Capitolo
1 – Ferite
Eravamo
gli ultimi superstiti di una stirpe quasi estinta, lo diceva
l’aria
di morte che ci entrava nei polmoni a ogni respiro.
Eravamo
l’estremo frutto di una terra agonizzante, nati senza
conoscerne il
motivo, vissuti cercando un senso che forse nemmeno esisteva.
Eravamo
figli e fratelli di una razza matricida, prima accolti nel suo
grembo, poi cacciati come mostri e traditori.
Eravamo
vittime e carnefici in una tortura senza fine e senza senso, i ciechi
giocatori di una partita che ci avrebbe impietosamente distrutti
–
una lotta intestina che non concedeva grazia.
L’epilogo
di tutti noi ci respirava sul collo, ma scambiammo il suo fiato per
la brezza invernale.
Un
falò divorava i pochi ciocchi rimasti, sorvegliato da sei
sguardi
tesi. Fiamme incontrollate erano una condanna a morte come il gelo
notturno, suggeriva l’istinto a quei corpi pronti a fuggire,
e che
avessero acceso un fuoco dava l’idea di quanto
quell’inverno si
stesse rivelando difficile.
Il
silenzio, interrotto solo dai loro respiri pesanti e dal crepitio
della legna, era sceso nella grotta non appena si erano raccolti in
cerchio – ogni parola, ogni ringhio, ogni movimento congelati
nell’attesa che l’ultimo arrivato rivelasse
ciò che aveva
appreso.
Quello,
il più vicino alle fiamme, rimase per diversi minuti con le
mani
tese verso il calore, senza che nessuno osasse porre domande. Anche
seduti a terra sovrastava gli altri di almeno mezza spanna, ma la
vaga aria di superiorità con cui guardava i compagni sarebbe
rimasta
immutata anche se fosse stato meno imponente: era qualcosa nel modo
in cui teneva le spalle dritte, nel barlume di fierezza che gli
animava gli occhi grigi, nell’espressione severa dei tratti
marcati
– nel timore meno intenso con cui osservava il fuoco, anche.
Infine
l’uomo ritrasse le mani e tossì, ottenendo
l’attenzione di
tutti.
«Sono
in zona.» iniziò con voce rauca «Ho
trovato le loro tracce vicino
al ruscello.»
«Quanti?»
chiese un altro, più anziano e tarchiato, riprendendo
vitalità.
«Almeno
cinque. A cavallo.»
«Ci
siamo spinti troppo vicini ai villaggi.» mormorò
una donna, con
l’aria quieta e il grembo rigonfio di chi ospita una vita.
«Ci
avrebbero trovato comunque, Soyi. Sono cacciatori, non contadini
armati di forcone. Prima o poi sarebbe successo.»
«E
quindi?» gli chiese lei, accarezzandosi il ventre.
L’uomo
si passò una mano tra i capelli, esausto ma ancora con la
dignità
del capo.
«E
quindi» sospirò «dobbiamo
andarcene.»
Quattro
voci si levarono contemporaneamente, suggerendo mete e itinerari;
solo una donna rimase in silenzio, dritta e fiera quasi quanto lui,
distogliendo lo sguardo dal fuoco per fissarlo in viso. Quegli occhi
sembravano sfidarlo – non con la minaccia del suo corpo
minuto, né
con parole ostili, ma solo con l’ardente orgoglio di chi non
contempla la fuga.
Continuarono
a scrutarsi anche quando lui ricominciò a parlare.
«Ho
sentito dei ragazzini, oggi. È tutto distrutto lungo il
corso del
Dara, e dalla foce fino a Limne gli Anastatoi hanno preso anche la
costa.»
«Non
è possibile.» ringhiò la donna che lo
fissava «Avrai sentito
male. Meno di una luna fa non erano ancora a Stoma, non possono aver
conquistato tutto quel tratto in così poco tempo.»
«Ho
sentito bene. O forse non ti
fidi di me, Ahdle?»
Lei
sorrise, ma fu più una smorfia ferina, selvaggia come tutto
il suo
aspetto – dai lineamenti decisi ai capelli scuri, ribelli e
aggrovigliati.
«Certo
che mi fido di te, Hetrir. È che non mi fido dei ragazzini
umani.»
rispose, ma sembrò intendere tutto il contrario.
«Anche
noi siamo umani. E ora lasciami parlare.»
La
donna sorrise di nuovo e mosse una mano, in un invito beffardo a
continuare.
«Dicevo,
prima che qualcuno m’interrompesse, che ormai il sud e quasi
tutta
la costa non sono più sicuri. E le Epaeidi del Dara stanno
fuggendo
verso la capitale, dovremo evitare anche loro.»
«Ho
sempre sognato di incontrarne una.» intervenne con aria
svagata un
ragazzino dalla pelle scura, probabilmente il più giovane di
loro «È
vero che possono stregare cantando?»
«Non
ho intenzione di andare a chiederglielo, Khai.» rispose
l’altro
con un’occhiata di rimprovero.
«Potremmo
tornare indietro.» suggerì Soyi, lanciandogli un
breve sguardo
prima di tornare a fissare il fuoco.
«È
rischioso. Non sappiamo com’è la situazione: forse
ci sono ancora
cacciatori, o si è insediato un altro branco, e lottare
attirerebbe
l’attenzione.» o il fronte è
arrivato fin lì ed è stato
distrutto tutto, pensò con un brivido
«No, non possiamo neanche
tornare indietro. L’unica sono le montagne.»
Una
risata stridula riempì l’aria odorosa di fumo
della grotta.
«Oh,
certo. Che sciocchi.» commentò Ahdle, ferocemente
ironica,
continuando a guardarlo negli occhi «Le montagne.
Perché non
c’abbiamo pensato prima?»
«Ahdle.»
la richiamò l’uomo.
«Credi
che moriremo prima di freddo o di fame, Hetrir?»
continuò,
ignorandolo «O magari ammazzati per aver sconfinato nel
territorio
di qualche branco?»
«Ahdle.»
ripeté lui, con un ringhio di gola.
«E
come pensi che possa sopravvivere un cucciolo?»
indicò con un cenno
del capo il ventre di Soyi, e le braccia di lei scattarono
istintivamente a circondarlo «Là ci
sarà neve per almeno altre due
lune. Pensi di chiedere a tuo figlio di nascere più
tardi?»
«Proprio
tu ti preoccupi di mio figlio?»
Lei
sgranò gli occhi; per un attimo sembrò che le
iridi nocciola
fossero diventate lucide, ma poi sbatté le palpebre e tutto
tornò
come prima, se mai era cambiato.
«Potete
continuare senza di me.» sibilò, prima di alzarsi
e voltare loro le
spalle.
* * *
Seduta
all’entrata della grotta, con la schiena poggiata alla gelida
roccia e gli occhi chiusi, sembrava dormire. Un’impressione
ingannevole: sensi ben più fini della vista erano vigili,
non ultimo
l’istinto animalesco del predatore braccato, e i suoi
pensieri
erano ben distanti dal confuso rincorrersi dei sogni. Insensati e
angoscianti, ma comunque spaventosamente lucidi – le era
negato
anche il conforto del non essere in sé.
L’aveva
umiliata di fronte a tutti, e la sua voce era stata una lama
più
crudele dell’acciaio: le parole avevano morso nei punti
più teneri
fino a strappare brandelli di orgoglio, come artigli e zanne non
avrebbero potuto osare su di lei, una femmina del branco –
tabù
radicati nella loro natura bestiale.
Inspirò,
più per distrarsi che per senso del dovere. Muschio e neve e
foglie
marce e animali che si tenevano a distanza. Nessuna traccia umana
nell’aria gelida, solo quella che permeava la coperta rubata
in cui
era avvolta. Fumo e l’odore confortante del branco,
dall’interno
della grotta.
Non
c’era nulla nemmeno da udire, se non fruscii e richiami
animali: la
discussione era cessata da tempo, giungendo a una soluzione che non
le interessava conoscere.
A
un tratto percepì dei passi alle sue spalle e li riconobbe
dall’insolita pesantezza.
«Soyi.»
salutò a bassa voce, aprendo gli occhi «Non
toccava a Nemunas il
turno dopo di me?»
L’altra
si rannicchiò goffamente accanto a lei, impacciata dal
ventre
gonfio, mormorandole: «Ho pensato di venire a farti
compagnia.»
«Fa
freddo, qui. Dovresti stare dentro.»
«Non
importa, un po’ d’aria mi farà bene. Ah,
ho preparato io le tue
cose.»
«Le
mie cose?»
«Be’,
sì. Non ci hai ascoltati?» sorrise senza ironia,
solo con
gentilezza «Dopo la tua guardia, se non hai sentito nessuno
avvicinarsi, ce ne andiamo.»
«Dove?»
«Torniamo
indietro. Se la situazione non è buona, vedremo sul momento
cosa
fare.»
«Improvvisazione.
Finalmente come ai vecchi tempi, eh?»
«Ai
vecchi tempi non c’era un branco da guidare.»
sospirò.
«Un
branco di individui pensanti.» ribatté. E, come a
voler stemperare
l’atmosfera: «A parte Khai, forse, ma lui
è un’eccezione.»
«E
se non lo eliminerà la selezione naturale ci penserai tu,
immagino.»
rise.
«Ovviamente.»
poi tornò seria «Perché Hetrir ha
deciso di cambiare programma?»
«Perché
in effetti le montagne sarebbero impraticabili, con un
cucciolo.» si
accarezzò il ventre con espressione contrita «Devi
scusarlo. Lui-»
«Non
preoccuparti.» la interruppe «Non è
colpa tua se è un imbecille.»
«Non
è nemmeno colpa sua, Ahdle. È tutto
questo.» sussurrò, sapendo
che avrebbe capito, e le cinse le spalle – un gesto che pochi
avrebbero osato, ma che fu ricambiato quasi subito.
Vederle
vicine sembrava strano, quasi insensato. Gli stessi lineamenti
marcati e gli identici occhi nocciola suggerivano uno stretto legame
di sangue, tuttavia nessuno avrebbe potuto confonderle: non era solo
per l’evidente differenza di toni – pelle olivastra
e
chiarissima, capelli bruni e ramati –, ma per qualcosa
nell’espressione e nello sguardo che rendeva impossibile lo
scambio
e ridicolo l’accostamento. Eppure erano lì,
violenza e dolcezza a
confronto, assurdamente abbracciate; un senso c’era, nascosto
nel
sangue e nell’infanzia, e la diversità non bastava
a distruggerlo.
Rimasero
immobili per qualche tempo, strette l’una
all’altra, finché
Ahdle non si allontanò un poco.
«Torna
dentro sul serio, ora. Se ti ammalassi per colpa mia Hetrir
tenterebbe di uccidermi, e non nutro troppo fiducia nei
tabù, in
questo caso.» accennò un sorriso e, rimasta sola,
aggiunse in un
sussurro: «O nella sua pietà.»
In
quella non riponeva alcuna speranza, pensò amaramente,
voltandosi a
osservarla mentre tornava accanto al fuoco. Incontrò un
lampo grigio
mentre il compagno l’aiutava a sedersi e distolse in fretta
lo
sguardo.
Erano
occhi inquietanti, quelli che solo lei nel cerchio aveva osato
fissare: d’argento, come le lame più spietate, con
un bagliore che
poteva essere in ugual misura il riflesso delle fiamme o la luce
feroce della crudeltà. Non c’era spazio per la
compassione, in
quello sguardo, ma solo per l’istinto selvaggio del predatore
–
un istinto che si ostinava a rifiutare, ma senza che la durezza dei
suoi occhi ne risultasse addolcita.
Si
strinse di più nella coperta, rabbrividendo, come se la lana
avesse
potuto proteggerla da ferite ben più in
profondità della carne –
e come se stesse congelando, il che non era poi troppo distante dalla
realtà. Avrebbe potuto muoversi per scaldarsi, se avesse
avuto
energie da sprecare; ma non ne aveva, perciò doveva
accontentarsi di
porre più tessuto possibile tra il proprio corpo e la roccia
gelida.
Oppure avrebbe potuto mutare, per resistere meglio al freddo, ma
Hetrir aveva ordinato di rimanere normali fino alla partenza.
Normali.
L’altra forma non era la loro essenza più
profonda, ma la parte
scomoda, sgradita – almeno secondo lui, che definendoli umani
li
insultava ogni giorno.
Perché,
si chiedeva lei da anni. Perché ripudiare la loro natura,
quando era
più semplice accettarla – la velocità e
la forza e mordere
divorare sopravvivere. Perché fingere di non sentire il
richiamo,
quando ogni muscolo gridava di essere nel corpo sbagliato –
non
c’entravano le fasi lunari o altre sciocche leggende
infondate, era
qualcosa di interiore, l’istinto della bestia che pesava
sullo
stomaco. Perché negare l’esaltazione della caccia
e l’euforia
della corsa, quando erano impresse in loro più delle
emozioni umane
– e tutte le leggi non scritte che seguivano spontaneamente,
i tabù
e la gerarchia e la lealtà.
«Sentito
niente, Ahdle?» le riscosse una voce dall’interno
della grotta.
«Niente.»
rispose, pur sapendo di non essere stata particolarmente vigile.
Un
uomo tarchiato, più anziano, la affiancò
ridacchiando «Va’ pure
dentro a preparati, qui resto io a controllare neve, neve e... ah,
sì, neve.»
«Grazie,
Nemunas.»
Si
alzò, infreddolita dall’immobilità, e
rientrando quasi si scontrò
con un uomo.
«Sentito
niente?» le chiese, brusco.
«L’ho
già detto, Hetrir.» sibilò a denti
stretti, obbligandosi a
fissarlo negli occhi – argento che apriva ferite infette di
umiliazione e rabbia «Niente.»
«Allora
muoviti, stiamo già cancellando le tracce.»
Lei
inspirò e storse il naso.
«E
come pensi di togliere l’odore di fumo?»
«Preferivi
morire di freddo?» ringhiò.
«E
le tracce?»
«È
buio e siamo nel bosco. Pensi che le vedranno?»
«Tra
qualche ora sarà giorno.»
«Tra
qualche ora saremo lontani.»
Lo
urtò con la spalla per passargli accanto e raggiunse il
fondo della
grotta, dove Soyi e Khai si stavano spogliando. Distolse in fretta
gli occhi da lui, chinandosi verso una sacca posata a terra; si tolse
la coperta e il mantello e ve li infilò senza cura, poi
iniziò a
svestirsi.
Un
ringhio minaccioso le salì alle labbra quando, slacciando
lentamente
i bottoni della casacca con le dita rigide, colse lo sguardo del
ragazzino sul suo seno – troppo in basso e troppo giovane per
poter
osare tanto.
«Povero
Khai.» ridacchiò Soyi a bassa voce «Mi
fa tenerezza.»
«A
me fa venire voglia di carne. Viva.» ribatté lei
ben udibile,
lanciandogli un ultimo sguardo minaccioso prima di girarsi verso la
parete.
«Cerca
di capirlo.» si voltò come lei per spogliarsi
completamente «Siamo
in tre, io sono impegnata e Tirani è sua sorella: rimani
tu.»
«Che
si dia all’incesto, se proprio non sa trattenersi.»
Rimasta
completamente nuda, tremante per il gelo che mordeva la carne,
controllò la chiusura della sacca e se la
assicurò alla schiena.
«Andiamo?»
le chiese l’altra, già pronta.
Annuì.
* * *
Alzò
il viso di scatto, smettendo di fissare il fuoco.
«Sono
qui.»
I
compagni lo fissarono straniti, pur essendo ormai abituati al suo
istinto quasi inumano.
«Sono
qui, vi dico.» ghignò.
Questa storia si è classificata seconda al
contest Let's
fly on fantasy's wings! indetto da SunnyPain, con 49/50
punti.
Si tratta del prologo di un'altra storia, in fase di stesura, che
inizierò a pubblicare poco dopo il termine di questa.
Ringrazio Eclectic_Doll che, con la sua serie Esaetter, mi ha ispirato
questa struttura dei capitoli: voce in prima persona e narrazione in
terza.
Per motivi di tempo, aggionerò ogni due venerdì.
Ci rivediamo, quindi, il 25!
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