.Nightmare.
« Noooo!
»
Si
svegliò di scatto, urlando quella parola con tutto il fiato
che aveva in
gola.
Seduto sul letto ansimava, stringendo il bordo della coperta tra le
bianche mani
sudate.
Il sogno da cui era appena sfuggito continuava a mostrarsi nella sua
testa.
Sempre quelle solite immagini nere di morte che si seguivano come in
una
vecchia pellicola.
Quel corpo sconosciuto disteso sul
pavimento.
Gli occhi azzurri sbarrati che lo fissavano ancora con terrore.
Le sue mani pallide coperte di sangue caldo.
“Non può succedere davvero.
Era solo un sogno, solo e solamente un sogno. “
Continuava a ripeterselo tra se e se come un infantile filastrocca,
dandosi dello
stupido per aver pensato anche solo per un misero attimo che quelle
scene di
inumana follia potessero avverarsi.
Scuotendo
con decisione il capo si convinse ad abbandonare il letto, iniziando
con falsa
decisione la giornata con la speranza di dimenticare ciò che
la sua mente aveva
autonomamente elaborato nella notte.
Dopo
un quarto d’ora però ancora si aggirava per la
casa con una faccia
stravolta, quel maledetto incubo gli aveva già rovinato
tutto, non sarebbe
riuscito a farci nulla.
Rassegnato
si avviò strascinando i piedi verso la cucina, preparando
con fin
troppa calma la colazione, magari con quella qualcosa sarebbe cambiato,
anche
se ne dubitava.
Intanto
che l’acqua per il tè stava a bollire sul fuoco
lui continuava a muoversi
come un fantasma tra le varie stanze, recuperando prima i vestiti, poi
le
scarpe, poi la borsa, dimenticando sempre qualcosa di importante.
Mezz’ora
dopo la situazione si poteva dire migliorata, non era più in
pigiama,
aveva riempito lo stomaco con il tè caldo e un paio di
biscotti presi al volo
da un armadietto scolorito della semplice cucina ed era quindi pronto
ad uscire
nella sua fredda, amata Londra.
Ovviamente
aveva accuratamente evitato lo specchio per tutto il tempo, conscio di
avere sotto gli
occhi delle occhiaie tremende che gli avrebbero probabilmente donato
battutine
idiote da parte dei suoi altrettanto idioti colleghi una volta che li
avrebbe sfortunatamente incontrati.
Il
rumore dei passi nelle piccole pozzanghere sul marciapiede era
solitamente
per lui molto rilassante, ma nemmeno quello era riuscito a fargli
passar di
mente quel maledetto sogno, e invano aveva tentato anche con la musica
sparata
nelle orecchie mentre la metro sovraffollata lo portava al lavoro,
forse l’unica cosa che
avrebbe avuto un effetto in qualche modo benefico sarebbero state le
idiozie e
i problemi che caratterizzavano ogni giorno nell’ufficio, ci
sperava.
Quando
la metro fermò un mare di gente diversa ne uscì,
uomini e donne spingendo
una contro l’altra per scappare il prima possibile dal tunnel
si scontravano
lungo le scale, nessuno prestava attenzione al suo vicino e lo stesso
faceva
Arthur, ancora troppo coinvolto dal suo principale problema della
mattinata.
Continuando
però a guardare verso i suoi piedi, prestando giusto
quell’attenzione necessaria a non cadere, non notò
una faccia che si
distingueva nella grigia folla londinese,
un viso diverso,
contornato da capelli biondi dalla piega morbida, occhi azzurri,
una bellezza particolare.
Era ormai in strada
ma i suoi occhi non si erano ancora posati su quella figura
affascinante che ora stava cambiando via perdendosi tra gli abitanti,
lui era
concentrato solo sui suoi pensieri, tanto da riuscir anche a
dimenticare
l’educazione che di solito caratterizzava il suo essere un gentleman, scontrando un
numero considerevole di persone senza
rivolgere loro scuse ne quantomeno uno sguardo.
Ai piedi
dell’ufficio si risvegliò dalla catalessi che lo
aveva invaso, alzò la
testa per poterlo vedere completamente, si soffermò per
qualche attimo in
quella posizione, con gli occhi puntati sui mattoni rossi della
facciata e
sulle finestre con le tendine bianche, le braccia incrociate sul petto
e un
espressione corrucciata, sbuffò in maniera vistosa prima di
tirar fuori il tintinnante
mazzo di chiavi arrugginite e aprire il pesante portone del palazzo;
mettendo
piede nel solito androne un senso di
sicurezza lo accolse, erano anni ormai che lavorava lì
dentro e per lui era
diventata una seconda casa, una dimora accogliente in cui si sarebbe
stati
sicuramente meglio senza i colleghi rumorosi che si ritrovava e che gli
pareva
già di sentire, anzi, diciamo che era proprio certo che
quelle urla
provenissero dal loro ufficio.
Le porte del
vecchio ascensore si aprirono davanti al suo volto riflettendolo
sullo specchio sporco appeso alla parete, abbassando in fretta lo
sguardo evitò
ancora una volta di guardarsi, dando poi le spalle alla parete,
rivolgendo il
suo sguardo alle porte di metallo; lentamente arrivò al suo
piano, facendo i
soliti rumori inquietanti che indicavano ogni volta il giorno in cui
quell’ascensore cadrà come un po’
più vicino; eppure fin ora non era ancora
successo, non si bloccava nemmeno, per qualche strano motivo in quel
palazzo
vecchio di mezzo secolo tutto funzionava ancora piuttosto bene.
Aprendosi di nuovo
le porte si ritrovò davanti alla scritta
“4°” incisa in un
cartello metallico dai bordi arrugginiti, uscì
dall’ascensore, a quel punto le
urla che gli era sembrato di sentire erano diventate concrete, poteva
giurare
di veder addirittura tremare la porta di quell’ufficio
malridotto dove
lavorava.
Con sguardo rassegnato si voltò verso
l’ingresso, chiedendosi come ogni giorno
perché non avesse ancora abbandonato quei poveri incapaci e
rispondendosi
sempre alla solita maniera, semplicemente perché quel lavoro
gli serviva, non
che si fosse affezionato anche solo ad uno di quei deficienti, sia
chiaro.
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