Cap.1
Ecco
la mia seconda fanfiction! ^^
Questa
volta sarà più lunga e, dato che non ho pronti
altri capitoli, gli
aggiornamenti saranno più lenti rispetto a quelli dell'altra
fic, mi
scuso quindi per questo U_U
Il
testo in corsivo è un mio pensiero sul titolo, se lo vedete
troppo
lungo e noioso potete saltarlo non influisce sulla trama. Mi piaceva
però introdurre così...
Preludio****
Ogni
giorno incrociamo lo sguardo di molte persone. Quante volte ci siamo
fermati a chiederci perché qualcuno ci sta guardando? Quante
volte
ci siamo sorpresi nel fissare una persona, solo perché non
ci
piaceva il suo paio di scarpe?
Sin
da quando siamo bambini ci viene insegnato che non bisogna mai
fermarsi alla prima impressione. Eppure ognuno di noi lo fa. Con una
sola occhiata si decide se una persona è bella o brutta. Con
una
sola occhiata decifriamo le espressioni. Con una sola occhiata si
capiscono le emozioni. Con una sola occhiata riusciamo a prendere
decisioni, seppur avventate, ma purtroppo alcune volte necessarie.
Con una sola occhiata riusciamo anche a trasmettere i pensieri. Il
nostro assenso o la nostra disapprovazione. Inarchi un pochino le
sopracciglia. Sgrani leggermente gli occhi. Li rendi sottili come
fessure. Storci leggermente la bocca. Abbassiamo la testa insicuri.
La teniamo alta con orgoglio. Con una sola occhiata possiamo notare
migliaia di espressioni che vogliono dire altrettante cose. Una sola
occhiata può bastare a far risultare interessante una
persona.
Ma
pur sbagliando la maggior parte delle volte, nessuno si può
fermare.
È un istinto del nostro subconscio. Ogni volta che posiamo
per la
prima volta lo sguardo su una persona, facciamo considerazioni, senza
neanche volerlo. Solo il tempo potrà decidere se cambiarle o
meno.
Alcune volte rimangono quelle, alcune volte cambiano. Alcune volte
portano delusioni, alcune volte sorprese.
Ma
l'amore? Non è una scienza, eppure non è neanche
una magia.
Possiamo innamorarci di una persona per il suo aspetto, per la sua
anima, per il suo sguardo e sentirlo eterno in quell'istante. Ma si
sa, in amore può finire anche male, un tradimento, una
bugia, un
litigio o semplicemente perché svanisce la fiamma. E anche
in questo
uno sguardo può dire tutto. Con una sola occhiata puoi
capire se due
persone si amano. Ma puoi capire da uno sguardo se una persona ama
te? Può uno sguardo accendere l'amore che dura tutta la
vita?
E
quindi solo ora pongo la fatidica domanda. Esiste l'amore a prima
vista?
****Capitolo****
I
capelli gli cadevano lunghi sulla schiena.
Erano
quattro giorni che stava rannicchiato per terrà, su quel
pavimento
gelido e lurido. L'odore di nafta invadeva quel posto disgustandolo,
una sola finestra illuminava la stanza. Aveva ignorato la branda
cigolante buttata in angolo, come ignorava tutto del resto. Da quando
lo avevano portato in quella stanza il tempo si era fermato, non
sentiva neanche il battere del suo cuore, ma ignorò anche
questo. Il
suo tempo era fermo.
Occhiaie
scure gli ornavano il volto, aveva l'impressione di non aver mai
sbattuto le palpebre.
Aveva
lo spirito e il corpo distrutti, aspettava di essere pervaso dal
dolore da giorni, invano.
Era
vuoto, non sentiva alcuna emozione e sensazione.
Era
perso, non riusciva a trovare la strada per parlare e muoversi.
Non
era morto.
Non
era vivo.
Un
pensiero occupò la sua mente per una frazione di secondo.
Lui
era o non era?
Sentì
l'istinto di una risata morirgli nello stomaco nel rievocare
l'Amleto, ma non ci mise molto a svuotarsi di nuovo.
Bussarono
per la decima volta alla porta e il ragazzo capì che era
iniziato il
quarto giorno e che erano le 9.30 di mattina. Lasciarono, stavolta in
silenzio, un altro vassoio di cibo sull'unico tavolino nella stanza,
portando via l'altro, che neanche di uno sguardo era stato degnato.
Un sospiro e la porta era chiusa di nuovo. Solo la prima volta,
chiamato per nome, si era ridestato e aveva guardato con disgusto il
cibo sul vassoio, non perché fosse buono o cattivo, ma
perché il
solo pensiero di rimettere in moto lo stomaco gli aveva fatto salire
la bile in bocca. Non era lui questo, solitamente avrebbe divorato
ogni portata senza fare complimenti. Sospirò.
Non
si era cambiato mai di vestiti, aveva gli stessi da una settimana,
anche se sulla branda avevano buttato qualche indumento nuovo. I suoi
bisogni, chiamiamoli intimi e non ignorabili, erano andati scemando
per via del digiuno e oramai non si alzava mai dalla sua postazione
oscura (così la chiamava).
Solamente
quattro giorni fa aveva corso tanto, a perdifiato, senza mai
rallentare il ritmo seguendo l'asfalto della strada per uscire il
prima possibile da quell'inferno. Aveva sentito bruciare le gambe e i
polmoni e aveva stretto i denti per non mollare. Era inciampato e una
volta fermo aveva cominciato a tossire convulsamente per l'enorme
sforzo. Non aveva sentito il cuore in gola, ma nella testa, al centro
della testa, che pulsava e sembrava che avrebbe voluto esplodere. A
quattro zampe aveva cercato di riprendere fiato alzando e
riabbassando irregolarmente il busto. Con occhi sgranati dalla fatica
aveva osservato il sudore mescolato alle lacrime che gocciolava sulla
terra brulla. Si era poi guardato intorno e una volta resosi conto di
non essere neanche fuori città, aveva urlato, alzato i pugni
in
cielo come aspettando un segno da quelle coltri di nubi, che
sembravano essere state spettatrici dello scempio da cui era fuggito
per cercarla. Quando aveva visto che non succedeva, ovviamente,
niente, con un ringhio aveva sbattuto i pugni a terra. Aveva
aspettato che la rabbia rifluisse per sfogarsi, ma il rumore di un
auto lo aveva interrotto. Aveva alzato lo sguardo verso quella e
aveva visto scendere gli uomini che lo avrebbero portato lì,
dov'era
ora. Nella postazione oscura.
A
cercarla, ripensò. Già, perché la
suddetta ragazza era scappata
ben quattro anni prima di lui, per ovviamente altri e futili, secondo
lui, motivi. E perché la cercava poi? Già, non
l'avrebbe più
cercata, non c'erano motivi per cercare quell'incosciente. A parte
una stupida promessa, facile da infrangere...
Ma
si disse che era inutile mentire a se stessi. Non sapeva quante volte
se l'era ripetuto, ma sapeva che l'avrebbe continuata a cercare.
Lui
non aveva più niente. Lei era tutto ciò che gli
rimaneva. Loro,
erano come due metà.
Improvvisamente,
come un fulmine nella sua mente, capì. Capì
perché non l'avevano
più trovata. Ripensò a tutti i pianti della
madre, ogni volta che
il padre tornava la sera a casa scuotendo senza speranza la testa.
Pensò che era ovvio che non l'avevano trovata, conoscendola
avrebbero dovuto cercarla nell'altra metà.
Certo, è anche
probabile che non sarebbero riusciti a trovarla anche se era in
questa di metà, Nerima era immenso. Ma lei...Lui la
conosceva bene,
aveva il suo stesso carattere e se scappare implicava quello che
pensava, sarebbe andata non poco lontano.
Non
solo lontano, conoscendola, il suo lontano non doveva essere solo in
senso fisico...
In
quel momento il suo vuoto si riempì. Aveva un scopo. Doveva
scappare.
Saettò
per la prima volta con lo sguardo per la stanza, sorpreso di esser
riuscito a ritrovare quella facoltà motoria così
facilmente.
Sciolse i muscoli indolenziti delle braccia e delle gambe
rialzandosi, la gioia di sentirli pronti a combattere nuovamente lo
pervase e sentì che il suo tempo aveva ricominciato a
scorrere.
Si
raccolse i capelli in una coda nella mano e si corrucciò di
non
avere un laccio per sistemarli nella sua familiare treccia nera.
Cercò di non darci peso, per non pensare a come aveva
perso
la stringa, e di concentrarsi sul suo obiettivo, lasciandoli cadere
come prima, lunghi sulla schiena.
Vagliò
velocemente le opzioni praticabili. Di sicuro quelli del S.G. non lo
avrebbero lasciato andare così, quindi sarebbe dovuta essere
un'operazione di fuga molto ingegnosa...
Si
guardò intorno e il suo sguardo finì sulla
finestra. Sospirò e si
sentì stupido. Anche se quelli non lo avrebbero lasciato
andare, era
impensabile una sua fuga.
Si
diresse a lunghi passi alla finestra per vedere cosa lo aspettava
fuori e si rese conto di essere al piano terra. Troppo
facile,
sbuffò, poi continuò a guardare e
intravide l'entrata,
sicuramente sorvegliata si disse, e tutto l'intero spiazzo che
occupava l'edificio circondato da un muro. A quel punto fece per
scavalcare la finestra quando il pensiero gli cadde sul lungo viaggio
che lo aspettava e alle energie che gli sarebbero servite, fece
spallucce e prima di andare decise che mangiare non avrebbe occupato
troppo tempo.
Non
appena ebbe dato un morso al pane sentì svegliarsi una fame
vorace
che gli fece rimpiangere di non aver mangiato la cena che era stata
portata via e di doversi accontentare di una colazione.
Finì
velocemente di trangugiare l'ultimo sorso di latte con bramosia, non
sentendosi per niente soddisfatto, ma piuttosto peggio di prima. Ebbe
la tentazione di andarsene dopo il pranzo, ma il suo obiettivo
risalì
al primo posto delle priorità.
Scavalcò
con sicurezza la finestra e con maggior cautela e silenzio possibile
si avvicinò alle mura, che superò con
sorprendente agilità.
Il
suono di un allarme gli penetrò i timpani e gli
gelò il sangue
nelle vene. Come avevano fatto a scoprire così presto della
sua
fuga?! Si infilò velocemente dietro uno stipite del muro. Si
sporse
leggermente e sbirciò verso l'entrata principale e oltre
l'enorme
viavai di guardie notò un piccolo affare grigio, affisso sul
muro.
Una telecamera. Imprecò a mente e uscì dal suo
nascondiglio
correndo, senza temere di essere scoperto, per le vie di quella
città
sconosciuta.
Sentiva
chiaramente i passi dietro di se, scalpitavano sul terreno irregolare
peggio di cavalli. Lanciò un'occhiata veloce alle sue
spalle,
valutando la loro distanza e il loro numero. Non era di questo che
aveva paura, era più veloce di loro e, di sicuro, aveva
percorso
distanze maggiori.
Ciò
che temeva era che prima o poi con le automobili lo avrebbero
raggiunto.
Timore,
paura. Un insulto era per lui, nient'altro. Aggrottò le
sopracciglia
e strinse i denti. Appena una settimana fa avrebbe preso a pugni
chiunque lo avesse accusato di aver paura, ma doveva ammetterlo.
Aveva paura.
Paura
di non trovarla.
Paura
di essere raggiunto.
Aveva
paura delle conseguenze. Del futuro.
Una
via di fuga lo distrasse da quei pensieri che sembravano volerlo far
impazzire. Un uomo, seminascosto dietro un porta di una casa, gli
faceva cenno con la mano di raggiungerlo. Agì d'istinto, con
uno
scatto disumano cercò di seminarli il più
possibile per fiondarsi
dentro. Il tale lo spinse in una botola per poi seguirlo a sua volta.
Finì in uno spazio di massimo un metro quadro con una
debolissima
lampada ad olio vicino ai piedi che gli illuminava solo quelli.
Doveva essere una specie ripostiglio, perché nel momento in
cui
atterrò sul fondo sentì lo scrocchio di alcune
scatole sotto i
piedi. Si disse che avrebbe dovuto rimanere il più fermo
possibile
per non fare rumore. Non capì come si era chiusa tanto
velocemente
la botola, ma sentì uno «Sh» appena
accennato mentre l'uomo di
prima gli teneva giù la testa e poco prima del botto di una
porta
sbattuta contro un muro. Trattenne il fiato mentre sentiva il rumore
dei passi sopra di sè.
«Ah!
Che volete da me?!» Era la voce di un vecchio.
L'individuo
davanti a sé sussurrò con un filo di voce.
«Cavolo, è vero. Abito
col nonno!»
Ma
che diavolo...? Era confuso. Con chi era finito?
«Non
prenderci in giro, vecchio. L'abbiamo chiaramente visto entrare
qui.»
Cominciò a sudare freddo, come colui che aveva appiccicato
addosso
in quel buco in cui erano nascosti.
«Ma
chi?!» Dalla voce del vecchio trapelava non poco panico.
«Ranma
Saotome! Stiamo cercando Ranma Saotome! Ti abbiamo detto che abbiamo
visto che è entrato qui e DI NON PRENDERCI IN
GIRO!» Appena sentì
pronunciare il proprio nome il ragazzo cominciò a tremare e
gli
venne l'istinto di scattare in piedi e scappare, ma, per fortuna
pensò, lo spazio angusto in cui si trovava glielo
impedì. Tremò
perché quel nome lo aveva riportato a ciò che era
stato. A ciò che
era. Alla voce dei suoi genitori, dei suoi amici. Alla sua vita. O
almeno a ciò che era stata una vita.
Fino
a quel momento Ranma si era considerato semplicemente una persona, un
viandante, con uno scopo tuttavia. Era vuoto tranne per quell'unico
obiettivo. Ma il suo nome aveva riportato a galla tutto. Soprattutto
la sua identità, quella che aveva ignorato negli ultimi
giorni,
quella che non aveva più voluto. Cercò un
appiglio, per uscire di
nuovo dalla sua vita e si distrasse ascoltando i rumori esterni.
Sentì diversi tonfi e dei gemiti smorzati, stavano
picchiando quello
che doveva essere il nonno di chi aveva vicino e si lasciò
pervadere
dal senso di colpa. Ricominciando a ignorare la sua
identità.
Fece
per sussurare qualcosa, ma le voci di sopra lo fermarono.
«Tsè, è
svenuto... Perquisite la casa e poi andiamocene, se non lo trovate...
torneremo domani, anche nelle case vicine.»
Risentì
diversi passi muoversi rumorosamente per almeno dieci minuti, poi
silenzio. Quello davanti a sé parlò a voce
normale. «Vieni,
usciamo.»
Ranma
strizzò un poco gli occhi quando vide la luce del giorno
entrare
dalla botola aperta, ma poi lo seguì e vide quello che
doveva essere
il ragazzo di prima. Aveva i capelli castani, chiusi in un piccolo
ciuffetto sulla nuca e portava uno strano abito blu. Afferrò
uno...
spazzolone?... per poi dirigersi con calma verso un vecchio, steso
per terra, un po' livido e con la lingua di fuori. Aveva tutti i
capelli e la lunga barba bianchi tranne che per l'enorme stempiata.
Ranma per un attimo non seppe cosa fare, se chiamare un medico o
chiunque altro, ma vide l'altro ragazzo sbuffare e dire:
«Alzati
nonno, se ne sono andati, mi fai senso lì per
terra.»
Il
vecchio schiuse un occhio con cui esaminò la stanza, poi
balzò in
piedi. «Allora? Avete fame?»
Poco
dopo erano intorno a un tavolo, Ranma non aveva ancora spiccicato
parola, ma stava divorando con ferocia il piatto che aveva aiutato a
cucinare.
«Hai
fame, eh?» Gli fece notare l'altro ragazzo.
Lui
fece solo un assenso col capo senza neanche alzare lo sguardo dal
piatto.
Quando
tutti ebbero finito. Rimasero in silenzio a tavola, il ragazzo col
ciuffetto parlò per primo.
«Allora,
come ti chiami?» Ranma per un attimo si chiese se stesse
scherzando.
Intervenne
il vecchio.«Ah, Shinnosuke! Nipote smemorato! Non hai sentito
prima
quei brutti ceffi urlare il suo nome?!»
«Ah,
è vero. Ti hanno chiamato Ranma Saotome. È questo
il tuo nome,
Ranma?» È un povero idiota, pensò
tristemente
l'interpellato, che annuì deciso in risposta. A quanto pare
avrebbe
dovuto abituarsi a sentir nominare il suo nome, cercò di
strapparlo
da tutto quello che quella stupida parola si portava dietro. Solo
Ranma. Ecco, un nome e basta.
Poi
un'espressione confusa si impossessò di Shinnosuke e
guardò il
nonno. «Ehi, ma scusa, tu chi sei?»
Il
vecchio diede un pugno in testa al ragazzo e lui disse di ricordarsi,
un po' malamente.
Ranma
aprì bocca per fare una domanda, ma non uscì
alcun suono dalla sua
gola. Si ricordò che non parlava da diversi giorni e dovette
fare
uno sforzo non poco trascurabile per articolare le parole e il
risultato non fu eccellente. «Io...Voi... Perché
mi... avete
aiutato?»
Aveva
la voce gracchiante e debole, che odiò subito, ma
sentì che man
mano che parlava andava migliorando.
«Beh,
non so se te ne sei accorto, ma hai mai visto la ricchezza del
centro da cui sei scappato? Hanno le macchine e tutte le loro strane
tecnologie, che dovrebbero essere inesistenti qui a Nerima! Di solito
tutti quelli dotati di tanti soldi stanno nell'altra
metà. Allora
perché loro stanno qui? C'è qualcosa che non
quadra... E poi perché
darsi tanto affanno per cercarti? Cioè, è
normale, ma non con
questa violenza, considerando i loro scopi ufficiali... Ma che
è
quella faccia? Non dirmi che non te n'eri accorto!» In
realtà Ranma
non ci aveva neanche lontanamente pensato, date le condizioni in cui
era, ma... se Shinnosuke avesse avuto ragione? E se quel gruppo
c'entrava qualcosa con lo sterminio da cui era scappato? Che ci fosse
qualcosa di ancora più losco dietro tutte quelle morti lo
angustiava. Cos'altro lo aspettava ancora? Sospirò. A quanto
pare un
“mistero” si era accantonato al suo scopo.
«Beh,
comunque ti ho aiutato perché... Diciamo che mi fido del mio
istinto...»
Stavolta
cercò di chiarirsi la voce tossendo prima di rispondere.
«Ah,
grazie... Ma comunque hai ragione. È strano,
ma...» Fece una pausa
alzandosi. «...non mi riguarda. Io ho ben altro da fare.
Quindi vi
ringrazio dell'ospitalità, ma io mi congedo.»
Shinnosuke
lo fermò. «Aspetta, se eri da solo da quelli. Non
credo che...
insomma, perdona la franchezza, ti rimanga qualcosa...»
L'occhiata
dell'altro lo astenne dal continuare, così cambio domanda.
«Dove
dovresti andare?»
Ranma
rimase un attimo interdetto, lo squadrò per poi decidere che
poteva
fidarsi.
«Io
devo andare...» Abbassò la voce.
«...Nell'altra metà.»
I
due lo guardarono sbigottiti.«Cosa?»
«Non
ti faranno mai passare! Quelli di Nerima non possono andare
là, lo
sai bene! Lo sa bene chiunque! Dì un po' ti sei bevuto il
cervello?»
Aggiunse l'anziano, alzandosi a sua volta.
Ranma
prima di rispondere sospirò rumorosamente. «Si, lo
so! Ma...
dall'altra parte, c'è tutto ciò che mi rimane a
questo mondo.»
Il
vecchio sbuffò mentre Shinnosuke lo guardò con
uno sguardo grave,
si alzò infine anche lui e disse: «Vengo con te, a
Jusenkyo.»
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