andarmene››
Lui scosse con forza la testa. ‹‹No che non devi›› disse, e la strinse
più forte contro il suo corpo.
‹‹Edward, guarda in faccia alla realtà. Tu sei tu, mentre io… sono solo
io›› Isabella si staccò da lui, fissandolo negli occhi.
‹‹Siamo entrambi a Ithaca, non sarà difficile…io…››
‹‹Non sei tu›› abbassò lo sguardo ‹‹sono io. Non sono pronta, non è
tempo per noi e lo sai››.
‹‹Certo che lo so›› Edward sospirò, appoggiando le labbra ai suoi
capelli ‹‹ma in fondo la speranza è l’ultima a morire››.
Lei sorrise, accarezzandogli la guancia, poi con una certa fatica si
rimise in piedi.
‹‹Posso accompagnarti al cancello?›› le chiese Edward, aiutandola con
dolcezza.
‹‹Ma certo›› Isabella si voltò nel suo abbraccio e gli strinse le
braccia al collo delicatamente, rabbrividendo quando lui sospirò sul
suo collo. ‹‹Ma certo››.
Quel giorno il sole splendeva alto nel cielo, riscaldando il suo viso,
e un leggero venticello scompigliava i suoi capelli. Ormai era
primavera inoltrata, gli alberi e le piante di Washington Park erano
verdi e rigogliosi.
Costeggiò un laghetto in cui nuotava qualche anatra, i libri stretti al
petto, e svoltò in una piccola strada che portava a casa.
Si fermò all’improvviso, il cuore che batteva forte, stupita,
spalancando gli occhi. ‹‹E… e tu cosa fai qui?›› mormorò, a pochi passi
da lui.
Edward sorrise, le spalle appoggiate al cancelletto che consentiva
l’accesso alla piccola casa di Isabella. ‹‹Ti stavo aspettando››
rispose con semplicità. I suoi occhi erano molto più luminosi e
brillanti, risplendevano di felicità trattenuta.
‹‹Anche io››
sussurrò lei, non riuscendo a trattenere una lacrima. Erano passati tre
mesi dall’ultima volta che si erano visti – cioè dal loro “incontro”
durante quella gita scolastica di cui avrebbe sempre conservato il
ricordo. La scuola era finita da poco, lei era stata accettata
all’università a cui aveva fatto domanda e aveva iniziato a lavorare,
per riuscire a pagare la retta.
‹‹E quindi… adesso è tempo per noi?›› chiese Edward, avvicinandosi a
lei. Le sfiorò una guancia rossa con la punta delle dita, incredulo che
lei si trovasse realmente lì, con lui. ‹‹Mi sei mancata tanto››.
Isabella sospirò a quel contatto che sognava da tanti, troppi giorni.
‹‹Sì›› disse, la voce che le tremava ‹‹adesso è tempo per noi››. |