Titolo:
White walls
Summary:
Pareti bianche di un ospedale.
Pairing:
Sherlock/John
Words:
4526
Rating:
Arancione (perché,
gente, è troppo triste)
Disclaimers:
Well, well... here we are again. Non miei. Però, cavolo, che
pesantezza! >_>
Notes:
Ultimamente mi riesce solo roba
cupa e triste... Ci dovremmo forse preoccupare? Post TGG. Ispirato
alla 3x17 di Grey's
Anatomy.
Tiè
tiè. Il massimo della tristezza.
White
Walls
“Like
I said, disappearances happen.
Pains
go phantom.
Blood
stops running.
And
people... People fade away.”
(Grey's
Anatomy)
La parete dell'ospedale
era bianca. Insopportabilmente bianca. Sherlock avrebbe voluto
disegnarci sopra una faccina sorridente e sparare. Questa volta per
frustrazione.
Il silenzio era dello
stesso colore. Insopportabile silenzio bianco.
Impensabile dopo quel
botto. Non avrebbe mai immaginato che ci sarebbe stato tale silenzio
nella sua vita, di nuovo.
Era seduto nel
corridoio, le mani piene di fasce e cerotti in tasca, fissava il
vuoto.
Aveva nel suo campo
visivo Lestrade che camminava inquieto, in silenzio - anche se il suo
aveva il rumore bianco dei pensieri – oltre a una serie di
medici, infermieri, chirurghi e inservienti che passavano, incuranti
del fatto che il mondo, ovviamente, si era fermato.
Perché John
Watson lottava tra la vita e la morte: come poteva il mondo restare
indifferente?
Quando aveva aperto gli
occhi, dopo l'esplosione, l'aveva cercato con lo sguardo attorno a
lui. La piscina, aveva realizzato poco dopo. Aveva strisciato –
la gamba era bloccata e non riusciva a muoverla bene – fino al
bordo. Aveva urlato qualcosa, e senza neanche sapere come, si era
buttato in acqua. Lo aveva trovato subito, perché per fortuna
non erano nel Tamigi e la piscina non era così profonda.
Aiutandosi con il braccio libero e la gamba buona, lo aveva riportato
all'asciutto. Una volta fuori, gli aveva preso la testa fra le mani e
aveva urlato ancora. Aveva urlato finché Lestrade non l'aveva
portato via di peso, per lasciare fare ai paramedici il loro lavoro.
John aprì gli
occhi e cominciò a tossire. Cristo, tutta quell'acqua nei
polmoni!
Si mise seduto,
tornando a respirare normalmente. Stranamente non si sentiva
acciaccato. Eppure era sopravvissuto ad un'esplosione.
Si stropicciò
gli occhi. «Sherlock!» chiamò. Si guardò
intorno, e capì di essere a casa sua, nella sua stanza. Ma non
era possibile. Dopo un'esplosione del genere, era una specie di
miracolo che fossero vivi e incolumi.
Entrambi.
«Sherlock!»
urlò, alzandosi dal suo letto e scendendo le scale come un
forsennato, logorato dal dubbio.
Sulla soglia della sua
camera, si bloccò.
La figura che vide non
era Sherlock. Non gli somigliava nemmeno vagamente.
Lestrade gli lanciava
ogni tanto occhiate pensierose e preoccupate, come se volesse
accertarsi della sua permanenza su quella sedia.
Aveva tentato di
estorcere qualche tipo di informazione, una parola, un cenno. Niente.
«Sherlock,
quanto tempo è stato in acqua?»
«Non lo so!
Non lo so! Lasciami andare!»
Aveva protestato. Aveva
urlato. Aveva persino scalciato.
E poi, una volta
afferrato il concetto che non poteva stare accanto a John mentre lo
rianimavano, e di certo non poteva rianimarlo lui, si era
seduto ed era stato zitto.
Sherlock notò un
movimento strano da parte dell'ispettore e seguì il suo
sguardo per capire cosa lo preoccupasse tanto.
Alla sua destra vide
Mycroft percorrere il corridoio.
«Sherlock...»
mormorò Lestrade in tono d'avvertimento
Ma lui si era già
alzato e si era avviato a passi grandi e rabbiosi verso il fratello.
«Che ci fai qui?»
sibilò incazzato
Mycroft sospirò.
«John è anche amico mio, Sherlock.»
«No, ti sbagli.
Se lo fosse stato davvero avresti mandato i tuoi uomini in tempo!»
«Sherlock...»
«Il mio amico
è in quella stanza che sta rischiando la vita. E se morirà
sarà colpa tua. Sarà colpa tua!»
«Adesso
smettila.»
«Altrimenti che
fai? Lo dici alla Regina?»
«Basta,
Sherlock!» li interruppe Lestrade «Voi due dovreste
essere una famiglia.»
«Lui non ha mai
avuto una famiglia, Gregory.» disse Mycroft «Lui è
sempre stato solo.»
«Ti sbagli,
Mycroft. Io non sono più solo.»
«Professore?»
Quello che stava nel
salotto del 221B era un uomo tarchiato, sulla sessantina, quasi del
tutto calvo, con gli occhiali rotondi e l'aria bonaria. (1)
«John. Sei
cresciuto.» disse sorridendogli.
«Professore, ma
lei...»
«Sì, lo
so. Sono morto. Anni fa. E non sono il solo.» aggiunse
indicando un punto imprecisato dietro di lui.
John si voltò e
vide qualcun altro che gli sorrideva.
«Joe!»
Aveva i capelli corti e
indossava una divisa militare, la stessa che indossava John quando
era in Afghanistan.
«Amico, ti
chiederei come stai ma sarebbe inutile.»
John li guardò
entrambi.
«Quindi, io
sono... morto?»
«Perché
l'hai trattato in quel modo?» chiese Lestrade.
«Se lo meritava.»
mormorò Sherlock
L'ispettore sospirò
distogliendo lo sguardo da lui e puntandolo su qualcun altro che si
stava avvicinando.
Corse incontro al
dottore, il camice bianco come il silenzio, e Sherlock lo seguì.
«Non va bene...»
«Come sta? E'
ancora cianotico? Qual era la temperatura iniziale? Ma quanto ci
vuole?»
«Mr Holmes. Non
va bene.» ripeté il dottore interrompendolo «Stanno
facendo il possibile. Forse dovreste... prepararvi al peggio.»
Un silenzio tombale
accolse la notizia, e, mentre Lestrade si passava una mano in faccia,
lui decise che non era una risposta sufficiente.
«Sì, ma
qual è la situazione? Insomma, che stanno facendo di possibile
lì dentro?»
«Adesso la
temperatura è a trenta gradi. Stiamo cercando di alzarla per
riattivare il cuore.»
«Il cuore...
significa che non c'è reattività? Neanche una
fibrillazione?»
«Stiamo facendo
il possibile, mr Holmes.» disse ancora una volta «Mi
scusi, devo tornare dentro.» aggiunse e se ne andò.
Sherlock lo guardò
allontanarsi ed ebbe voglia di urlare. Invece stette fermo, immobile,
e in silenzio, e lasciò che fossero le sue viscere ad urlare.
Tutto quello che riuscì
a fare fu scuotere la testa, sotto gli occhi allibiti di Lestrade.
«No.»
«Come?»
«No. Io non mi
preparo, al peggio.»
«Sherlock...»
«Non ho
intenzione di arrendermi. E neanche John lo farà. Lui
sopravviverà e basta.»
Fece dietrofront,
ignorando Lestrade che lo chiamava e gli chiedeva dove diavolo stesse
andando.
John era seduto sul
divano e guardava prima l'uno e poi l'altro.
Il suo vecchio
professore di Scienze, che era stato un vero e proprio mentore per
lui, era morto al suo penultimo anno. Per lui era stato come perdere
un padre.
Joe era stato un suo
compagno d'armi. Una bomba se l'era portato via e lui non aveva
potuto fare niente.
In entrambi i casi si
era sentito debole e impotente.
«E'
terrorizzato.»
«Non è
terrorizzato.»
«Sì che lo
è. Chiunque lo sarebbe.»
«Beh, lui no.
Siamo stati in Afghanistan insieme. Non ha paura di niente, il dottor
Watson.»
«Scusate.»
li interruppe «Io avrei alcune domande.»
Il professore lo guardò
sorridente. «Chiedi pure, Watson.»
«Innanzitutto,
vorrei sapere dov'è Sherlock. Lui non...»
«No, sta bene.
Non preoccuparti.»
John annuì
rincuorato. «Bene. E... questo... voi due, siete un effetto
della cheta-mina e dei neurotrasmettitori, vero?»
I due si guardarono e
scossero la testa.
«Perché se
è il mio cervello, senza offesa, il primo che vorrei rivedere
è-»
Non ebbe bisogno di
dire altro che un bulldog gli saltò in braccio facendogli le
feste.
«Gladstone!»
(2)
Il suo vecchio cane
scodinzolava frenetico in cerca di coccole. Era morto mentre lui era
al college e non aveva mai potuto dirgli veramente addio.
«John, ehm... Sei
affogato nella piscina dopo l'esplosione, ricordi?» fece il suo
insegnante
«Sì, che
schifo.» rispose lui senza badargli «Chi è il cane
più bello del mondo, eh?» aggiunse accarezzando
Gladstone.
«Ci vorrà
un po' di tempo...» commentò sottovoce il prof.
«Non ha molto
tempo.» disse Joe
Le pareti della casa
erano del solito colore. Ma a Sherlock sembravano spoglie. Vuote,
silenziose. Bianche.
Perché era
tornato lì? Forse per avvertire ancora la presenza della sua
persona.
Sherlock si guardò
intorno. Tutto era decisamente troppo in ordine.
Cominciò a
buttare tutti i libri per terra. Poi i soprammobili. Un paio si
ruppero. Prese la pistola e la puntò al muro.
«Sherlock.»
Si voltò. Era
Mrs Hudson.
«Cerca di non
rompere tutto. Al dottore potrebbe dispiacere.» disse con voce
flebile e triste.
Sherlock annuì.
Era vero. A John sarebbe dispiaciuto tornare a casa e trovarla un
casino.
Posò la pistola
sul tavolino e piano raccolse i libri da terra. Forse quelle pareti
non sarebbero state bianche per sempre.
Entrò nella
stanza di John e aprì il cassetto dove lui teneva i maglioni.
Prese quello a righe e lo strinse. Il profumo di John lo invase e,
mai come in quel momento, seppe di essere perduto senza il suo
blogger.
«John. John!»
Lui alzò lo
sguardo da Gladstone e, sedutagli accanto, John vide una ragazzina
dai lunghi capelli rosso fiamma che lo scrutava. Riconobbe subito
anche lei.
«Bonnie! Bonnie
Baxter! Cosa ci fai qui?» (3)
«Ti ricordi di
me? Com'è possibile?» sorrise lei
«Eri una paziente
molto importante per lui.» disse Joe
Bonnie era stata la
prima paziente che aveva perso, mentre era tirocinante in ospedale.
Una brutta storia. Era giovane, bella, e avrebbe dovuto sposarsi di
lì a poco. E invece era morta.
«Ma mi spiegate
perché siete tutti qui?»
«Sei stato tu a
chiamarci, John.» rispose Joe
«Cosa? No, non è
vero. Io-»
«Cos'è
successo in acqua, John?» chiese il professore.
Sherlock ripercorreva
il corridoio, in ospedale, avanti e indietro, facendo girare gli
occhi a Harry.
Non aveva avuto il
coraggio di chiamarla lui, così l'aveva fatto Lestrade e lei
si era precipitata. Era distrutta. Sherlock lo vedeva dai capelli
raccolti male, dallo sguardo spento e dai vestiti poco curati.
«Potresti
smetterla, per favore?» sbottò lei
«Non riesco a
stare fermo!» disse lui «E' là dentro da... non so
neanche quanto tempo.»
«Adesso quelli si
stanno occupando del mio fratellino.» disse lei pensierosa «Non
ti tranquillizza neanche un po'?»
«Mi fa solo
infuriare di più. Ecco perché vado avanti e indietro!»
Lei fece una mezza
risata che gli ricordò un po' John.
«Voglio
raccontarti una cosa.» disse alzando lo sguardo «Però
devi sederti.»
«Gladstone, dove
sei?»
John non riusciva più
a trovare il suo cane e lo stava cercando dappertutto.
«John, smettila
di fare così. Non c'è tempo.» insisteva il suo
insegnante «Tu non hai tempo, e nemmeno noi.»
«Signore, con
tutto il rispetto, sono solo annegato.» disse
Era vero, non gli
sembrava un così grande problema. Era morto, e allora?
«John, per favore
ci devi ascoltare!» lo sgridò Bonnie. Poi si bloccò
e la sua pancia cominciò a sanguinare. «Oh no...»
Cadde a terra tremando
e John la soccorse. Era proprio così che era morta. Le scoprì
la pancia e le sue mani furono invase dal suo sangue. «Non
riesco a trovare l'origine dell'emorragia!»
«Succederà
ancora John.» disse Joe «E' già successo.»
«No! Io posso
salvarla! Posso farlo!»
Le mani toccarono
qualcosa di freddo. Il pavimento. Bonnie era sparita e le sue mani
non erano più sporche di sangue. Si guardò intorno.
Tutti erano spariti.
«John.»
Alzò lo sguardo
verso la voce amica del suo mentore.
«Cos'è
successo?»
«Perché
non torni a casa, Harry?»
«E la storia?»
disse lei
«Me la puoi
raccontare quando torni.»
«Non sei
curioso?»
«Posso
aspettare.» (4)
Lei si alzò.
Sembrava stanchissima. «Se ci sono novità...»
«Ti avviso
subito.»
Harry annuì e si
avviò per il corridoio. Prima di uscire si fermò e si
voltò verso di lui.
«E smettila di
logorarti l'anima. Tu non c'entri niente.» disse e se ne andò.
Dall'altro lato,
Sherlock sentì il passo di Lestrade che aveva portato due
caffè. Non era molto, e di certo lui non aveva bisogno di
quello per essere sveglio.
«Ancora niente?»
chiese il DI
«No.»
«Cazzo.»
Sherlock guardò
il maglione che si era portato appresso.
«Lestrade. Credo
di aver omesso un particolare con Harry Watson.»
«Quindi potete
comparire e scomparire a vostro piacimento! Giusto per farmi
confondere di più le idee!» esclamò John
«Cos'è
successo in acqua, John?» insisteva il prof.
«Cosa vuole che
sia successo? Sono affogato! Tutto qui!»
«Sei tu che
insisti col dire che sei affogato.» intervenne Joe «Secondo
te perché siamo qui? E da quando hai cominciato ad arrenderti
così facilmente? Non ricordi com'eri in Afghanistan?»
«L'Afghanistan
non c'entra niente. E poi tu credi che mi vada di stare qui?»
ribatté John piccato «Ho lottato. Ho nuotato. L'acqua
era ghiacciata. L'edificio era esploso. Io ero ferito.»
«Se ripenso alla
tua reputazione al liceo...» ricordò il professore
«Ancora prima di entrarci già ti conoscevano tutti come
“il fratellino di Harrieth Watson”!»
«Questa cosa non
riguarda Harrieth Watson.»
«Però
riguarda Sherlock Holmes.»
John lo guardò
sconvolto. «E lei come- Oddio, non importa! Non voglio
saperlo!»
«John, so che hai
passato delle cose orribili, ma io non ti ho insegnato ad essere un
medico con così poco rispetto per la vita! Quindi smettila di
essere contento di essere morto e ascoltami!»
John non sentiva quel
tono serio e amareggiato da quando aveva diciassette anni e si sentì
di nuovo un ragazzino.
«Dicci cos'è
successo in acqua.»
«Sherlock, cos'è
che non hai detto alla sorella di John?»
Lui sospirò. «E'
colpa mia.» sussurrò
«Cosa?»
«E' colpa mia.»
ripeté «Niente di tutto questo sarebbe successo se non
fosse stato per me.»
«Che dici?»
«Non sarebbe mai
dovuto venire a vivere con me. Non avrebbe mai dovuto conoscermi. Non
sarebbe mai stato coinvolto in tutto questo. Moriarty... La mafia
cinese...»
«Adesso calmati.
Tu non hai costretto nessuno a fare niente. E' sempre stata una sua
scelta.»
«Vivere con me è
impossibile... Ci stavamo allontanando... Dovevo capirlo...»
«Adesso mi
spieghi cosa c'entra questo? Capire cosa?»
«Lui sa nuotare.»
Lestrade si fermò
e lo guardò, gli occhi spalancati.
«Cosa?»
ripeté
«Lui sa nuotare.»
sibilò ancora Sherlock, come se avesse confessato il peggiore
dei crimini. «Nuota molto bene.»
Finalmente Lestrade
comprese, e lasciò che l'orrore gli invadesse la mente e il
corpo.
«Tu... Tu credi
che si sia lasciato affogare?»
Sherlock non rispose,
ma si alzò e distolse lo sguardo.
«E' questo che
non hai detto a Harry? Credi che suo fratello abbia tentato il
suicidio?»
Non riusciva neanche a
concepire una cosa del genere. Il dottore non avrebbe mai...
«E' colpa mia, ha
ragione Mycroft...» mormorò Sherlock, come se avesse
preso atto di qualcosa. E sarebbe stato difficile fargli cambiare
idea, impresa nella quale riusciva solo una persona, la stessa per
cui i medici stavano facendo il possibile.
Adesso era Sherlock che
stava affogando e lui non aveva intenzione di permetterglielo.
«No, non ha
ragione Mycroft! Ascolta.» Lo prese per le spalle,
costringendolo a guardarlo «Non devi perdere la lucidità.
Non adesso. Devi restare calmo e riflettere. Non puoi permetterti di
mollare ora! Non puoi pensare che davvero lui-»
«E perché
no?» disse con rabbia
«John non avrebbe
mai, e ripeto mai, fatto una cosa del genere, e tu dovresti
saperlo meglio di me! Hai capito, Sherlock? Mai!»
John era seduto per
terra, con le spalle al divano, lo sguardo timoroso di chi ha
qualcosa da nascondere, e il suo vecchio professore di fronte a lui.
«Io stavo
nuotando.» raccontò sottovoce «Io stavo lottando.
Davvero. E l'acqua era davvero ghiacciata. E in effetti, ero ferito.
Poi, ho visto...»
Il suo mentore annuì,
incitandolo a continuare.
«Ho visto
Sherlock. Era piano di sangue. Io... ho avuto paura. E giuro che
volevo continuare a nuotare, a lottare, ma ho pensato, solo per un
secondo... A che scopo? E ho mollato. Ho smesso di lottare.»
Sopirò
coprendosi il viso con le mani, vergognandosi profondamente. «Non
lo dica a nessuno, signore.»
«Non ne avevo
intenzione, John.»
«A scuola avevano
torto. Io non sono mai stato “il fratellino di Harrieth
Watson”.» disse «Io non sono forte come lei.»
«Non sai quanto
ti sbagli, John. La verità è che hai paura. Per questo
vuoi restare qui.»
«Io non voglio!»
ribatté
«Sì,
invece. E' più facile. Però non puoi.»
«Signore, non
riesco a capire... Io non sono così importante, ci sono
milioni di John Watson al mondo... A che scopo?»
«Vuoi sapere da
me per quale scopo dovresti vivere, John? Non posso certo dirtelo
io!»
«Lei ha sempre
avuto risposte per tutto.» sentenziò grave «Se non
lo sa lei, vuol dire che non esiste.»
Era vero. Era sempre
stato così. Il suo vecchio professore non era stato solo un
uomo dalla vastissima cultura, ma anche un ottimo insegnante, perché
riusciva a fare in modo che rispondessi da solo alle tue domande,
proteggendoti dalle insidie delle risposte sbagliate con un sorriso
paterno e mai denigratorio.
«Ti ringrazio per
la fiducia, John.» disse lui
Si sporse verso di lui,
e lo scrutò a fondo, al di sopra degli occhiali rotondi, come
era solito fare da vivo, e John seppe che stava per subire lo stesso
trattamento che riceveva quando gli rivolgeva delle domande dall'aria
incomprensibile.
«Ti dico un'altra
cosa, invece. Ti dirò perché non puoi restare qui, che
è un po' diverso.»
John non fece in tempo
a controbattere che lui cominciò a elencare, con un tono che
non ammetteva repliche.
«Non puoi perché
Sherlock ha bisogno di te. Ha bisogno di te, solo di te, perché
tu sei l'unica persona al mondo che può stargli vicino. Perché
suo padre si è tolto la vita quando era un adolescente, e tu
sei l'unico contatto su cui Mycroft può fare affidamento per
avere sue notizie. E Harry? Harry è così fragile e
vulnerabile, e tu sei il suo solo punto di riferimento. Lestrade?
Senza di te, non potrebbe nemmeno più avvicinarsi a Sherlock,
perché sarà così cambiato che smetterà
persino di indagare. Sopravvivono tutti a stento, John. E la tua
morte li annienterà!»
John ritrasse le
ginocchia al petto e vi appoggiò la fronte, sentendosi di
nuovo il liceale timido e insicuro che era stato. Che era ancora.
«Sto facendo un
casino, eh?»
«Sei solo
confuso.»
«Perché
io? Perché non qualcun altro? Perché tutte queste
responsabilità, tutte su di me?» gridò John,
disperato
«Perché
qualcun altro non va bene. Dici che esistono milioni di John Watson
al mondo. Fidati: ne esiste un solo uno, per queste persone.»
Calò un
silenzio. Il silenzio bianco dei pensieri. All'improvviso, il suo
vecchio insegnante chiuse gli occhi e sorrise.
«Cosa c'è,
signore?»
«Mia moglie.»
«Riesce a
vederla?»
«No, ma a volte
siamo nello stesso posto nello stesso momento. Riesco quasi a sentire
la sua voce. E' come se la toccassi. Mi piace credere che lei mi
senta lì.» Aprì gli occhi e lo guardò. «E'
questo che avrai, John. Momenti. Pochi momenti con le persone che
ami. Loro andranno avanti e tu vorrai che vadano avanti. Però,
John, è l'unica cosa che avrai.»
«Signore... Sta
succedendo davvero? O è solo nella mia testa?»
«Questo non
significa che non stia succedendo davvero.» (5)
Un battito di ciglia e
sparì. In un attimo attorno a lui cominciò a scorrere
acqua e John ricordò.
Stava nuotando.
Stava lottando. L'acqua era ghiacciata. Gli bruciava dappertutto.
Risalì e vide Sherlock non molto lontano dal bordo. Era a
terra, pieno di sangue. Affondò di nuovo. Sapeva che doveva
risalire, o almeno provarci. Ma... Era sparito. Sentì le forze
che gli mancavano, e si abbandonò alla corrente. L'acqua
s'infilò nelle narici e poi nei polmoni. Stava...
John si alzò di
scatto. No. Non sarebbe morto. Non oggi.
Sherlock teneva la
testa poggiata al vetro. Intravedeva delle figure affaccendarsi
intorno a quello che probabilmente era John.
«Io non sono mai
stato bravo a prendermi cura delle persone.» disse «Non
sono mai stato in grado di far crescere una pianta, figuriamoci! Io
so vedere se le persone mentono, so carpire la vita di una persona
soltanto guardandola. So risolvere crimini così velocemente da
rendere inutile tutta Scotland Yard.»
Lestrade annuì,
consapevole.
«Però, non
sono capace di prendermene cura. E non sono stato capace di salvare
John. Né di prendermi cura di lui.»
«Sherlock, sei
umano. Non potevi fare niente più di quanto-»
«Ha ragione
Mycroft.» lo interruppe cupo «Io sono sempre stato solo.
E dovrei rimanerci.»
«Sherlock...»
Lui non gli badò,
e gli passò davanti. Ma stavolta Lestrade non si fece fregare.
Si alzò e gli prese un braccio.
«Sherlock. Dove
stai andando?»
«Non posso stare
qui.» disse atono «Lasciami!»
Liberò il
braccio e sparì oltre il muro bianco, portandosi dietro il
maglione a righe.
«Devo tornare
indietro!» urlò John
«Te l'avevamo
detto che non c'era molto tempo.» disse Joe
«Non ho più
tempo?!»
No, no, no! Per
favore, no!
«Beh...»
esitò Bonnie guardando gli altri due «Non ne siamo
sicuri...»
«Oddio!»
John cominciò ad
andare nel panico. Sentì l'aria che gli mancava. L'asma...
quando era piccolo...
«Io... Io avevo
dei problemi... Avevo dei problemi con Sherlock, con mia sorella...»
«Già.»
annuì il vecchio professore
«Non sapete
quanto mi sembrino stupidi adesso!»
«Lo so.»
annuì il suo vecchio compagno d'armi
«Non mi basta
qualche momento con Sherlock! O con Harry!» realizzò,
sputandolo fuori con quel poco fiato che gli rimaneva in corpo «Io
devo tornare indietro!»
Sherlock era seduto in
silenzio al tavolo davanti la finestra, da Angelo. Il loro solito
tavolo.
Angelo doveva aver
intuito che qualcosa non andava, vedendolo arrivare senza John, ma
solo con una sua maglietta.
Non c'era nessuna
candela romantica stavolta.
«Sapevo che ti
avrei trovato qui.»
Sherlock si voltò,
anche se aveva riconosciuto la voce.
«Che cosa vuoi,
Mycroft?»
«Voglio sapere
perché non sei in ospedale. Con John.»
«Dovresti
conoscermi, Mycroft. Io prendo le distanze.»
«Non con John.
Hai una responsabilità verso di lui.»
«Bella
responsabilità.»
«Hai due
possibilità.» disse il più grande sedendosi «Puoi
stare qui a compiangerti per quello che hai fatto o non fatto per
lui, oppure muovere il tuo deretano senza considerazione ed essere lì
con lui, qualsiasi cosa accada.»
«Io non ce la
faccio, Mycroft!» sibilò Sherlock tra i denti «Non
posso, non posso tornare lì e vederlo mentre...»
«Non stiamo
parlando di te. Stiamo parlando di John, l'uomo che tu asserisci
essere la tua persona, e se tu stai seduto qui mentre lui
muore so per certo che non ti riprenderesti mai. Per una volta nella
vita, Sherlock, ascoltami. Vieni a dire addio alla tua persona.»
Mycroft si alzò
senza aspettare risposta e se ne andò.
«Non... non
riesco a respirare...» boccheggiò John
«Succede sempre,
all'inizio. Passerà.» disse Joe
«Lascia andare,
John.» mormorò Bonnie «Lascia andare.»
«A che
temperatura siamo?»
«Trentasei gradi,
capo.»
«Quindi è
caldo.»
«Sì,
capo...»
«Il pacemaker
esterno?»
«Non è
efficace.»
«E' morto.»
«Non respiro. E'
l'asma. Quando ero piccolo, io...»
Sentiva i polmoni che
si accartocciavano. L'aria striminzita. La gola che gli bruciava e lo
strozzava.
«E' troppo tardi,
John.»
«Non voglio...
Non voglio!»
La porta della sala si
aprì.
«Mr Holmes...»
«Chi l'ha fatto
entrare?»
Lestrade lo seguì,
ma lui non ci badò. Per la prima volta dopo ore –
giorni, settimane, mesi, forse anni – riuscì a vederlo
bene.
Il suo amico era steso,
un tubo nella gola, e altri sparsi un po' ovunque, pallido come non
l'aveva mai visto.
Due macchine attaccate
a lui sentenziavano il suo fatale ritardo.
John si fermò.
Sentì qualcosa.
Una sensazione
piacevole.
Era la prima da quando
si era svegliato. E non ebbe più bisogno di respirare.
Lestrade sulla soglia
non sapeva cosa fare.
Sherlock lo guardava in
silenzio. Un silenzio che nella sua bocca faceva paura. Si avvicinò
a John, colmo di una sensazione che non riusciva a trovare nome.
Abbassò lo
sguardo, appoggiò il maglione sulla coperta e gli prese i
piedi.
John chiuse gli occhi.
Sorrise suo malgrado. Diede un nome a quella sensazione.
«John, cosa
succede?»
Era la voce del suo
insegnante, ma non si fece distrarre.
«E' Sherlock. E'
qui, con me. Riesco quasi a sentire la sua voce.»
«Provate ancora.»
I chirurghi lo
guardavano e guardavano Lestrade, che non sapeva cosa fare o dire.
Sherlock lo sapeva.
Sapeva che John non poteva essere morto. Non poteva morire.
Non doveva.
«E' come se lo
toccassi.»
«Provate ancora!»
gridò
«Fate come dice.»
ordinò l'ispettore, forse l'ordine migliore che potesse dare
in tutta la sua carriera.
John aprì gli
occhi, e seppe cosa doveva fare.
Sott'occhio, vide
un'ombra nella cucina. Si diresse verso la stanza ed era lì.
L'ultima persona che si aspettava di vedere.
«Papà.»
(6)
«Somministriamo
un altro giro completo.» disse il dottore, quello con cui
avevano parlato prima «L'ultimo.»
«Non t'azzardare
a morire.» sussurrò Sherlock stringendo la presa.
Suo padre lo guardava,
come non l'aveva mai guardato, seduto al tavolo.
Se lo ricordava poco.
Non ricordava che avesse i capelli castano scuro, i baffi e gli occhi
color miele come quelli di Harry, anche se avevano la dolcezza dei
suoi.
«Tu non dovresti
essere qui.» disse lui, con una voce che gli tornò
familiare.
«Neanche tu.»
rispose incerto.
«Io sono qui per
te.»
Si alzò e lo
abbracciò. Non l'aveva mai fatto. Non che lui ricordasse.
«Vai avanti così.
Stai andando bene.»
Lo lasciò andare
e John seppe esattamente dove.
Diede un ultimo sguardo
ai suoi fantasmi, consapevole che non l'avrebbero lasciato mai, che
lo guardavano benevoli e gli sorridevano.
«Corri, Watson.»
gli disse il suo professore
E fu quello che John
fece. Corse giù per i gradini del 221B, Baker Street, e
spalancò la porta, immergendosi in un bianco totale e
meraviglioso.
La macchina a cui era
attaccato John cambiò musica.
Quel rumore continuo
diventò intermittente.
«Bradicardia
sinusale!» esclamò un chirurgo
«Abbiamo un
battito?» chiese il capo
Un altro lo auscultò,
e annuì. «Lo abbiamo.» confermò
Lestrade buttò
fuori tutta l'aria trattenuta e sorridendo si avvicinò a
Sherlock, tenendogli la spalla.
«E' vivo! E'
vivo!»
Sherlock non poté
fare a meno di sorridere.
«Vado ad avvisare
Harry.» disse il DI e uscì, felice e sollevato come mai
in vita sua.
I dottori tolsero i
vari tubi dal corpo di John, compreso quello per respirare.
Respirava da solo.
«Capo, è
passato molto tempo, abbiamo funzionalità celebrale?»
s'informò uno di loro
«Non ancora...Ma
ormai non mi stupisco più di niente.»
I medici uscirono, non
senza prima aver lanciato un'occhiata a Sherlock, come per vedere
quale trucco nascondeva.
Lui non lo lasciò
e rimase lì a fissarlo per una manciata di minuti.
«Mhn... uhm...»
Era John. Era stato
lui.
Si avvicinò
immediatamente e alzò le mani, quasi a incorniciargli il viso.
«Hai detto
qualcosa? Per caso hai parlato?» sussurrò
«Mngh...»
«John... John,
non capisco. Riprova.»
Voleva toccarlo, ma
aveva paura. Sembrava così fragile. Era ancora pallido.
Bianco.
Il suo amico mosse un
altro po' le labbra ma non ne uscì alcun suono.
«Cosa? Io non...»
Sherlock si sentì
di nuovo sperso, il panico che gli inondava le vene. L'acqua nei
polmoni, e si sentiva affogare.
Fece leva su se stesso
per non perdere ancora la lucidità. Gli era capitato troppe
volte nelle ultime ore. Ma adesso basta. Chiuse gli occhi e riprese
fiato, le labbra strette in un moto di rabbia. Prese la testa di John
tra le mani.
«Il tuo cervello
funziona.» disse fermo «Tutto quello che devi fare è
comporre una parola. Fallo, John. Ti prego.»
Le labbra del dottore
si schiusero per un breve momento.
«Ouch...»
Aveva sussurrato. Aveva
parlato. E come se non bastasse,lentamente, molto lentamente, il suo
amico aprì gli occhi.
Sherlock sentì
che sarebbe potuto scoppiare dalla felicità. Spalancò
gli occhi e la bocca, non sapendo bene cosa dire. Semplicemente
sorridendo come un ebete.
«John... Io...»
balbettò «Io ho rotto un soprammobile. Quello che ci
aveva regalato Mycroft. Non che questo debba essere uno dei tuoi
pensieri principali, ma te lo dico nel caso poi cada nel
dimenticatoio.»
John aveva continuato a
guardarlo – l'aveva messo a fuoco! - e piano piano aveva
sorriso.
«Tu sei l'unica
persona a cui volevo dirlo.» mormorò, non riuscendo a
staccargli gli occhi da dosso. Si abbassò finché non
appoggiò la sua fronte contro quella di John. «Grazie
per non essere morto.»
Le pareti non erano più
bianche. Erano azzurre. Come gli occhi aperti di John.
Non sarebbero state
bianche per un bel pezzo.
Notes, again.
Allora, niente. Angst.
Direi che è tutto dire.
Guardatevi la 3x17 di
Grey's Anatomy e capirete. Ho una serie di precisazioni da
fare.
Innanzitutto vorrei
dire che ci ho buttato il sangue su questa, quindi andateci piano.
Il nucleo principale
della storia nasce di questi tempi un anno fa, circa. Poi l'ho
ripreso in tempi recenti e l'ho integrato con un'altra idea che mi
era venuta guardando la puntata suddetta. Mi spiegherò meglio
più avanti. Inoltre volevo precisare che inizialmente non
volevo metterla
post-esplosione/annegamento/ospedale/whateverhappensafterTGG, ma poi
ci ho ripensato. Capita.
Cominciamo: (1) Lui è
la ragione di tutto. E' il motivo per cui volevo pubblicarlo in tempi
stretti e per cui ho lavorato tanto. La data era 11/10 e il motivo
era poco piacevole. Vedete, il mentore di John è una persona
realmente esistita. Si chiamava Professore Modesto Sasso, ed era il
mio insegnante di Letteratura Greca. Lo è stato fino al mio
penultimo anno. Se l'ho messo lì ci sarà una ragione,
no? (2) Questo meraviglioso esserino non credo di dover spiegare chi
sia! Lo conosciamo tutti, e mi sembrava doveroso metterlo qui! Dà
un tono puccioso alla fanfic! (3) Bonnie è il nome della
paziente di Meredith, ma la descrizione è quella dell'attrice
omonima che interpreta Ginny nei film di Harry Potter. Baxter
è il nome del cane del Dr Kelso in Scrubs e davvero non
so perché mi sia venuto in mente! Inoltre volevo usare questo
spazietto per parlare di Joe, il terzo fantasma. Che nome dimmerda è
Joe, direte voi? La verità è che stavo ascoltando Hey
Joe di Jimi e quindi l'ho usato! (4) La storia che Harry vuole
raccontare non me la sono persa per strada, come potrebbe sembrare.
E' solo che ho ritenuto giusto tenerla dove avevo già
predisposto fosse, ossia in un'altra faccenduola, dove si charirà
anche il riferimento al “fratellino di Harrieth Watson”.
Pazientate, gente. Pazientate. (5) Citazione spudorata delle ultime
due battute di un dialogo tra Harry e Silente nell'ultimo libro. Non
ho avuto modo di controllarla ma più o meno dovrebbe essere
così. (6) Eccolo là. Papà Watson. Meredith vede
la madre che sta morendo, ma vabbeh troppa sadness se gli ammazzavo
pure la mamma! E che è! E' chiaro che lui non se lo ricorda
quasi per niente, e questo è dovuto alla mia piccola teoria
sui papà dei nostri eroi... Esatto, anche per questo dovrete
pazientare un po'. Perché sono una stronza.
I pezzi tecnico-medici
li ho ripresi proprio pari pari, perché non avevo idea di che
diamine stessero parlando. Altre cose ci stavano bene, mi sembravano
IC, e le ho lasciate. Erano belle cose da dire.
La citazione iniziale è
della 3x16.
Grazie a rosmy90
perché ha betato (come al solito!), e insistito affinché
non tenessi questa cosa solo per me, come volevo inizialmente fare.
C'è molto di me qui dentro. Moltissimo.
A Meredith. E' la mia
persona. ♥
A Modesto.
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